Il dibattito italiano sui nativi digitali

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Anche da noi attorno alle tesi di Prensky è nata una discussione vivace. Da una parte vi è l’entusiasmo degli innovatori, per i quali i cambiamenti sono urgenti e improcrastinabili; dall’altra vi sono le riserve di chi vede nella rivoluzione digitale una “bolla educativa” destinata a sgonfiarsi.

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La nozione di digital native, coniata nel 2001 da Mark Prensky, ha suscitato negli Stati Uniti un vivace dibattito. In Italia Paolo Ferri, docente all’Università degli Studi Milano Bicocca, sulla scia di Prensky, si è fatto paladino della nozione di “nativo digitale”: non si è limitato a presentarla e discuterla. Il suo Nativi digitali, infatti, costituisce oggi la più impegnata, organica e meditata presentazione e riproposizione del manifesto di Prensky. Di recente, Roberto Casati, direttore del CNRS all’Institut Nicod di Parigi, ha pubblicato Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere che critica severamente le tesi di Ferri. Presenterò, in estrema sintesi, le due posizioni in campo e, nella terza parte, cercherò di riflettere su cosa c’è in gioco.

A favore dei nativi
Il libro Nativi digitali è lo sviluppo fondativo di ciò che Paolo Ferri ha svolto in libri precedenti, come ad esempio: La scuola digitale. Come le nuove tecnologie cambiano la formazione (2008) e, scritto con altri, Digital learning. La dieta mediale degli universitari italiani (2010). In Nativi digitali, egli riprende esplicitamente da Prensky la nozione di “nativo digitale”. Adattando il discorso al caso italiano, Ferri individua nel 1996 l’anno di svolta, quello in cui sarebbe avvenuto il cambio radicale che avrebbe dato vita alla generazione digitale.
Ferri giustifica questa scelta per il fatto che a quell’epoca cominciò la navigazione Internet via browser (Netscape Navigator e Internet Explorer). A suo avviso il modo di essere on-line dei nativi digitali può essere così riassunto: «Gioco, simulazione, performance, appropriazione, multitasking, conoscenza distribuita, intelligenza collettiva, giudizio critico, navigazione transmediale, networking, negoziazione: sono queste le caratteristiche specifiche delle nuove forme di appropriazione comunicativa dei media digitali che vengono sviluppate dai bambini e dai preadolescenti (ma anche dai teenager) del nuovo millennio» (p. 56).
Per ridurre il digital divide intergenerazionale bisognerebbe, secondo l’autore, come primo passo prendere atto della nuova cultura dei nativi e delle loro «nuove dimensioni di approccio alla conoscenza» (p. 59). Ferri cerca di legare il discorso di Prensky alla proposta di Antonio M. Battro e Percival J. Denham i quali, per parte propria con una certa cautela, propongono la nozione di intelligenza digitale. Egli, infatti, sintetizzando il proprio pensiero, scrive: «La nostra opinione, in proposito, è piuttosto radicale: i nativi digitali esistono e la loro differenza specifica è l’intelligenza digitale» (p. 80).
Ferri in tal modo cerca esplicitamente di espandere il lavoro di Howard Gardner, che aveva lanciato l’idea di una pluralità di forme di intelligenza, come l’intelligenza logico-matematica, l’intelligenza linguistica, l’intelligenza spaziale, aggiungendone un’altra: quella digitale appunto. Ecco, nel suo nucleo, l’impianto teorico del libro. Esso costituisce, però, solo una parte del discorso di Ferri, che prosegue mostrando cosa ne deriva sul piano pratico.
A suo giudizio, gli insegnanti, immigrati digitali, dovrebbero aggiornarsi, diventare abilitati digitalmente, imparare nuovi ruoli come quello di e-tutor e e-mentor (p. 110). Il loro ruolo si trasformerà, scrive, da quello di «“signore dell’aula” che dispensa “pillole di conoscenza” accuratamente preparate in anni di esperienza, a progettista didattico, allenatore, coach o tutor di un team di giovani talenti» (p. 172). Gli ambienti scolastici si dovrebbero trasformare per consentire agli studenti di svolgere attività su Internet (con aule cablate, con la possibilità di collegamenti wireless ecc.).
Quanto agli editori, in maniera molto chiara Ferri scrive: «Le imprese editoriali analogiche, e cioè i content provider gutenberghiani e massmediali, dovranno occuparsi di ristrutturare la loro offerta di contenuti e il loro modello di business, secondo le nuove regole del capitalismo digitale» (pp. 131-132). Insomma, egli prefigura un cambiamento radicale circa il mondo della scuola a tutti i livelli.

