Il minimalismo metafisico di Valsecchi a Foto/Industria

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La biennale di fotografia dell’industria e del lavoro organizzata a Bologna dalla fondazione MAST termina domenica 19 novembre: un’occasione d’incontro con la poetica del fotografo Carlo Valsecchi.

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All’Ex Ospedale dei Bastardini, in via d’Azeglio, è un martedì pomeriggio di novembre e davanti a me c’è una porta azzurra. Sul soffitto una fila di piccole luci gialle conduce alla porta. La stanza è bianca. Il bianco, l’azzurro acquoso ed esatto della porta, il giallo come traccia. Rapporti perpendicolari tra pareti e porte, linea di fuga nelle luci. La prospettiva rinascimentale mi chiama a sé – e poi mi sbarra la strada.

Sto visitando la mostra Sviluppare il futuro, di Carlo Valsecchi. È l’ultima settimana buona per vedere Foto/Industria, la biennale di fotografia dell’industria e del lavoro che la Fondazione MAST ha organizzato a Bologna. Koudelka, Jodice, Myers, Watabe, domenica scorsa. Rodchenko e Valsecchi, martedì. Poi Ruff, Friedlander, Fontcuberta, Borzoni, Lange, Fournier, Bernard-Reymond, nei prossimi giorni – fino a domenica 19 novembre, quando questa splendida biennale si concluderà.

Le mostre sono sparse in luoghi significativi per la città: il MAMbo, l’Alma Mater, il Museo di Palazzo Poggi, il Museo della Musica, Palazzo Pepoli, per dirne alcuni. E anche in questo Ex Ospedale, che per quanto isolato da tempo rispetto al tessuto sociale è uno spazio carico: della sua stessa attesa. Chiuso dagli anni Novanta, nella sua ultima stagione aveva ospitato un’osteria, La Ribalta, e le vestigia di un teatro, La Soffitta. L’osteria la frequentavo pure, tavolacci e candele. E ora davanti a me c’è invece un plexiglass di grandi dimensioni e sul plexiglass una porta azzurra, una soglia.

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CARLO VALSECCHI # 01001 CRESPELLANO, BOLOGNA, IT, 2016 © CARLO VALSECCHI. COURTESY OF PHILIP MORRIS MANUFACTURING AND TECHNOLOGY BOLOGNA

Il progetto di Valsecchi nasce da una richiesta della Philip Morris, che alcuni mesi fa ha aperto a Crespellano, vicino Bologna, uno stabilimento enorme sul quale sta scommettendo molto. E ha chiesto al fotografo di raccontarlo. «È la prima o la seconda volta che lavoro per commissione senza che dietro ci sia un collezionista, cioè qualcuno con il quale condivido un linguaggio. Qui un linguaggio comune non c’era e abbiamo dovuto costruirlo», mi spiega Valsecchi due giorni dopo in una telefonata lunga e generosa. «Loro chiedevano una narrazione mentre io utilizzo un linguaggio astratto. Ho fatto un sopralluogo, che per me è fondamentale, e alla fine ho detto di sì, anche se il linguaggio narrativo non è la mia cifra. Ma ho carta bianca. Quindi ho scelto di procedere su due rette parallele, narrazione e astrazione, sapendo che una possibilità di convergenza esiste sempre».
Infatti questa porta azzurra che sembra celare il segreto della Philip Morris (la formula delle sue nuove sigarette – meno nocive per la salute – è segretissima) è carica di una valenza metafisica che l’abbraccia e va oltre. «Ogni industria ha i suoi segreti, come ogni luogo. Il CERN – che ho fotografato – ha dei segreti, ma anche mio figlio di quattro anni ha i suoi. Ogni segreto va contestualizzato: ha il suo tempo, il suo dispendio di energia. Ma detto questo a me interessa andare oltre, capire dove arriva il confine tra vedere e non vedere, tra abitare e essere in pace».

Gli chiedo della soglia, che a me pare la cifra di tutto il suo lavoro. Penso all’uso che fa della luce, per esempio. Le opere di questa mostra sono sovraesposte, bianchissime. Anche il plexiglass su cui sono stampate contribuisce alla loro luminosità (sembrano retroilluminate, come su uno schermo – anche se il plexiglass gli serve piuttosto per creare un’ambiguità rispetto alla profondità, un rimando alla tridimensionalità). La luce è ciò che permette alla fotografia di essere ciò che è, etimologicamente infatti fotografia è scrivere con la luce. Al tempo stesso, la luce può distruggere una fotografia, può bruciarla. In queste immagini, a me sembra che cerchi di spingere la luce sempre più in là, al confine tra mostrare e dissolvere, tra Essere e Nulla. Concorda: «Il mio lavoro è un lavoro sulla vita e sulla morte. Fin dove posso arrivare prima di trovare il nulla? È questa la domanda che pongo. D’altronde come artista non posso che fare domande, ottime domande – il che è già complicatissimo – ma non ho le risposte».

