Il mito del “gender”: narrazione, retoriche, implicazioni politiche

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Abbiamo chiesto a Dario Accolla 
di spiegarci come nasce, secondo lui, 
e a cosa mira la cosiddetta “
ideologia del gender”.

Da molti mesi ormai il termine gender – vocabolo inglese che si traduce in italiano con “genere” – ha acquisito ampio spazio nella comunicazione pubblica e nel mondo dell’informazione. Parola in verità non del tutto nuova, è rimasta per anni nella nicchia di quanti l’associavano (e l’associano tutt’ora) alla categoria dei gender studies. Negli ultimi tempi in Italia, tuttavia, tale voce ha conosciuto una grande fortuna in ambiti politici ben specifici attraverso un processo che potremmo chiamare di ridefinizione semantica, in senso negativo.
Vedremo di seguito cosa si intende con il termine in questione, chi sono gli artefici della sua narrazione e quali sono i fini politici e socio-culturali che esso porta con sé. Si premette da subito che in questa sede si analizzerà l’accezione che ne danno i suoi detrattori, ovvero quella presunta ideologia che mirerebbe al sovvertimento dell’ordine naturale della sessualità umana e all’abbattimento della differenza tra i generi.

Origine del “gender”
Riguardo la cosiddetta ideologia di genere, Sara Garbagnoli – in un suo recente studio – ci ricorda che «pochi ancora sanno che l’espressione è stata coniata all’inizio degli anni 2000 in alcuni testi redatti sotto l’egida del Pontificio Consiglio per la Famiglia con l’intento di etichettare, deformare e delegittimare quanto prodotto nel campo degli studi di genere», e che è in circolazione «da almeno due anni a questa parte, a partire dal momento in cui il suo impiego è migrato dai testi vaticani per diventare parte degli slogan scanditi da migliaia di manifestanti mobilitatisi (in Francia e in Italia, soprattutto) contro l’adozione di riforme giuridiche miranti alla riduzione delle discriminazioni subite dalle persone non-eterosessuali».
Nasce perciò nel mondo cattolico, grazie a un documento ufficiale del Vaticano, con un duplice obiettivo: influenzare il nostro contesto politico, in cui da anni si discutono provvedimenti come il DDL contro l’omo-transfobia e quello più recente sulle unioni civili, e screditare i gender studies. Si ricordi che con tale dicitura si intende un approccio interdisciplinare di studi in ambiti molto vari, dalla sociologia alle scienze giuridiche, dalla psicologia alla linguistica, ecc. [si veda a questo proposito l’articolo di Paola Schellenbaum pubblicato su questa rivista, N.d.R.]. Questi possono essere descritti, peraltro, come «pensiero della differenza» che utilizza l’incontro tra le varie materie per approfondire i «significati socio-culturali della sessualità e dell’identità di genere». Attraverso essi si vuole ridefinire quell’equilibrio di potere sui corpi basato sull’asse maschile-femminile e tradizionalmente calibrato su una visione androcentrica, patriarcale e sessista.
I gender studies mirano a favorire condizioni di maggior equilibrio tra generi e identità sessuali. Ne consegue che, chi vi si oppone, è contrario al fatto che uomini e donne siano uguali.Da tutto ciò emerge un’evidente conseguenza: il potere religioso, che su quell’equilibrio ha strutturato il proprio sistema di dominio, si sente minacciato in quanto rischia di perdere terreno come guida morale autorevole proprio a cominciare dalle dinamiche del rapporto tra i generi. Nell’applicazione pratica di questi studi, con i percorsi di educazione alle differenze nelle scuole, le istituzioni religiose corrono il rischio di veder ridotta la loro influenza culturale e morale sull’intera società. Non solo nella questione dei rapporti di potere tra uomo e donna ma anche nell’ambito delle identità sessuali, con l’emancipazione delle sessualità non normative (SNN). Le gerarchie religiose delle fedi abramitiche, ci ricorda Franco Buffoni, basano la loro autorità sul mantenimento di questo (dis)equilibrio tra generi e orientamenti, a discapito di ogni categoria sociale diversa da ciò che è maschio, bianco, eterosessuale e (nel mondo occidentale) cristiano. I gender studies rimodulano gli equilibri tra generi e identità sessuali in senso più paritario. Lo scontro appare, perciò, inevitabile.

