Il gelso, la tigre e il sangue

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Due autori prevedibili, Ungaretti e Pirandello, hanno dominato la prima prova d’Esame 2024: i loro testi fanno riflettere sul valore del sangue e sulle ideologie che ne hanno fatto il loro fondamento.

Se c’è una parola che più o meno esplicitamente ricorre nei discorsi pubblici del presente è «sangue»: quello delle guerre vicine e lontane con le tante, troppe vittime civili e militari (anche i soldati, per quanto addestrati a morire, sarebbero esseri umani); quello della presunta genealogia (la «comunità etnica nazionale», la Volksgemeinschaft del nazismo) che definisce e compatta una nazione tenendone fuori i soggetti non conformi.

Il sangue non poteva mancare nell’Esame di Stato 2024, Tipologia A, in una poesia splatter di Giuseppe Ungaretti, dal Porto sepolto, che nei versi accosta letteralmente al macello umano il proprio cognome, di lui combattente volontario sul fronte del Carso, durante la Grande guerra, e scampato all’«inutile strage», come l’avrebbe definita Benedetto XV invocando la pace. Le «budella» però non sono qui di un fante, ma le «macerie» su cui comunque l’io lirico si sente già una «carcassa» da trascinare, anzi «strascicare», nel «fango». L’analogia intestinale, con quel «di» decisamente simbolista, non basta al poeta, che la rafforza con due similitudini semanticamente sconnesse e unite dall’allitterazione: «come una suola / o come un seme / di spinalba», cioè del biancospino che pare fiorisse rigoglioso nei giardini dell’infanzia del poeta, ad Alessandria d’Egitto. Eppure l’«uomo di pena» non cade in una buca buia, senza speranza; oltre a farsi «coraggio», si lascia guidare da un faro «di là», proveniente dal fronte nemico, che apre «un mare / nella nebbia» affiorante nell’immenso spazio tra i due opposti fronti. Viene in mente un altro gioco deittico (la siepe di qua, l’indefinito di là e poi il mare divenuto vicino), quello dell’Infinito di Leopardi, con un annegamento euforico con cui contrasta l’«abisso orrido, immenso» nel quale si precipita obliando tutto nel Canto notturno.

La luce in fondo alla trincea la fornisce, inconsapevolmente, il nemico con cui si dovrebbe fraternizzare (sul Carso gli italiani d’Italia, i cosiddetti regnicoli, combatterono in alcuni casi contro gli italiani d’Austria) e che invece, durante e dopo il conflitto, continuò a essere presentato come brutale e infido, in nome del Risorgimento da compiere. Non si contano i prigionieri trasferiti da un campo all’altro dalle potenze europee e decimati dalle marce estenuanti e dalle epidemie scoppiate nei centri di detenzione. Quello più celebre, in Italia, fu allestito con imperizia e ipocrisia nell’Asinara, dove a migliaia, già sotto l’Impero austro-ungarico e catturati in Serbia, morirono di colera.

Non va trascurata l’indicazione finale (posta, nella traccia ministeriale, in apertura), con il luogo e la data di composizione della lirica (1916): il «Valloncello dell’Albero Isolato», tutt’altro che indeterminato, è lo stesso di San Martino del Carso e indica una pianta precisa, utilizzata nelle mappature da entrambi gli eserciti per la sua altezza, per schierare le truppe nelle battaglie dell’Isonzo sul Monte San Michele: il tronco, crivellato e martoriato, fu poi tagliato dagli ungheresi e portato in patria come trofeo; tuttora viene esposto in musei e mostre a ricordo deli scontri tra i più sanguinosi della Prima guerra mondiale. Si tratta di un gelso, lo stesso albero del mito sanguinolento di Piramo e Tisbe.

 

Il titolo Pellegrinaggio inserisce la lirica in un viaggio fisico e spirituale del poeta che si muove o, più spesso, resta immobile tra macerie e interminabili attese di segnali d’attacco, «in agguato»; si potrebbe scomodare Dante, che si autonomina nel canto XXX del Purgatorio quando si rende conto che Virgilio non è più con lui e piange a dirotto, poi quasi si scusa di aver messo in bocca a Beatrice le due sillabe del proprio nome, «che di necessità qui si registra» (v. 63). Ungaretti non solo si chiama, ma si rivolge un’apostrofe, ponendo una «nebbia» pronominale tra l’«io» di «ho» e il «tu» della seconda strofa e rompendo la sentenziosità delle truculente catene analogiche per introdurre ben due «ti» (tre se contiamo anche la sillaba finale del cognome).

Ora, sarebbe fin troppo facile ricordare che Mussolini firmò la breve e fugace prefazione alla seconda edizione del Porto sepolto, nel 1923 (poi confluito nell’Allegria del 1931; il travaso editoriale è omesso dagli estensori della prova): l’artefice della «rivoluzione fascista compiuta» celebrava il «tormento» e la «passione» dei versi in maniera non meno vaga della consegna ministeriale («l’intensità biografica e realistica»); Mussolini ricordava con subliminale precisione (come dire, non lo conosco benissimo, ma pare un amico dei nostri) il ruolo di Ungaretti quale corrispondente da Parigi del «Popolo d’Italia», quindi il suo impiego nell’Ufficio Stampa del Ministero degli Esteri; sottolineava infine compiaciuto come «dopo tanto tempo il burocrate non» avesse «ucciso il poeta».

