Anche no, e quant’altro… (tormentoni italiani)

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Uno degli ultimi tormentoni linguistici che si sono diffusi nel parlato, soprattutto dei giovani, è Anche no.

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Anche no è un’interiezione (etimologicamente un’espressione “buttata in mezzo” al discorso, dal lat. intericere) che viene ripetuta ossessivamente da comici (Gialappa’s in testa), giornalisti, politici, pubblicitari, solitamente in risposta a proposte (esplicite o implicite) poco allettanti. Pressappoco ha significato di  “Se ne può anche fare a meno”. Il valore pragmatico è dunque quello di un rifiuto ironico e guardingo: anziché opporre un rifiuto netto, come accadrebbe se rispondessimo semplicemente No, ricorriamo all’attenuazione. Un po’ come quando, per non deludere l’entusiasmo del mio interlocutore, rispondo: “Magari domani”.

Per usare una metafora musicale, è come se quell’anche messo davanti al no funzionasse come un bemolle, che abbassa il tono dell’esclamazione. Viceversa, quando – rimanendo in tema di tormentoni – diciamo assolutamente no, è come se mettessimo davanti al no un diesis, che innalza l’enfasi.

Con lo stesso valore di assolutamente no usiamo espressioni iperboliche come neanche per sogno/ per idea/ per scherzo, in cui troviamo la congiunzione neanche (derivante dalla fusione di né anche), che ha una struttura simmetrica rispetto ad anche no. Va notato inoltre che la congiunzione anche, di per sé, può funzionare anche come intensificatore, quando si tratta di rafforzare un’ipotesi: potrebbe anche degnarsi, potrei anche smettere.

Anche no è il titolo di una canzone di Povia (2012) il cui ritornello fa:

Mi hanno detto di soffrire nella vita e nell’amore… ANCHE NO
per capire e stare bene devo stare tanto male… ANCHE NO
e per sempre io ti amerò… ANCHE NO
tu sei tutto quello che ho… ANCHE NO

Passando dal sentimentale all’esistenziale, nella canzone Anche no (2009) cantata dal rapper Rayden (alias Marco Richetto) si sente:

smetto di rappare, ANCHE NO, ANCHE NO
devo iniziare a lavorare, ANCHE NO, ANCHE NO
ora cerco di svoltare, ANCHE NO, ANCHE NO
d-d-dammi un motivo per farlo, MA ANCHE NO.

Nell’ultimo esempio anche no è preceduto dalla congiunzione ma: ma anche no. Si tratta di una variante dell’espressione, in cui ma mantiene il suo valore avversativo, come nel titolo di giornale
Il Pdl ha vinto, ma anche no
comparso sull’Espresso dopo le ultime elezioni e composto da due parti: un’affermazione seguita da una parziale rettifica.

Più spesso il ma è all’inizio di una battuta (Ma anche no), come semplice segnale della presa di parola, con un’eventuale sfumatura di incredulità, scetticismo (come quando diciamo Ma va!, Ma no!, Ma dai!).

Ma anche no è stato il titolo di un programma televisivo, un contenitore domenicale andato in onda per pochi mesi su LA7, condotto da Antonello Piroso: a dimostrazione di come la televisione funzioni da diffusore e amplificatore delle mode, dei tic linguistici.

Notiamo che esiste anche l’espressione anche sì, che Povia usa al termine della sua canzone, con il significato di “Perché no?”:

Tutti quanti fanno rock MA ANCHE NO
tutti quanti fanno rap MA ANCHE NO
tutti quanti fanno POP ANCHE SÌ ANCHE SÌ ANCHE SÌ ANCHE SÌ…

ma è molto meno diffusa.

Specularmente, diciamo più spesso assolutamente sì (con la variante euforica tutta la vita!) che assolutamente no.

Insomma: non osiamo dire no e ricorriamo all’attenuazione fornita dall’anche anteposto; non ci basta più dire sì e ricorriamo all’esagerazione dell’assolutamente.

Ma proviamo a spiegare la fortuna di quest’ultimo tormentone: assolutamente sì/no. Quello che stupisce non è che aggiungiamo ad assolutamente un sì o un no: come risposta, infatti, l’avverbio assolutamente può avere valore affermativo o negativo a seconda del contesto e dell’intonazione con cui lo pronunciamo: “Sei d’accordo con me?” “Assolutamente!” (affermativo); “Non sei d’accordo con me?” “Assolutamente!” (negativo). È piuttosto il fatto che sentiamo il bisogno di rafforzare avverbi dicotomici e di per sé perentori, come sì e no, con l’avverbio assolutamente.

La spiegazione l’aveva già fornita, con il suo acume e la sua preveggenza, Giuseppe Pontiggia nel libretto Le sabbie immobili (1991), in cui la satira del linguaggio diventava satira del costume degli italiani: assolutamente è un avverbio che “vorrebbe aggiungere energia a un linguaggio stremato e finisce per sottrargli anche quella residua”.

Alla fortuna di assolutamente (sì) avrà contribuito anche la frequenza dell’espressione nel cosiddetto “doppiaggese”, per rendere l’inglese absolutely, usato come avverbio affermativo, che sarebbe più naturale tradurre con certamente.

E come dimenticare il famigerato piuttosto che usato con valore disgiuntivo inclusivo (“o l’uno o l’altro, o anche entrambi”, come il latino vel: Ha amici dappertutto: in Europa piuttosto che negli USA), anziché col valore disgiuntivo esclusivo previsto dalla norma linguistica (“o l’uno o l’altro, ma non entrambi”, come il latino aut: Meglio avere pochi amici veri piuttosto che tanti amici virtuali).

Studiato da vari da vari linguisti a cavallo del 2000 (io stessa ne avevo fatto l’oggetto di un mio studio comparso sulla rivista “Studi di grammatica italiana” nel 2001), sembrava una moda di origine settentrionale, circoscritta ad alcuni registri (come quello economico-finanziario) e venata di snobismo. Probabilmente derivante per analogia dalla locuzione o piuttosto (che congiunge espressioni di significato equivalente), con sovraestensione del che tipica dell’italiano settentrionale.

Ma l’uso e abuso in televisione di questo piuttosto che “indebolito” hanno contribuito negli ultimi dieci anni a “sdoganarlo” e renderlo endemico anche nello scritto. Arrivando a forzare il valore logico-semantico di un connettivo che dovrebbe essere sinonimo di “anziché, invece di” e non di “o piuttosto”. E se nella lingua l’uso è sovrano, non rimane che rassegnarsi, sia pure obtorto collo, a quest’uso.

Veniamo all’ultimo vizio o vezzo dei nostri “anni liquidi”, della nostra “lingua di plastica”: l’espressione e quant’altro usata in chiusura di frase col valore di “e così via, eccetera”. Derivata probabilmente dalla semplificazione della formula conclusiva, tipica del linguaggio burocratico, e/o quant’altro ritenuto utile/necessario, con perdita dell’elemento verbale. Crea un senso di sospensione che ci illude di poter riempire il vuoto, mentre a quel vuoto ci abbandona. Io preferisco dire e compagnia bella.

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Cristiana De Santis

Ricercatrice di Linguistica italiana presso l’Università di Bologna (sede di Forlì). È coautrice della grammatica Sistema e testo (Loescher, 2011).

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