Anche in passato ha lavorato sul confine.
Parliamo del suo progetto San Luis, 36 grandi opere (sono 36 anche quelle esposte a Foto/Industria) realizzate in luoghi sperduti dell’Argentina una decina di anni fa, paesaggi caratterizzati da quella che chiama la «vertigo dell’orizzontalità», qualcosa a cui gli europei, e noi italiani in particolare, non sono abituati. Spazi sconfinati.
Emblematica di questo progetto è un’opera alta un metro e mezzo e lunga più di 16. In lontananza, una striscia azzurra, che per noi significherebbe il mare e invece è semplicemente la rifrazione creata dalla luce e dall’umidità del terreno. C’è solo un mare di terra. «Terra, terra, terra. Dove finisce? Non finisce».
Abitare lo spazio, misurarlo, cercare il confine. «In qualsiasi spazio stiamo su una soglia».
«È un incessante stare in relazione?» gli chiedo.
«In relazione con sé stessi, un cercare la soglia dentro di sé».

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CARLO VALSECCHI # 01001 CRESPELLANO, BOLOGNA, IT, 2016 © CARLO VALSECCHI. COURTESY OF PHILIP MORRIS MANUFACTURING AND TECHNOLOGY BOLOGNA

Le opere presenti alla mostra Sviluppare il futuro sono fotografie di stabilimenti vuoti, nuovissimi, dove il bianco inonda l’ambiente per lasciare emergere solo pochi colori – o uno, il più significativo. In un colore che prende velocità – il soffitto giallo di un corridoio – c’è il futurismo di Boccioni, non come omaggio ma come possibilità espressiva. Il minimalismo metafisico di Valsecchi si intreccia con la storia dell’arte, con la filosofia, con l’industria. Attraversa la conoscenza per potersene rapportare in modo critico, per prenderne le distanze. Per toglierla di mezzo, anche.

«Vedo, studio, scrivo, fotografo», così procede nel suo lavoro.
«Di un luogo devo conoscere tutto. Di un’industria, sapere a cosa serve anche l’ultimo bullone. Solo così riesco a prendere le distanze, a togliere». Dopo Martin Heidegger – che è esplicitamente presente nella sua poetica – il riferimento è al «Less is more» di Ludwig Mies van der Rohe. Togliere, togliere il più possibile – in modo critico, analitico – per avvicinarsi alla soglia, in un lavoro di sottrazione nello spazio che è, ancora una volta, lavoro sul confine.

Ma anche il tempo può essere svuotato, penso, cioè portato ad accogliere solo ciò che è necessario. Gli scatti di Valsecchi sono scatti esatti, di rapporto con un luogo, conoscenza dello spazio, attesa. Lavora solo con luce d’ambiente e fotografa con una macchina analogica. Se ha bisogno di una luce particolare? «Aspetto. Cerco il momento. Non scatto 100 fotografie e poi faccio editing. Ne scatto una. Ed è giusta». I colori delle sue fotografie sono i colori delle cose. «Per ottenere il giallo della foto futurista abbiamo… pulito, pulito e poi pulito le grate di quel soffitto».

Lo spazio che accoglie la mostra è composto da tre ambienti – due grandi e una piccola cappella di raccordo. Negli ambienti più ampi ci sono i plexiglass che raffigurano gli stabilimenti. Rimandano al disegno industriale, linee perpendicolari inondate di luce, pochi colori che sopravvivono con decisione, ambienti algidi, rarefatti, a metà tra l’astrazione di un futuro preciso e un non luogo dove il tempo è sospeso.

Luci al neon illuminano lo spazio, e non solo le opere. «Era l’unico modo per azzerare il tempo, per colmare la distanza tra me e un posto – l’ex ospedale – lontano nel tempo e molto problematico. Nato nel Duecento, fino al Cinquecento si è ingrandito per aggiunte, senza un registro razionale, perché la congregazione era povera e non poteva permettersi un architetto di fama. Un luogo con una storia curiosa, complicata, che mi ha messo meravigliosamente in difficoltà».
Mi spiega i limiti di ciascun ambiente e come li ha affrontati. «Ho cercato di pensare come un pittore del Cinquecento, ma con i mezzi attuali e con gli strumenti del mio lavoro. E così ho trovato un equilibrio».
La sala piccola raccoglie scatti differenti: immagini di acqua. Sono opere prive di cornice e collocate dentro gli stucchi bianchi della piccola cappella, nelle dimensioni giuste per abitarli.

«Non ci sono mai esseri umani nei tuoi scatti», osservo. No, non ci sono. «Li amo, gli esseri umani. Ma sono già così presenti… Ogni spazio è anche spazio umano, persino certi paesaggi sconfinati dell’Argentina contengono tracce umane. Sono spazi segnati: metterci anche un essere umano sarebbe troppo. E poi ci sono io, che guardo. Lo spazio della fotografia è il mio spazio mentale».


Foto/Industria: biennale di fotografia dell’industria e del lavoro, 12 ottobre – 19 novembre 2017. Un progetto della Fondazione MAST.

Grazie a: Carlo Valsecchi, per avermi concesso senza indugi una lunga intervista; Simona Poli, della Fondazione MAST, per la professionalità; Lucia Sanna Bissani, per la tempestività.

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Donata Cucchi

Laureata in filosofia, lavora per la casa editrice Zanichelli dal 2005. In precedenza ha lavorato per la Libri Scheiwiller. Ha inoltre collaborato con diverse case editrici, tra cui Mondadori, Utet, il Mulino. Da alcuni anni si dedica anche alla fotografia e al teatro (inteso come lavoro sulla persona).

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