Il rapporto del burocrate-poeta con Mussolini e il fascismo fu, come nel caso di molti intellettuali del Novecento, complesso: Ungaretti, che pure aveva scritto per il giornale mussoliniano, criticò le leggi antisemite, venne arrestato e poi liberato per intervento dello stesso duce, nel 1939, mentre accettò la nomina universitaria alla Sapienza e, a regime caduto, rischiò l’epurazione. Dai versi del 1916 non può trapelare un rapporto ancora di là da venire. L’entusiasmo o almeno la timida attesa verso i fasci di tanti ex soldati affondava le radici nel primo dopoguerra, nell’idea della «vittoria mutilata» proprio vicino ai luoghi in cui avevano combattuto, nell’emarginazione dei reduci con le loro sindromi da trauma e le ferite, nell’opposizione alle idee socialiste che, contro le politiche guerrafondaie e suicide dei generali e dei ministri italiani, erano fermentate nel pacifismo delle tantissime lettere dal fronte, puntualmente censurate per disfattismo.

Anziché affrontare il disagio e mantenere la promessa rivoluzionaria anche rispetto all’occupazione e all’emancipazione femminile, il fascismo lo cavalcò: mummificò le vittime del conflitto, innalzò sacrari e monumenti ai caduti e al Milite ignoto, inaugurò, nel 1933, la Giornata della Madre e del Fanciullo il 24 dicembre di ogni anno, per far chiarezza sull’idea di maternità e fanciullaggine che si perseguiva. Tanto le ricorrenze quanto le statue e le strutture mastodontiche non si limitavano a commemorare i soldati caduti – e la quantità di tali monumenti nelle città italiane testimonia l’entità delle perdite ben più di quelli dedicati alle stragi della Seconda guerra mondiale. Esse servivano a coagulare l’ideologia fascista intorno a modelli inderogabili e all’idea del sangue, quello degli italiani che morendo avevano fecondato la terra patria, soprattutto ai suoi discussi confini, di un «seme» da affidare alle nuove generazioni. I giovani lo dovevano coltivare secondo i dettami del governo, altrimenti sarebbero stati considerati non conformi e condannati, segregati, deportati. I soldati caduti diventavano così quegli zombie che nella sua Vela einaudiana Alessandro Giammei ha associato alla riscrittura di un’altra, più remota epoca, il Rinascimento italiano, che il fascismo tentò di reinventare a modo suo, con parate e affreschi in stile (Gioventù degli antenati. Il Rinascimento è uno zombie, Einaudi, Torino 2024).

La parola «seme», che ricorre in Pellegrinaggio, ha diverse connotazioni nella produzione di Ungaretti e, nella sua senilità, scandirà l’appassionato scambio epistolare con la più giovane poetessa italo-brasiliana Bruna Bianco; «il seme dell’amore» che i due si rimbalzano prende la forma di un amuleto, di un pegno, che acquista caratteri sanguigni: «Nella tua lettera» – scrive lui a lei – «c’era un fiorellino rosso. La mia ferita è nel cuore un forellino rosso, non mi fa male, mi fa nuovo, reca nel mio cuore un sangue diverso. Sono un altro, non sono più io, sono l’anima tua e l’anima mia, da quando Ti conosco, da sempre, da sempre, sono molto più te, molto più anima tua che mia, da prima della nascita, non so da quanti millenni, dalla nascita del mondo, amore, amore mio, che bacio, e piango felice. Ne ho il diritto? non sono fuse, oramai fuse, le nostre anime?» (da Parigi, il 23/XI/1966: G. Ungaretti, Lettere a Bruna, a cura di S. Ramat, Mondadori, Milano 2017). Fiori e fori, travasi di anime e di genere, lavaggi di sangue colorano di rosso questa e altre lettere, in un lessico familiare basato su rose e punture (a quanto pare anche polluzioni notturne) che l’ex burocrate e allora anche ex accademico non si peritò di condividere con la sua corrispondente oltre Atlantico.

Non si tocchi Ungaretti – dirà qualcuno – né si tocchi Pirandello, l’altro autore proposto nella Tipologia A dell’Esame di Stato 2024, pure lui legato, con diverse sfaccettature, al governo mussoliniano e alle sue ramificazioni istituzionali, per questioni soprattutto di finanziamenti teatrali (la sua decisione di farsi seppellire lontano dai fasti romani, in Sicilia, senza funerali di Stato la dice invece lunga sulla sua intima visione del regime). Il suo romanzo dedicato all’operatore cinematografico Serafino Gubbio (la versione originaria, con il titolo Si gira…, risale, in volume, allo stesso anno della lirica ungarettiana, il 1916) critica e smonta le reboanti promesse tecnologiche della società italiana industrializzata e racconta la riduzione a «mano che gira una manovella» e la perdita della parola del protagonista, per un trauma che richiama quello dell’«uomo di pena»: una scena di sangue (manco a dirlo) che non finisce con l’uccisione di una tigre, come progettato, ma (manco a dirlo) con l’attrice colpita dal proiettile destinato alla belva e con quest’ultima che sbrana l’attore che avrebbe dovuto farla secca in presa diretta. L’esaltazione futuristica della «Macchina che meccanizza la vita» sprigiona il sarcasmo dell’operatore disilluso, che ricorda come lo strumento si sia fatto «padrone» e divoratore d’anime.

L’«Albero Isolato» di Ungaretti, la tigre deportata e destinata al macello di Pirandello stanno lì a dirci che il sangue non è una buona idea, né in pace né in guerra, e che le ideologie fondate su di esso hanno abbuiato e continuano ad abbuiare sia la vita di tutti gli esseri sia la nostra visione del passato e quindi del futuro. Tra questa nebbia qualcuno, di là, accenda il riflettore e illumini il mare della scuola.

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Johnny L. Bertolio

Si è diplomato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e ha conseguito il PhD alla University of Toronto, dove ha maturato una variegata esperienza nella didattica dell’italiano. Attualmente collabora con Loescher come autore e redattore nell’ambito umanistico.

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