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Roberto Casati sostiene che non ci sono dati sperimentali che supportano le tesi di Ferri sulle nozioni di nativo digitale e intelligenza digitale. Quanto alla prima, egli ritiene che sia ambigua. In inglese, native speaker significa “madrelingua”: in effetti, la competenza linguistica normalmente si acquisisce nei primi anni di vita, mentre altre competenze si sviluppano più tardi. Perché allora non parlare di “lettori nativi” o di “nativi letterari”, riguardo ai bambini che imparano a leggere a partire dai quattro o cinque anni? Una tale competenza, come è noto, si può acquisire anche tardi nella vita. Perché allora si deve concludere che i cosiddetti “nativi digitali” siano come i madrelingua e non che siano come i “nativi letterari”, cioè semplicemente gente che sviluppa presto un’abilità che potrebbe acquisire altrettanto bene anche in seguito? Mancano dati per suffragare la posizione di Ferri, mentre a Casati la seconda conclusione sembra «l’ipotesi più semplice» (p. 60).
Per smontare il ragionamento di Ferri, Casati attacca anche la nozione di intelligenza digitale. Non c’è nulla di simile, sostiene, così come non c’è un’intelligenza specifica della gastronomia o del ciclismo. Ferri, del resto, presenta una serie di criteri per riconoscere il darsi di un’intelligenza specificamente digitale.
Casati, però, ritiene che gli argomenti forniti non siano convincenti. A titolo di esempio, discute il primo criterio che riguarda la possibilità di fornire «una prova obbiettiva». Da un lato, egli osserva, Ferri riconosce che i dati che abbiamo non sono interpretabili, dall’altro, però, li interpreta come prove che il cervello verrebbe modificato dall’uso delle tecnologie digitali (p. 61). Casati, assumendo il ragionamento di Ferri, ne mette così in risalto l’insostenibilità: anche se il fatto di stare in una stanza bianca influisse sul cervello dei bambini che vi restassero per cinque anni, non ne concluderemmo che c’è un’intelligenza albina. Insomma, anche ammesso che il cervello sia modificato dal digitale, non segue che esista un’intelligenza digitale.
Anche un altro criterio su cui Ferri fonda le proprie conclusioni, cioè il darsi di sottodomini in cui si articolerebbe l’intelligenza digitale, non supera l’esame di Casati. Tali sottodomini, secondo Ferri, consisterebbero, ad esempio, nel minimizzare la quantità delle informazioni necessarie a prendere decisioni e nell’esplorare la struttura delle informazioni disponibili nell’ambiente per attivare decisioni rapide. Questi «meccanismi», secondo Ferri, rendono i nativi molto bravi nell’esplorare ambienti digitali come Tomb Raider e War of Worldcraft (p. 85, ma immagino che Ferri si riferisse a World of Warcraft).

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Ad ogni modo, Casati rileva che si tratta della ben nota capacità di esplorare un ambiente, capacità che viene poi semplicemente estesa agli ambienti digitali. Non serve insomma ipotizzare alcuna nuova forma di intelligenza. In conclusione, Casati ritiene che l’intelligenza digitale di cui parla Ferri, altro non sia che «la capacità di prendere decisioni contestuali con l’aiuto della memoria e del linguaggio» (p. 63), tutto qui.
Fra le critiche che Casati rivolge a Ferri vi è anche quella di confondere l’accesso all’informazione con l’accesso alla conoscenza. I cosiddetti “nativi digitali” non hanno maggiore conoscenza disponibile, solo un maggiore accesso alle informazioni. Questo non li differenzia, né li rende di per sé più evoluti. Le giovani generazioni potranno avere un accesso facilitato alle informazioni, ma non di per sé alla conoscenza. Accedere al teorema di Pitagora, non è ancora leggerne il testo e, leggerlo non è ancora capire il teorema, né saperlo dimostrare a propria volta. Inoltre, Casati nota che, sempre di più, le tecnologie per essere user-friendly diventano accessibili a tutti, così che non serve una particolare intelligenza specifica per usarle. Del resto, fosse altrimenti, le grandi aziende produttrici dovrebbero rinunciare ai forti proventi delle vendite ai cosiddetti “immigrati digitali”.

