Il 21 febbraio tutto il mondo festeggia la giornata internazionale della lingua madre, istituita dall’Unesco nel 1999 per valorizzare l’identità linguistica e il multilinguismo. La data non è casuale: nel 1952 in questo giorno una manifestazione di studenti dell’Università di Dacca fu repressa violentemente dalla polizia. Gli studenti, molti feriti e alcuni uccisi, protestavano perché il bengalese fosse riconosciuto come lingua ufficiale del Pakistan (che all’epoca comprendeva anche il Bangladesh).
Perché un ragazzo difende la sua lingua anche a costo della vita? In che termini la lingua madre è un valore?
La lingua è un prodotto umano, un sistema che l’uomo adopera in modo sempre nuovo per agevolare la sua esplorazione della realtà. La lingua non è tuttavia solo uno strumento con cui l’uomo ha la possibilità di comunicare con i suoi simili; è anche il mezzo con cui interpreta il mondo e conosce. Noi infatti sogniamo e pensiamo anche sfruttando la nostra lingua. Senza dimenticare quindi la natura sociale di questo mezzo, è necessario mettere al centro della riflessione sulla lingua anche le implicazioni cognitive. La lingua permette all’uomo di elaborare gli input che riceve secondo una corrispondenza di simboli e significati accettati e riconosciuti all’interno di una comunità. È in questa convenzione, in questo patto di intercomprensione tra uomini che risiede l’unicità di ogni lingua e la stretta aderenza tra lingua e cultura.
Luigi Settembrini, scrittore italiano, diceva che “quando un popolo ha perduto patria e libertà e va disperso pel mondo, la lingua gli tiene luogo di patria e di tutto”. La lingua è infatti depositaria di tradizioni, idee, esperienze avvicendatesi nel tempo, permette di mantenere un contatto con antichi parenti che hanno popolato la terra che ora noi abitiamo; è una specie di carta di identità che racconta qualcosa di noi. Qualcosa che parla per noi mentre noi stiamo parlando d’altro.
Per questo celebriamo la lingua madre, perché è un simbolo di autoaffermazione e la sua rappresentazione nei contesti educativi, istituzionali e sociali ci permette di poter interagire con consapevolezza e di sentici riconosciuti come facenti parte di una comunità.
Una sola lingua madre o più d’una?
La lingua madre è per definizione la lingua a cui siamo esposti nel momento dell’acquisizione naturale del linguaggio, la lingua parlata dai genitori. Ma in contesti di plurilinguismo individuare la lingua madre può risultare più complesso. Si pensi a bambini che hanno genitori provenienti da paesi diversi e apprendono una lingua materna e una paterna; oppure a parlanti che in contesti migratori tendono a perdere parte della loro competenza nella propria lingua madre a favore di quella del paese ospitante. In certi contesti è più che naturale avere più lingue madre; riusciamo nel tempo ad apprendere più lingue, e anche a comprenderne più di una, anche se non sappiamo parlarle, come succede ad esempio quando comprendiamo senza conoscerlo il dialetto dei nostri nonni. Potremmo dire che i parlanti sono naturalmente predisposti al linguaggio e ad apprendere più lingue, ovvero, a essere multilingui.
Il multilinguismo è una parola che nel tempo ha cambiato il suo referente. Nel 1933 Bloomfield, linguista statunitense, definiva un multilingue come un parlante che ha un controllo nativo sulle lingue che conosce e parla, ovvero sa usare da madrelingua tutte le lingue che ha appreso, come se fosse la somma di più parlanti monolingui. Oggi, invece, con multilinguismo si fa riferimento più all’uso che un parlante fa delle lingue che conosce che al grado di competenza che ha raggiunto nell’usarle. Per multilinguismo, quindi, si intende la capacità di usare due o più lingue, e il parlante multilingue è colui che sa usare più lingue in contesti diversi, anche se non ne ha una conoscenza perfetta.
Questo ci fa capire quanto il panorama sia complesso: è multilingue non solo chi ha una competenza bilanciata in due o più lingue, ma anche chi ha una lingua dominante fra le lingue che conosce. È poi multilingue non solo chi è esposto a più lingue fin dalla nascita, ma anche chi impara una seconda o una terza lingua da adulto. Infine, anche chi sa comprendere lingue diverse dalla propria senza parlarle, rientra nel profilo del parlante multilingue.
Diversità linguistica: un patrimonio da salvaguardare
Ogni parlante ha la sua propria storia linguistica, la sua lingua madre, o le sue lingue madre. Siamo parlanti dentro un ambiente linguistico variegato e diverso.
Questa diversità linguistica è uno degli aspetti che caratterizza il nostro continente, in cui sono riconosciute come ufficiali 24 lingue dall’Unione Europea. L’Unione Europea e il Consiglio d’Europa portano avanti la difesa e la protezione di questa diversità linguistica, in quanto ritengono che una società multilingue sia più ricca sia dal punto di vista culturale sia economico.
