Il paradosso delle STEM

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Sorprendentemente, sono i Paesi economicamente più avanzati e più attenti alla parità di genere a soffrire di una scarsa presenza femminile nella scienza, nella tecnologia e nella matematica. L’articolo di apertura del Dossier del numero 21 de «La ricerca», “STEM. Roba da ragazze”.

Dato che a mano a mano che si modernizzano, generalmente i Paesi evolvono in una direzione egualitaria, molti potrebbero presumere che le donne nelle società più moderne dal punto di vista economico e culturale godano di una maggiore uguaglianza in tutti i campi. Tuttavia, ciò non vale per la loro presenza nell’ambito scientifico e tecnico.

L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO) mette a disposizione le statistiche sui laureati maschi e femmine e sui loro settori di studio attraverso tabelle che analizzano il periodo compreso tra il 2005 e il 2008 e che riguardano 84 Paesi (dei quali solo 65 hanno sistemi educativi sufficientemente grandi da offrire una gamma completa di programmi e da produrre almeno 10.000 laureati all’anno).

Un modo per classificare i Paesi rispetto alla segregazione formativa nelle scienze sta nel confrontare il rapporto tra laureati maschi e femmine in questo settore con altri campi disciplinari. Utilizzando questo criterio gli Stati Uniti, ricchi e altamente industrializzati, si collocano circa a metà, assieme all’Ecuador, alla Mongolia, alla Germania e all’Irlanda, un gruppo di Paesi abbastanza eterogeneo per quanto riguarda la condizione delle donne.

La presenza femminile nei programmi scientifici è più debole nei Paesi Bassi e più forte in Iran, Uzbekistan, Azerbaigian, Arabia Saudita e Oman (in Iran le donne laureate, indifferentemente dalla materia, sono il 49% del totale, ma questa cifra sale al 67% nelle discipline scientifiche). Sebbene i Paesi Bassi siano considerati una società avanzata per ciò che riguarda i rapporti di genere, sorprende che la presenza delle donne olandesi tra i laureati in scienze sia inferiore di quasi 50 punti percentuali a quella di molti Paesi musulmani. L’equilibrio perfetto nella partecipazione femminile si trova invece in Malesia, dove le donne sono il 57% delle lauree nelle discipline scientifiche come anche in tutte le altre discipline.

Le informatiche della Malesia

La scienza è una categoria ampia ed eterogenea e le scienze della vita, le scienze fisiche, la matematica e l’informatica sono campi con composizioni di genere molto diverse. Ad esempio, secondo il National Center for Educational Statistics, nel 2008 negli Stati Uniti il 60% delle lauree in biologia è stato assegnato a donne, ma questa cifra scende al 19% nel caso dell’informatica. Ad ogni modo, i Paesi del mondo differiscono in modo inaspettato anche quando si analizza la partecipazione femminile in alcuni campi di studio specifici.

Un esempio calzante è l’informatica in Malesia e negli Stati Uniti. Mentre gli informatici americani sono descritti come hacker e smanettoni maschi, l’informatica in Malesia è considerata adatta alle donne, in quanto è vista come un sapere teorico (non fisico) che si svolge quasi esclusivamente negli uffici (pensati come spazi a misura di donna). Nelle interviste con la sociologa Vivian Lagesen, le studentesse di informatica malesi hanno riferito di aver iniziato ad avvicinarsi a questa disciplina perché interessate ai computer e perché spinte dai genitori, convinte che in questo settore vi fossero buone prospettive di lavoro. Hanno anche accennato agli sforzi del governo, che, per promuovere appieno lo sviluppo economico, ha scelto di istituire corsi di formazione in tecnologia dell’informazione, rivolgendosi in ugual modo sia ai maschi sia alle femmine.

Le ingegnere indonesiane

Un altro interessante esempio è quello dell’ingegneria, un campo di studio in tutto il mondo fortemente frequentato dagli uomini, ma la cui composizione di genere varia ampiamente da un Paese all’altro. Il dato più interessante è che la rappresentanza femminile è generalmente inferiore nelle società industriali avanzate rispetto a quelle in via di sviluppo.

In un articolo del 2009 sull’«American Journal of Sociology», Karen Bradley e io abbiamo sostenuto questa tesi utilizzando statistiche della metà degli anni Novanta, poi confermate da quelle più recenti raccolte dall’UNESCO. Tra il 2005 e il 2008, la lista dei Paesi con i programmi di ingegneria più frequentati dagli uomini include le principali democrazie industriali del mondo (Giappone, Svizzera, Germania e Stati Uniti) insieme ad alcuni Paesi del Medio Oriente, quelli più ricchi di petrolio, nonostante il fatto che in questi Stati (Arabia Saudita, Giordania ed Emirati Arabi Uniti) le donne siano molto ben presenti nelle facoltà scientifiche.

