Con questa voce comincia il raccontino omonimo del Libro degli errori di Gianni Rodari. Il dizionario consultato da Rodari è il Palazzi, uno dei più diffusi e fortunati del dopoguerra, pubblicato in prima edizione nel 1939, col titolo di Novissimo dizionario della lingua italiana di Fernando Palazzi dalla casa editrice Ceschina (che ritenne opportuno, a un anno dalla promulgazione delle leggi razziali, non fare menzione del coautore, Eugenio Treves). Successivamente, al nome di Palazzi si è affiancato quello del filologo Gianfranco Folena. Oggi il dizionario è pubblicato col nome Palazzi Folena dalla casa editrice Loescher (ultima edizione 1992, con la collaborazione di Carla Marello, Diego Marconi, Michele A. Cortelazzo: la collaborazione di Treves è riconosciuta, ma all’interno). Uno dei dizionari più diffusi ancora negli anni ’70, quando Rodari scriveva, ma anche uno dei dizionari migliori dal punto di vista delle scelte nelle definizioni delle parole e negli esempi (quando ancora gli esempi non erano cercati in corpora elettronici della lingua dell’uso, ma erano costruiti a tavolino, o cercati nei testi dei buoni autori).
Dal 29 novembre al 1 dicembre si è tenuto, tra Padova e Venezia, il X convegno dell’ASLI (Associazione per la Storia della Lingua Italiana) dal titolo “Il Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612) e la storia della lessicografia italiana”. Venezia: la città in cui venne stampata, presso l’editore Alberti, la prima edizione del glorioso dizionario (di cui ricorre quest’anno il quarto centenario, e che ha fatto da modello fondante per tutta la lessicografia europea). Padova: uno dei centri più vivaci del dibattito cinquecentesco che va sotto il nome di “questione della lingua” e da cui scaturì, prima ancora del vocabolario, la prima grammatica dell’italiano (Le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, 1525).
Una questione ancora aperta, in Italia, come dimostra il gran numero di copie di dizionari venduti ogni anno in Italia (a differenza che in altri paesi europei), gli innumerevoli e fortunati libri, siti, rubriche radiofoniche e televisive dedicate al “si dice o non si dice” (abbiamo già segnalato il servizio di consulenza linguistica offerto dall’Accademia della Crusca), il discredito sociale gettato su quanti usino il condizionale (ma, sotto sotto, anche l’indicativo…) al posto del congiuntivo (se potrei…, se potevo…), le censure puristiche fatte quotidianamente da genitori e insegnanti (“a me mi non si dice!”, come se fosse uno spinacio tra i denti).
Non sarà un caso – come ha fatto notare a conclusione del convegno l’italianista tedesco Edgar Ratdke – che in Italia la lessicografia mostri una grande vitalità filologica (come ha dimostrato del resto il ricco programma del convegno), laddove in altri paesi (se si eccettua l’Inghilterra, in cui c’è stato un vivace dibattito sulle questioni teoriche alla base della compilazione dei dizionari, che ha portato allo sviluppo della linguistica dei corpora) le pratiche e le riflessioni sulla lessicografia sono ormai confinate alle officine delle grandi case editrici specializzate nella redazione e nell’aggiornamento dei dizionari.
La storia della nostra lingua, del resto, spiega anche come mai il lessico dell’italiano sia rimasto tutto sommato così stabile nel tempo: già Tullio De Mauro, in occasione della pubblicazione del GRADIT, il Grande Dizionario Italiano dell’Uso in 8 volumi (UTET, 1999: che sceglie il Palazzi, insieme al Devoto-Oli, al Garzanti e al DISC, tra i dizionari in unico volume usati come fonti per costituire l’ampio lemmario, di circa 280.000 entrate) aveva notato che “in italiano, quasi il 90% del vocabolario fondamentale era in uso ai tempi di Dante. E, delle parole da lui usate nella Divina Commedia, 8 su 10 sono arrivate vive e vegete fino a noi”.
Nel suo intervento a conclusione del convegno, Nicoletta Maraschio, presidente dell’Accademia della Crusca, ha proiettato il lemmario della prima edizione del Vocabolario della Crusca (1612) su quello dell’ultima edizione (Rizzoli Larousse 2008) del dizionario italiano Sabatini-Coletti (DISC, liberamente accessibile online): il 62% delle parole raccolte e chiosate dagli accademici (15.213 su un totale di 27.258) si ritrovano ancora oggi in un dizionario generale dell’uso che contiene 87.533 parole. Parliamo ancora, più o meno, come Dante e Galileo, e – fortuna che inglesi, francesi e tedeschi ci invidiano – riusciamo ancora a leggere i loro testi senza dover andare troppo spesso a consultare il vocabolario (anche se la donna che “tanto gentile e tanto onesta pare”, per Dante, non era gentile nel senso di “garbata”, ma di “nobile di stirpe e quindi d’animo”, e tale non “sembrava”, ma “appariva, si manifestava”: come un miracolo, una rivelazione – come Contini ci ha insegnato).
P.S.: Trantran è una bellissima parola fonosimbolica: una reduplicazione espressiva che, come tam tam, leccalecca, lemme lemme, giacomo giacomo, ci porta a braccetto nella dimensione iconica della lingua, dove la forma somiglia al contenuto, il significante al significato (come vorrebbe Humpty-Dumpty, in Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, di Lewis Carroll).