Gli oppositori del “gender”
Per paradosso chi si oppone al “gender” rappresenta, allo stesso tempo, il suo sponsor più tenace. È bene a questo punto sgombrare il campo da ogni possibile confusione. I creatori di tale mito fanno parte di un gruppo politico omogeneo che si oppone alle acquisizioni dei gender studies. A tal fine si è costruito un vero e proprio “mostro”, che non corrisponde tuttavia con quanto previsto dagli studi in questione. Essi, infatti, mirano a favorire condizioni di maggior equilibrio tra generi e identità sessuali. Ne consegue che, chi vi si oppone, è contrario al fatto che uomini e donne siano uguali e che le SNN abbiano gli stessi diritti della maggioranza normata.
Detto questo, vediamo chi sono tali oppositori.
Si è già detto che esso nasce in contesti ecclesiastici ben precisi. Autorevoli voci del mondo cattolico si sono pronunciate in merito. Angelo Bagnasco, segretario della Conferenza Episcopale Italiana, nel marzo del 2014 si scagliò contro Educare alla diversità a scuola, i libretti dell’UNAR colpevoli di istillare tra i bambini «preconcetti contro la famiglia, la genitorialità, la fede religiosa, la differenza tra padre e madre». Secondo il cardinale, quando a scuola si diffonde l’ideologia del “gender” – insieme ad altri mali quali unioni civili, trattamento di fine vita, libera sessualità e divorzio – viene compromessa «la vocazione integrale della persona umana».
Da lì in poi, abbiamo registrato un crescendo di iniziative dentro le amministrazioni locali in cui si approvano mozioni anti-gender. A Venezia il neoeletto sindaco Brugnaro ha fatto ritirare dalle biblioteche scolastiche tutti quei testi adottati da anni con lo scopo di creare un ambiente più favorevole nei confronti di tutte le diversità. A Milano, nel gennaio 2015, il governatore Roberto Maroni ha patrocinato con il logo dell’Expo un convegno in cui si è parlato di difesa della famiglia tradizionale. Più recentemente Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni, ha avviato una campagna contro il “gender”, utilizzando in modo improprio e fuorviante le immagini di Leelah Alcorn, una ragazza transessuale morta suicida per la transfobia a cui era stata sottoposta.
Proliferano nel frattempo associazioni legate ideologicamente sia ai settori della destra più conservatrice sia all’ala più oltranzista della chiesa cattolica. Ricordiamo tra esse: la Manif pour tous Italia, calco della corrispettiva realtà francese nata per impedire il matrimonio egualitario introdotto da Hollande, e le Sentinelle in piedi, nelle cui veglie silenziose vengono letti libri in piazza con lo scopo di tutelare la libertà di pensiero che le leggi a favore delle persone LGBT metterebbero a repentaglio. Accanto a esse vanno ricordate infine alcune singole personalità la cui notorietà si lega alla crociata contro il “gender”: l’ex deputato del Partito democratico Mario Adinolfi; la scrittrice Costanza Miriano, autrice del controverso Sposati e sii sottomessa; Gianfranco Amato, presidente dell’associazione Giuristi per la vita, al centro di infuocate polemiche per i suoi tour – con il supporto delle parrocchie – in cui dichiara di essere fieramente omofobo; Massimo Gandolfini, portavoce del Family Day del 20 giugno 2015 a Roma.
La sinergia di questi personaggi e il supporto della stampa specializzata (dai tradizionali giornali cattolici ai siti nati appositamente, come «La croce» di Adinolfi) stanno al centro di questa battaglia ideologica.

