Dato che siamo davanti a un saggio e non a un thriller (anche se nel volume la componente gialla o addirittura horror non è del tutto assente…), posso tranquillamente cominciare la mia recensione dell’ultimo libro di Giorgio Ieranò, Il racconto del Labirinto (Einaudi, Torino 2024), facendo riferimento alle pagine conclusive.
Il mito: un serbatoio di incertezze
L’autore, infatti, con un’affermazione tutt’altro che scontata, ipotizza che il mito (mythos) non sia solo, come pensiamo abitualmente, la sede «dove si condensa il sapere di una società», e si chiede invece «se al mito gli antichi non consegnassero anche tutto ciò che non sapevano. Tutto ciò che sfugge a una possibilità di definizione logica: i vasti territori dell’esistenza umana che si sottraggono al dominio della ragione, alle regole del logos o alle norme della polis» (p. 132). Mi pare che quanto Ieranò ha scritto nelle pagine precedenti autorizzi una risposta affermativa, perché ogni riferimento al Labirinto come luogo (che la tradizione vuole creato dall’architetto Dedalo sull’isola di Creta per custodire il “mostruoso” Minotauro), o alle figure mitologiche che sono ad esse legate, ha soprattutto il marchio indelebile dell’ambiguità, quando non dell’incomprensibilità; infatti non è solo difficile uscire da quell’edificio (ammesso che poi sia tale, come vedremo), ma lo è ancor più capire le “labirintiche” ragioni dei gesti di dèi, eroi e mortali che lo studioso descrive nel suo appassionante volume.
Un catalogo di ambigui personaggi
Ambiguo è Zeus che – trasformato in toro – rapisce Europa e la porta a Creta. Dalla loro unione nacque Minosse, forse il più ambiguo di tutti: re giusto o tiranno sanguinario? E che dire della moglie di quest’ultimo, Pasifae, che dall’insano accoppiamento con un toro generò il Minotauro? Fu una donna colpevolmente perversa oppure la vittima di una punizione divina per l’empietà del marito, che non rispettò una promessa fatta a Poseidone? E il mostro, metà uomo e metà toro, fu un crudele divoratore di giovani ateniesi, ucciso dal prode Teseo? Oppure un simbolo positivo di vitalismo giovanile, come ci appare nelle opere di Picasso? Oppure, ancora, una vittima (un “emarginato”, diremmo oggi…) ingiustamente incarcerata che – come nella magnifica rilettura contemporanea di Borges – trova nella morte la liberazione dai suoi mali? La serie delle ambiguità non finisce certo qui, e coinvolge lo stesso Teseo (eroe coraggioso o dongiovanni da strapazzo?), Arianna (la figlia di Minosse che tradisce padre e fratellastro per far uscire l’amato Teseo dal labirinto), il dio Dioniso (che sposerà la fanciulla abbandonata da Teseo a Nasso: egli sa essere sia dolcissimo sia pericolosissimo, come quel vino che gli è sacro) etc.
Non stupisce che questo assortito campionario contenga figure mitologiche che – come anticipavo – sono tutte legate al Labirinto, luogo ambiguo per eccellenza, ideato da quel Dedalo che era sì l’archistar della mitologia classica, ma anch’egli tutt’altro che lineare. Fuggì infatti da Atene perché accusato di omicidio per diventare cortigiano di Minosse; successivamente lo tradì e fu costretto alla fuga aerea con il figlio Icaro: come sia finita per il ragazzo lo sappiamo tutti.
Edificio, caverna o luogo psichico?
Ma in fin dei conti, com’era fatto questo Labirinto? Neppure su questo punto la tradizione mitografica è univoca, perché c’è chi lo crede un palazzo dalle infinite stanze (di solito simile a quello cretese di Cnosso), chi una grotta sotterranea dalla quale è difficile uscire (e Creta è isola ricca di grotte), e addirittura chi lo lega – in qualche modo – all’Aldilà, del quale sarebbe forse già nella cultura mesopotamica una sorta di prefigurazione terrena. In realtà è forse un luogo più psichico che fisico, dove «spirali e meandri ci sembrano rappresentare contemporaneamente il trionfo e lo scacco della razionalità» (p. 64). Un luogo che assomiglia tanto all’incomprensibilità della nostra esistenza e dal quale «alla fine, non possiamo uscire: perché il Labirinto è la nostra stessa vita» (p. 133). Secondo Nietzsche chi riesce ad abitarvi e a coglierne i misteri può addirittura aspirare a diventare Superuomo; chi prova goffamente ad uscirvi usando il proverbiale filo, con quello stesso filo rischia invece di impiccarsi.
Insomma, al termine della lettura di questo libro abbiamo la certezza di sapere molto, molto, di più di mitologia classica, ma allo stesso tempo ci sembra di brancolare nel buio alla ricerca di un senso complessivo di queste vicende, che forse – parafrasando Vasco Rossi – «un senso non ce l’hanno». O almeno non ce l’hanno sempre, soprattutto se lo cerchiamo con la nostra ottusa supponenza di “moderni”.
Una “straniante maternità pagana”
La mia riflessione, ovviamente, potrebbe concludersi qui, con questo finale un po’ ad effetto. Ma non posso esimermi da un’ultima, rapidissima, osservazione relativa ancora al Minotauro. Già ho parlato della sua ambivalenza, sulla quale – da vecchio classicista, per di più fan di Picasso… – avevo già avuto modo di riflettere. Non conoscevo però una coppa attica del IV sec. a.C., cui allude Ieranò, sulla quale è raffigurata Pasifae che tiene in grembo il piccolo mostro. Altro che donna perversa, terribile figlia del Sole, imparentata con altre figure “terribili” del mito come Medea e Circe! Ci appare qui come una madre premurosa, tenera, tutt’altro che ammantata da quella vergogna che la tradizione ha voluto associare alla sua gravidanza. C’è però nei suoi occhi un velo di inquieta mestizia che, in modo del tutto irrazionale, mi ha fatto pensare alla cosiddetta «Pietà nuragica» da Urzulei, che ho di recente visto al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari (ne parlavo qui), la quale raffigura probabilmente una donna che compiange il figlio morto. È come se ci fosse, insomma, nella regina cretese un presagio della vita infelice e della morte violenta che attendevano l’incolpevole creatura che aveva appena generato.
E con questa – cito ancora l’autore del volume – «straniante raffigurazione di una maternità pagana» (p. 48) ora posso davvero abbandonare i miei affezionati lettori ai meandri del Labirinto, consigliando loro di “perdersi”: se non nella ricerca del senso della vita (a meno che non vogliano diventare Superuomini), almeno nella lettura di questo libro, per uscire dal cui enigma non basterà però il filo di Arianna. Un filo pericoloso da usare, forse addirittura sconsigliabile, per quei rischi di strangolamento cui accennava l’aforisma di Nietzsche appena menzionato; o forse perché è davvero così dolce il «naufragio» intellettuale in questo volume che cercarne una frettolosa via d’uscita sarebbe davvero un peccato!