Il paradosso della donazione #3

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Col paradosso della donazione Derrida ha «fatto scomparire» il dono. La settimana scorsa, ho cercato di «rimettere le cose a posto». Si trattava però di un esito che rischiava l’effimero, in assenza di una definizione di dono capace di offrire un impianto concettuale solido. Oggi è tempo di trovare tale definizione.

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Abbiamo visto la settimana scorsa che sono inadeguate le definizioni di dono: «ciò che si abbandona a qualcuno senza ricevere da lui nulla in cambio» e «trasferimento che non è oggetto di un contratto». Certo, esse catturano alcune caratteristiche della donazione, però presentando anche difetti per cui vanno respinte. Continuando a ripercorrere la disamina offerta da J.T. Godbout in Quanti doni? (in Il codice del dono. Verità e gratuità nelle ontologie del novecento) si trova la definizione: «Modo di circolazione delle cose in cui chi riceve è libero (giuridicamente) a sua volta di donare». Questa definizione nasconde, neanche troppo bene, una circolarità: vi si dice che «chi riceve è libero di donare». Ma cosa sia la donazione e il donare è proprio ciò che la definizione doveva chiarire, nemmeno mediante questa definizione si sono perciò fatti passi avanti.

Prima di passare alla mia proposta di soluzione, vorrei esaminare un’ultima definizione, questa volta proposta da Godbout: «Ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone» (J.T. Godbout, Lo spirito del dono, trad. it. di A. Salsano, Torino, Boringhieri, 1993, p. 30). Qui il grande teorico del dono, mi pare compia un errore istruttivo: pone il legame come una finalità del dono cadendo in una fallacia di non causa (finale) pro causa. Che il legame solitamente sia una conseguenza (ma è anche solitamente il contesto originario) del gesto di donazione è vero, ma ciò non consente di concluderne che ne è il fine, anche semplicemente inconsapevole. Mi pare piuttosto che il legame sia, al massimo e semplificando un po’, una conseguenza non intenzionale di un atto di donazione intenzionale.

Ed ecco la soluzione che propongo (ne offro una versione sintetica e semplificata, e rimando quiper la versione più ampia e rigorosa). In primo luogo bisogna prendere atto che la parola «dono» è usata in maniera ambigua. A volte significa l’atto, altre volte il contenuto della donazione, il suo oggetto. Perciò, tenendo ferma la distinzione tra i due casi, in senso stretto per dono intendo l’ente o gli enti i cui diritti l’agente sociale a trasferisce all’agente sociale b, attraverso un gesto di donazione. Non vi è circolarità, perché ora definisco anche «donazione» in maniera non circolare: l’atto sociale intenzionale che un agente sociale a compie a vantaggio di un agente sociale b, tale che a non possa poi accampare alcuna legittima pretesa di reciprocazione. Si tratta di due definizioni che mantengono una prospettiva che tenga conto della prima persona, responsabile degli atti svolti. Facendo ontologia del dono, è importante distinguere accuratamente l’ente dall’atto e bisogna farlo caratterizzando compiutamente ciascuno dei due. Le due definizioni che propongo sono compatibili con gli argomenti che ho svolto contro Derrida. Questi puntava sul «per niente», giungendo agli esiti insostenibili che abbiamo visto. Qui invece ho legato la donazione all’assenza di una legittima pretesa di reciprocazione e però anche all’intenzione buona dell’agente (che cerca di compiere un atto per l’altro). Se il secondo atteggiamento è pro sociale, il primo garantisce alla socialità spazi di libertà che la rendono un ambito in cui giocarsi sentendosi protagonisti dei propri atti e non ingranaggi di un meccanismo sociale che sovrasta. I legami vengono subito «dopo», spesso sono esperienza di libertà e forza, altre volte sono drammatici meccanismi che imbrigliano e soffocano.

Al lettore che fosse stato un po’ deluso di trovare delle definizioni tanto fredde circa un tema così caldo, posso solo far notare che la teoria è fredda per natura e che, se l’ho deluso, non posso che chiedergli perdono. «Perdono»?

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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