Strategie linguistiche e retoriche
Analizzando il linguaggio utilizzato nella costruzione del mito del “gender” affiorano alcuni aspetti caratterizzanti, su cui è il caso di soffermarsi. Emerge innanzitutto un’operazione culturale promossa da specifici settori sociali – ultraconservatori e religiosi – che crea categorie esterne in cui è difficile riconoscersi per associarle a un immaginario cupo, temibile e pericoloso per la nostra felicità. Si assiste, in altri termini, a una vera e propria strategia del terrore. Partiamo dal termine in questione: “gender” è un esotismo, lontano dalla nostra quotidianità linguistica, posto in rapporto oppositivo con altre parole a noi più familiari quali “famiglia”, “matrimonio”, “bambini”, “scuola”, ecc. Si innesca quindi un processo di contrapposizione tra due realtà: la presenza del “gender” mette a rischio, nella coscienza collettiva, l’esistenza di categorie a noi care e quotidiane.
Sempre a livello lessicale, ricorrono con una certa insistenza quei termini legati al linguaggio della violenza fisica e sessuale: si pensi allo slogan “giù le mani dai bambini” o alla narrazione di scenari apocalittici di liberalizzazione di pratiche oscene e devianti come nel caso del famigerato volantino distribuito prima del Family day del 2015 e poi riproposto sui social network, per cui la recente riforma scolastica – rea di combattere le discriminazioni anche omofobiche – avrebbe previsto la masturbazione in aula tra bambini e adulti, la visione di materiale pornografico e l’uso di giocattoli erotici.
Ancora, si può riscontrare la ripoliticizzazione – e quindi, un ulteriore slittamento semantico – di termini della sfera familiare. “Famiglia” viene declinata solo al singolare, per escludere le altre realtà, soprattutto quelle formate da persone dello stesso sesso. L’uso del termine “genitore” nei documenti scolastici viene descritto come elemento che nega l’identità dei ruoli familiari – su Twitter e Facebook diversi utenti hanno pubblicato fotografie di moduli in cui si cancellavano formule burocratiche quali “firma di un genitore o di chi ne fa le veci” per sostituirle con i più rassicuranti “padre” e “madre” – mentre sui social le persone più attivamente impegnate nelle veglie utilizzano nelle proprie biografie i termini “papà”, “mamma”, “marito”, “moglie”, “cattolico/a” in funzione ideologicamente connotata e esplicitamente in chiave anti-gender.
Tale narrazione porta a una vera e propria demonizzazione di quanto individuato come “gender”: si crea infatti il nemico e non si spiega davvero cosa esso sia. Anzi, lo si descrive in modo contrario rispetto a quello che i gender studies rappresentano. Tale processo non è nuovo. In passato, infatti, è stato adottato nella costruzione linguistica di altre minoranze o è stato promosso nel momento in cui la società civile ha preteso l’allargamento dei diritti politici, individuali, ecc. Tre esempi sono paradigmatici in tal senso.
Lo storico Roberto Finzi, in un suo studio, descrive il processo di costruzione del pregiudizio contro il popolo ebraico attraverso tre procedimenti: indicare gli ebrei come destrutturanti per la società (tendevano a escludersi dal consesso dei “normali”), pericolosi per l’ordine mondiale (attraverso l’invenzione dei Protocolli dei Savi di Sion, presunta congiura per instaurare il controllo del pianeta) e insidiosi per le giovani generazioni (con il rituale della Pasqua ebraica, in cui si sacrificavano bambini impastando gli azzimi con il loro sangue, secondo una leggenda in voga in Europa). La creazione del mito del “gender” segue la stessa logica, in quanto minaccerebbe le fasce più giovani della popolazione sotto la regia più o meno occulta della presunta “lobby gay”, il cui scopo sarebbe quello di “omosessualizzare” la società.
Sul sito MrMondialisation è apparso un articolo in cui si riproducono alcune immagini della campagna contro il suffragio femminile messa in moto in Francia e nei Paesi anglofoni. Anche in tal caso, il diritto di voto alle donne è visto come una minaccia all’equilibrio del rapporto tra i generi. Se la donna avesse votato, il pater familias sarebbe stato sminuito nella sua funzione di padre e marito, costretto a vestire abiti femminili e a lavorare in casa. Interessante il destino riservato ai bambini: tra le tante spicca l’immagine di una fanciulla costretta a vestirsi da sola, in lacrime.
Ricordiamo, infine, l’articolo di Alessandro Casellato pubblicato sul sito della Treccani proprio all’indomani del Family day 2015 a Roma, nel quale l’autore ricorda il caso degli scout laici di Pozzonovo, nel padovano, i cui capi – rei di appartenere al PCI e in concorrenza con la parrocchia locale – vennero accusati, guarda caso, di aver corrotto i bambini attraverso pratiche blasfeme e violenza sessuale.
A ben vedere, da tutti questi esempi si profila una costante retorica, per cui ciò che sfugge al concetto di norma rappresenta in automatico una minaccia per la tenuta sociale. A livello simbolico i bambini rappresentano sia il nostro futuro, attraverso la trasmissione della nostra eredità genetica e valoriale (proprio attraverso la genitorialità), sia i caratteri di innocenza e purezza. Chi mira ad essi, mettendoli in pericolo, mira all’intero corpo sociale e alla sua sopravvivenza. La narrazione sul “gender” mira a generare questo tipo di paura collettiva.