Sebbene in nessun Paese le donne raggiungano il 50% delle lauree in ingegneria, in Indonesia ci si avvicina a tale cifra. Qui infatti le laureate di questa materia sono il 48% del totale e le ragazze non sembrano mostrare alcun tipo di prevenzione verso di essa, dato che più in generale la loro partecipazione agli studi accademici, in ogni ambito, si assesta al 49%. Un fenomeno simile si verifica anche in un gruppo eterogeneo di altri Stati, tra i quali spicca la Mongolia, in cui le donne costituiscono circa un terzo dei neolaureati in ingegneria.

Anche le interviste alle ragazze malesi registrate da Lagesen suggeriscono una situazione analoga, complicata però da distinzioni di genere relative ai sotto-campi dell’ingegneria. Una studentessa, ad esempio, ha dichiarato che «in ingegneria chimica, la maggior parte delle volte lavori nei laboratori… Quindi penso che sia abbastanza adatta anche per le donne. Ma non è la stessa cosa per l’ingegneria civile… in quel caso dobbiamo andare sul posto e controllare le costruzioni».

Quando lo sviluppo utilizza tutte le risorse

La presenza relativamente debole delle donne nei campi STEM negli Stati Uniti è in parte attribuibile ad alcune caratteristiche economiche, istituzionali e culturali comuni alle ricche democrazie occidentali.

Una di queste consiste nella grande diversità di percorsi educativi e occupazionali. Nell’Occidente industriale, man mano che i sistemi scolastici crescevano e si democratizzavano, gli educatori, i responsabili politici e gli attivisti non governativi hanno cercato di smussare il maschilismo dell’educazione tradizionale sviluppando programmi di studio culturalmente e funzionalmente più adeguati ai ruoli domestici e sociali delle donne. Questa scelta ha comportato l’espansione di corsi nelle arti liberali e lo sviluppo di professionalità in qualche modo collegate all’economia domestica, come l’assistenza infermieristica e l’educazione della prima infanzia.

I successivi sforzi per migliorare la presenza femminile negli studi superiori hanno contribuito all’espansione degli studi umanistici e, più recentemente, alla creazione di nuovi campi come lo sviluppo umano e i women’s studies. Tutte iniziative supportate, in queste società, da una rapida espansione dei posti di lavoro nel settore dei servizi.

Nei Paesi con economie in via di sviluppo e in transizione, invece, le politiche educative sono state guidate da preoccupazioni di carattere economico più che dallo sforzo di valorizzare le presunte capacità femminili.

La grave carenza di lavoratori istruiti ha spinto i governi e le agenzie di sviluppo a supportare gli studi STEM e spesso questi sforzi sono avvenuti proprio negli anni in cui in questo ambito sono nate molte nuove specializzazioni, ancora non connotate, in quella fase iniziale, da alcun pregiudizio di genere.

Il lusso di scegliersi un percorso

Un’altra possibile ragione della maggior segregazione sessuale nelle discipline STEM registrata nei Paesi ricchi potrebbe essere che in questi contesti più persone (ragazze e donne in particolare) possono permettersi il lusso di scegliere un percorso di studio meno promettente dal punto di vista economico ma più congeniale ai propri gusti.

Nelle famiglie delle società in via di sviluppo, invece, le preoccupazioni centrali di giovani e genitori riguardano la sicurezza economica personale e le esigenze poste dallo sviluppo nazionale. Vi sono quindi meno libertà e sostegno per la realizzazione delle preferenze specifiche di genere. Per ironia della sorte, la libertà di scelta, tanto celebrata nelle ricche democrazie occidentali, sembra favorire la costituzione di identità di genere stereotipate.

D’altra parte, però, l’argomento secondo cui la segregazione sessuale nelle STEM dipende da una libera scelta delle donne occidentali non dovrebbe tradursi nella tesi secondo cui tali preferenze sono innate. Le aspirazioni di carriera, infatti, sono influenzate da convinzioni su noi stessi (in cosa sono bravo e cosa mi piace fare?), da credenze sugli altri (cosa penseranno di me e come risponderanno alle mie scelte?) e dalle informazioni a disposizione sulle varie proposte educative e lavorative (come faccio a decidere quale campo perseguire?). E tutte queste considerazioni sono fortemente influenzate dal patrimonio culturale. La segregazione sessuale è una forma di disuguaglianza particolarmente resistente perché le persone supportano, mettono in atto e celebrano gli stereotipi culturali sulla differenza di genere.