Negli ultimi decenni le azioni degli organismi europei e internazionali sono state rivolte sia alla difesa delle lingue minoritarie e regionali, dei dialetti e delle lingue nazionali poco diffuse, sia al potenziamento delle Lingue Straniere. Per esempio, oltre all’apprendimento dell’inglese come lingua franca, è stata aggiunta nell’offerta didattica una seconda lingua straniera, adoperando la cosiddetta formula trilingue. E infine, la promozione della diversità linguistica è perseguita anche con progetti di mobilitazione e di scambio culturale fra studenti e docenti in Europa e in contesti extra-europei.
Tuttavia, nonostante gli sforzi fatti nelle scuole per l’apprendimento delle lingue, le politiche scolastiche non tengono ancora sufficientemente conto della provenienza dei suoi studenti e del plurilinguismo come tratto caratteristico delle classi italiane e europee. Il dato è che a oggi quasi il 40 per cento degli studenti a livello globale non ha accesso a un’istruzione nella propria lingua madre. Ciò si traduce in un apprendimento meno efficace, un isolamento sociale e in molti casi abbandono scolastico.
Come impostare la didattica preservando e sfruttando il plurilinguismo?
Una possibile direzione è indicata da AltRoparlante, un progetto ideato e lanciato nel 2016 da Valentina Carbonara e Andrea Scibetta, ricercatori dell’Università per Stranieri di Siena, nato con lo scopo di proporre un approccio didattico plurilingue, integrando nella didattica curricolare tutte le lingue parlate dagli studenti di ciascuna classe.
Lo svolgimento del progetto, che finora ha coinvolto in Italia più di 300 studenti di istituti comprensivi, prevede diverse fasi, tra le quali vi è all’inizio un periodo di confronto e formazione con i docenti, i dirigenti e le famiglie delle scuole interessate. In seguito, avviene la fase di rilevazione delle lingue e dei dialetti conosciuti e parlati dagli studenti, attraverso metodologie etnografiche e attività ludiche. In questa fase viene chiesto per esempio agli studenti di compilare biografie linguistiche, per osservare come percepiscono la diversità dei repertori linguistici.
Un punto importante del progetto sono le sperimentazioni didattiche nelle classi, che in questo quadro sono chiamate anche “contesti superdiversi”. In particolare, i primi interventi sono finalizzati alla trasformazione dell’ambiente classe, nel quale vengono rese visibili e disponibili tutte le lingue e i dialetti degli studenti, permettendo anche ai docenti di abbracciare gradualmente un modello di educazione linguistica eteroglossico. Le sperimentazioni prevedono la realizzazione di cartelloni e dizionari plurilingui, attività di storytelling plurilingue, e laboratori di gruppo su testi contenenti parole e frasi nelle diverse lingue della classe.
Un ventaglio di attuazioni del progetto è disponibile nel volume Unu, dy, san! – Proposte operative per la didattica plurilingue nella scuola del primo ciclo (Carbonara, Scibetta 2021), nel quale sono i docenti delle scuole coinvolte a illustrare i passaggi delle varie attività, specificando obiettivi, risorse e fasi del lavoro. Tutti i lavori sono accomunati dalla domanda: come possiamo costruire le conoscenze disciplinari degli studenti tramite l’uso di tutte le loro lingue? L’unità didattica sugli Unni si trasforma così in un laboratorio di ricerca linguistica da parte di tutti i partecipanti alla lezione: dopo una lettura da parte del docente, si individuano le parole-chiave che vengono tradotte nelle varie lingue di origine presenti nella classe e inserite nella bacheca plurilingue. Dopo la lettura, vengono organizzati gruppi bilingui (italiano + altra lingua). In ogni gruppo viene preparato un prodotto multimediale sull’argomento, in questo caso sugli Unni, lavorando con entrambe le lingue del gruppo.
A sostegno dell’utilità e dell’interesse di un progetto come AltRoparlante vi sono gli studi sui vantaggi cognitivi del bilinguismo e del translanguaging, ma anche la possibilità di concretizzazione dei principi di un’educazione linguistica democratica (Giscel 1975).
La mancata considerazione delle lingue e delle culture d’origine di uno studente può esercitare un impatto negativo a livello identitario, che può condurre a fenomeni di marginalizzazione sociale, disuguaglianza, stigmatizzazione. Al contrario, uno degli obiettivi del progetto è favorire l’empowerment degli studenti di origine straniera, ovvero la necessità di una costruzione collaborativa delle relazioni di “potere” nella classe, dove per potere si intende la capacità di autoaffermazione del singolo alunno, legittimato a utilizzare le proprie competenze multilingui come risorsa accademico-disciplinare.
Per approfondire
Carbonara V., Scibetta A., Imparare attraverso le lingue. Il translanguaging come pratica didattica, Carocci Editore, Roma 2020
Carbonara V., Scibetta A. (a cura di), Unu, dy, san! – Proposte operative per la didattica plurilingue nella scuola del primo ciclo, La Linea, Bologna 2021