Che cosa c’è in gioco
Da un lato, il libro di Ferri non è un testo di ricerca. Non soppesa col dovuto distacco i pro e i contro di una nozione, piuttosto costituisce un’operazione di militanza culturale, tesa a giustificare una forte spinta verso la completa digitalizzazione della scuola.
Dall’altro lato, la critica di Casati è volta a mostrare l’inconsistenza delle ragioni offerte da Ferri. Quello che è in gioco, a mio parere, non è affatto un dibattito accademico. Il punto, alla fine, è l’eterno quesito: “che cosa significa educare?” o, più operativamente: “come educare le prossime generazioni?”. Sarà a partire dalle risposte a questi quesiti che si valuteranno l’opportunità, i modi e l’urgenza dell’introduzione delle tecnologie digitali.
Esaminiamo ora le posizioni di Prensky e Ferri su due delicate questioni che riguardano, rispettivamente, il fine dell’educazione e il rapporto docente-discente. Si può intuire quale sia la preoccupazione educativa di Prensky dal seguente passo: «Il più grande problema educativo attuale è che gli insegnanti immigrati digitali, che parlano una lingua obsoleta (quella dell’era pre-digitale), hanno problemi a insegnare a una popolazione che parla un idioma completamente nuovo» (si veda il suo articolo in questo Dossier). Un tale giudizio, durissimo, va inquadrato nell’impianto argomentativo di Prensky-Ferri: vi è una differenza antropologica tra nativi e immigrati digitali. La soluzione, secondo gli autori, sarebbe allora di mettere i nativi a contatto col loro ambiente naturale: la tecnologia. In tal modo tutto si risolverebbe. Accedendo liberamente al sapere, i nativi potrebbero sviluppare ancora meglio la propria intelligenza. Essendo poi naturalmente collaborativi, come sostiene Ferri, insegnerebbero ai loro professori-dinosauro l’uso delle tecnologie.
L’ingenuità di questa impostazione è palese. Ciò che va rimarcato, però, è che, pur toccando un nervo scoperto, cioè l’urgenza di migliorare l’offerta educativa, la soluzione tecno-entusiasta non affronta il punto nodale. Le macchine sono strumenti, non possono diventare il fine, né costituiscono sempre e comunque il mezzo migliore.

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Gino Roncaglia, ad esempio, nel suo La quarta rivoluzione mostra brillantemente che il libro cartaceo è un modo per interfacciarsi al testo che in certi casi conserva ancora vantaggi su altre modalità, come quelle digitali. Bisognerebbe cominciare col chiedersi verso dove guidare le nuove generazioni; le considerazioni sui mezzi più adatti vengono dopo, non possono costituire il fine dell’azione educativa. L’impianto retorico adottato da Ferri permette invece di rovesciare il rapporto mezzi-fini. Passasse la sua impostazione, a scuola resterebbe la didattica, ma verrebbe meno l’azione educativa. Non si educa l’uomo a usare la macchina, lo si addestra o al massimo lo si forma. Anzi, se è vero quello che sostiene Ferri, non servirebbe nemmeno addestrarlo, perché è così digitalmente avanti, da poter imparare dalle macchine o dai pari.
Nell’attività scolastica attuale gli allievi hanno invece la possibilità di interiorizzare le figure dei loro maestri nelle discipline offerte dal corso di studi scelto. Questo non è surrogabile né dalle macchine, né dal gruppo dei pari. Che poi capiti che quei maestri abbiano perso la fiducia in se stessi, o non abbiano avuto più stimoli a migliorarsi, è una miseria del nostro sistema socio-economico-istituzionale, che non solo non sarà ovviata dall’introduzione del digitale, ma anzi sarà esasperata.
Un altro punto problematico nell’impostazione educativa di Prensky e Ferri si ritrova in un passo del primo: «Gli insegnanti devono imparare a comunicare nella lingua e nello stile degli studenti». La tesi è ripresa da Ferri: i nativi digitali si trovano «di fronte a insegnanti che parlano una lingua con “accento” talmente differente dal loro da farla sembrare un’altra lingua» (p. 173). Negli insegnanti, scrive, la «mancanza di “agilità” e di “intelligenza tecnologica” va di pari passo con una forte dose di diffidenza» (p. 173).
L’argomento, nel suo complesso, è che siccome i nativi digitali usano gli strumenti digitali, per poter restare in contatto con loro, bisogna adeguarsi. Va riconosciuto che c’è del vero: il fatto di avvertirsi irriducibili estranei rende più difficile la comunicazione e, a maggior ragione, la comunicazione educativa. In questo senso, una certa attenzione agli interessi e alle forme di vita degli studenti è utile per svolgere meglio il proprio lavoro.
Ciò che c’è di sbagliato nel discorso di Prensky è però la sua radicale unidirezionalità: egli non dice che è utile una certa attenzione a, dice che si deve comunicare nella lingua e nello stile di. Un educatore che corra dietro alle mode degli educandi, non pare avere chiaro il proprio ruolo, che invece consiste nello spingere gli studenti verso ciò che egli insegna. Altrimenti, un insegnante di inglese con in classe figli di emigrati africani dovrebbe indossare vestiti tribali e insegnare lo Jive, l’inglese afro-americano vernacolare. Perché un tale insegnante sarebbe ridicolo? Perché non avrebbe capito che educare non è adeguarsi allo stile di vita degli allievi, bensì guidare questi ultimi a qualcosa di altro da se stesso e da loro. Ho un’idea autoritaria dell’insegnamento? A me, piuttosto, pare che Prensky e Ferri abbiano una concezione che mortifica l’insegnante.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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