Credere nella differenza produce la differenza

Il famoso consulente relazionale John Gray ha creato una serie di prodotti di auto-aiuto di grande successo in cui sottolinea la differenza fra maschi e femmine, al punto che li si potrebbe pensare come provenienti da pianeti diversi. È vero che oggi la stragrande maggioranza degli americani crede che le donne dovrebbero avere uguali diritti sociali e legali, ma è altrettanto diffusa la convinzione che maschi e femmine siano molto diversi e che differenti predisposizioni innate spingano gli uni e le altre a scegliere liberamente percorsi di vita distintamente maschili o femminili. Ci si aspetta che le donne e gli uomini scelgano carriere che consentano di sviluppare i loro interessi precostituiti, cioè nell’aver a che fare con le persone, per le donne, e con le cose, per gli uomini.

Il fatto è che credere nella differenza può effettivamente produrre la differenza stessa. Recenti ricerche sociologiche provano che gli stereotipi culturali sulla differenza di genere modellano le credenze degli individui rispetto alle proprie competenze (“autovalutazioni”) e influenzano il loro comportamento in direzioni coerenti con questi stereotipi. Le rappresentazioni culturali onnipresenti delle materie STEM come intrinsecamente maschili riducono l’interesse delle ragazze nei campi tecnici, convincendole del fatto che le competenze correlate a questo ambito non siano a loro congeniali.

Il fatto che gli stereotipi di genere, per quanto riguarda la scelta delle carriere professionali, siano credenze che si auto-avverano, producendo quindi essi stessi la realtà che proclamano di descrivere, è ben dimostrato da un esperimento realizzato dalla psicologa sociale Shelley Correll, della Stanford University.

Questa ricercatrice ha somministrato a un certo numero di studenti, maschi e femmine, domande che avevano lo scopo dichiarato di testare la loro competenza in un compito specifico, per esempio la “sensibilità al contrasto”, ossia la capacità di vedere se in un rettangolo composto da riquadri bianchi e neri erano più i primi o i secondi.

Prima del test i soggetti sono stati divisi in due gruppi, ai quali sono state fornite spiegazioni diverse di questa competenza, descrivendola in un caso come una prettamente maschile e nell’altro come indifferente al genere. In realtà il test non prevedeva risposte oggettivamente giuste o sbagliate, e a tutti i partecipanti sono stati assegnati “punteggi” personali pressoché identici. La cosa notevole è che, quando si è passati a una discussione finale collettiva sui risultati del test, i maschi del primo gruppo hanno valutato le loro prestazioni in modo più elevato rispetto alle studentesse, sebbene queste avessero ottenuto lo stesso punteggio. Solo i maschi hanno desunto dall’esperienza la convinzione di poter aspirare a un lavoro che richiede una dose di “sensibilità al contrasto”. Tra i soggetti del secondo gruppo non sono invece emerse considerazioni differenziate rispetto al genere.

I risultati di Correll suggeriscono che le convinzioni sulla differenza possono produrre divari di genere nell’autostima anche in assenza di differenze effettive nelle capacità o nelle prestazioni. E se queste convinzioni portano le ragazze a evitare i corsi di matematica, emerge un deficit che conferma lo stereotipo iniziale.

La preoccupazione per queste profezie che si auto-avverano è stata una delle ragioni del furore pubblico scoppiato nel 2005, quando Lawrence Summers, allora dirigente dell’Università di Harvard, affermò che le differenze biologiche innate potrebbero spiegare la presenza inferiore delle donne in matematica e nelle scienze di alto livello. I critici di Summers, fra cui molti docenti di Harvard, hanno reagito con rabbia, argomentando che tali ipotesi avanzate da parte di un importante leader educativo possono influire pesantemente sulla realtà, riducendo di fatto la fiducia e l’interesse delle ragazze nelle carriere STEM.


Tratto da: M. Charles, What Gender Is Science, in «Contexts. Sociology for the public», estate 2021.

Traduzione di Francesca Nicola


Approfondire

  • S. J. Correll, Constraints into Preferences: Gender, Status, and Emerging Career Aspirations, in «American Sociological Review» (2004), 69:93-113.
  • P. England, The Gender Revolution: Uneven and Stalled, in «Gender & Society» (2010), 24:149-166.
  • W. Faulkner, Dualisms, Hierarchies and Gender in Engineering, in «Social Studies of Science» (2000), 30:759-92.
  • S. Fenstermaker e C. West, Doing Gender, Doing Difference: Inequality, Power, and Institutional Change, Routledge, 2002.
  • C. L. Ridgeway, Framed by Gender: How Gender Inequality Persists in the Modern World, Oxford University Press, 2011.
  • Yu Xie e K. A. Shauman, Women in Science: Career Processes and Outcomes, Harvard University Press, 2003.
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Maria Charles

fa parte del dipartimento di Sociologia dell’Università della California, Santa Barbara. È coautrice di “Occupational Ghettos: The Worldwide Segregation of Women and Men”.

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