Implicazioni politiche
A voler fare una rapida ricostruzione, i movimenti che si oppongono all’ideologia di genere sono emersi nel periodo in cui si è discussa (e mai approvata definitivamente) la legge Scalfarotto sull’omo-transfobia.La già citata piazza del Family Day, aizzata contro il “gender” a scuola, ha prodotto due slogan: “giù le mani dai bambini” e l’hashtag #stopCirinna, contro la legge che dovrebbe approvare le unioni civili. Se la prima formulazione riprende quanto detto in precedenza sull’immaginario legato alle future generazioni, è più complicato rintracciare un legame diretto tra ideologia di genere, la scuola e civil partnership. Tale legame, tuttavia, è sintomatico delle reali motivazioni politiche che spingono i movimenti anti-gender, ovvero la negazione di qualsiasi tentativo di legiferare a favore delle persone LGBT: dalle leggi di tutela contro le aggressioni, all’educazione alle differenze a scuola, ai programmi di prevenzione del bullismo omo-transfobico fino al riconoscimento delle unioni.
Non è questa la sede per un approfondito excursus storico sulla questione, ma a voler fare una rapida ricostruzione, i movimenti che si oppongono all’ideologia di genere sono emersi nel periodo in cui si è discussa (e mai approvata definitivamente) la legge Scalfarotto sull’omo-transfobia – allacciando il dibattito alla libertà di espressione e configurando l’omofobia come forma di libertà di pensiero – e hanno successivamente legato la loro esistenza e le loro battaglie alla resistenza contro il “gender” e, parallelamente, al tentativo di legiferare a favore delle unioni tra persone dello stesso sesso.
Tenuto conto di tutto questo, potremmo sentirci autorizzati a pensare che legare il mito – o fantasma, a questo punto – del “gender” ai diritti delle persone LGBT sia un ultimo tentativo trovato dalle forze tradizionalmente ostili ad esse per ritardare un cambiamento politico su scala planetaria che configura la liberazione della gay community come ulteriore anello di un lungo processo di affermazione di diritti, processo che ha riguardato altre categorie sociali nei secoli scorsi, quali la fine dello schiavismo, il voto alle donne, i diritti delle classi operaie, l’emancipazione del popolo ebraico e l’affermazione della libertà della persona (attraverso le leggi su divorzio e interruzione di gravidanza).

Considerazioni finali
Si sarà notato che per tutta la trattazione si è seguita la distinzione grafica tra gender studies e “gender”. La scelta non segue solo motivazioni pratiche (per cui certi esotismi prevedono il corsivo), ma anche di tipo culturale: con essa voglio segnare la distinzione tra due visioni di società, una di tipo laico-progressista e l’altra di natura religioso-conservatrice. Il cosiddetto “gender” è messo tra virgolette perché non segue la realtà dei contenuti degli studi di genere ma si piega a una ricostruzione falsata e connotata politicamente, come per altro si è cercato di dimostrare.
Assistiamo, in altri termini, a una vera e propria disputa tra quelle due visioni. Al centro di essa si colloca l’autodeterminazione dell’individuo e la sua dignità, elementi che però collidono con la pretesa di controllo sociale da parte del potere precostituito (quello religioso, in primis). Il campo di battaglia sembra essere dunque quello dei diritti civili. Il nostro Paese si sta forse configurando, in un contesto globale in veloce cambiamento, come l’ultima ruota del carro di un mondo occidentale e proiettato nel progresso civile? Non sarebbe la priva volta, ma questo argomento richiederebbe una trattazione più ampia e dettagliata.
Preoccupa, in questo quadro, l’inadeguatezza della nostra classe politica tutta (anche di chi si propone come radicalmente nuovo rispetto al passato) che non riesce a rispondere alle esigenze di rinnovamento sociale e a frenare in modo adeguato le invasioni di campo di quelle frange ultraconservatrici che mirano a ridurre le libertà individuali e, in prospettiva più ampia, democratiche. La questione del “gender” investe questo tipo di battaglia culturale, sociale e politica.

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Dario Accolla

È insegnante, blogger, attivista LGBT e saggista. Ha conseguito il dottorato in Filologia moderna presso l’Università di Catania ed è appassionato di Linguistica italiana e gender studies. Collabora attivamente con il comitato territoriale di Arcigay QueeRevolution a Catania e con il Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli, a Roma. Scrive sul suo blog, Elfobruno, per «Il Fatto Quotidiano» e per «Italialaica». Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: “I gay stanno tutti a sinistra – Omosessualità, politica, società” (Aracne, Roma 2012), “Mario Mieli trent’anni dopo”, con Andrea Contieri (Circolo Mario Mieli, Roma 2013), la raccolta di racconti “Da quando Ines è andata a vivere in città” (Zona, Arezzo 2014) e “Omofobia, bullismo e linguaggio giovanile” (Villaggio Maori Edizioni, Catania 2015).

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