La prima vera raccolta di fiabe è, non casualmente, quella compiuta nel Seicento in dialetto napoletano da Giambattista Basile.
Perché nel Seicento e perché a Napoli? Evidentemente perché c’è un rapporto fra la progressiva sostituzione dell’eroe medio e multiforme della novella fiorentina con l’eroe magico e assoluto della fiaba, e il processo storico della feudalizzazione e la regione d’Italia dove questo processo si è verificato in modo più evidente.
In un mondo dai rapporti sociali irrigiditi e dai comportamenti morali obbligati, una delle zone dell’immaginazione che poteva offrire una compensazione e una riparazione alla disuguaglianza e all’ingiustizia, senza implicare rotture e ribellioni − che non erano nemmeno pensabili − ma anzi in funzione di una magica reintegrazione e una eccezionale ricomposizione delle differenze, era appunto quella della fiaba.
E a mano a mano che le frontiere ideologiche si fecero più nette e più chiuse, anche l’«altro» mondo (fosse esso quello splendido e temuto dello sfarzo regale o nobiliare, o quello favoloso e orroroso del nemico di sempre: il Turco, o quello utopico e mitologico dell’impulso istintuale e vitale, o quello tragico dell’istinto di morte) si ammantava sempre più delle qualità del meraviglioso, del grottesco e del fiabesco.
Le tre fate Questa fiaba costituisce, in Lo cunto de li cunti di G. Basile, il «trattenimento decimo de la iornata terza». La riportiamo nella traduzione italiana di B. Croce, dando in nota, come esempio del testo originale, l’inizio della narrazione in napoletano. Avvertiamo che, con l’aiuto del glossario, non è difficile leggere tutto il testo napoletano, nell’edizione a cura di M. Petrini (Roma-Bari, Laterza, 1976, pp. 266-74).
[riporto solo la nota:]
T97 Testo in dialetto napoletano.
Era ne lo casale de Marcianise ‘na vedola chiammata Caradonia, la quale era la mamma de la ‘midia, che non vedeva mai bene a quarche vecina che no le ‘ntorzasse ‘n canna, non senteva mai la bona sciorte de quarche canosciente che le pigliava travierzo, né vedeva femmena ed ommo contento che non le venessero il strangogliune.
Aveva chesta ‘na fegliola femmena chiamata Grannizia, ch’era la quinta essenzia de le gliannole, lo primo taglio de l’orche marine, l’accoppatura de le votte schiattate: aveva la capo lennenosa, li capille scigliate, le chiocche spennate, la fronte de maglio, l’uocchie a guallarella, lo naso a brognola, li diente ‘ncaucinate, la vocca de cernia, la varva de zuoccolo, la canna de pica, le zizze a besaccia, le spalle a vota de lammia, le braccia a trapanatore, le gamme a crocco, e li tallune a provola; ‘nsomma da la capo a lo pede era ‘na bella scerpia, ‘na fina pesta, ‘na brutta nizzola, e sopra tutto era naima, scotonella, scocciommuccio. Ma con tutto chesto, scarafuniello a mamma pentillo le parea!
[Da Il materiale e l’immaginario, vol 3, L’antico regime, riforme, rivoluzioni, Loescher, Torino 1992 – Laboratorio. Sezione IV, Le aree tematiche. VI, Culture diverse dentro l’Europa e fuori. Paragrafo intitolato Il passaggio della frontiera verso altri mondi con lo strumento magico-fiabesco, p. 574-5, N.d.R.]