Come è noto, è tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento che i due maggiori poeti della nostra tradizione, Dante e Petrarca, vedono invertirsi le reciproche fortune: Saverio Bettinelli, nel 1757, riserva a Dante parole severe nelle sue Lettere virgiliane, un libro certo non di grande spessore critico o filosofico, ma capace di interpretare lo spirito dei tempi, come rivela il suo immediato e prolungato successo. Cinquant’anni più tardi, nei celebri versi dei Sepolcri, Foscolo mette i due sullo stesso piano, chiamando Firenze “beata” per essere stata la prima città a udire il canto con cui il “Ghibellin fuggiasco” placava la propria ira, e per aver dato “i cari parenti e l’idïoma”, cioè i genitori e la lingua, al “dolce di Calliope labbro” Petrarca. Ma dopo Leopardi è chiaro che Petrarca, modello incontrastato della lirica europea per più di tre secoli, non è più oggetto di culto, non viene più letto con l’amore appassionato di un tempo, non agisce più, nella cultura italiana ed europea ormai romanticizzata, con la stessa forza di un tempo. Le riserve di De Sanctis sanciscono a livello critico ciò che i lettori, e in grande misura anche i letterati, hanno ormai stabilito. Il compianto Amedeo Quondam, esattamente vent’anni fa, nel suo Petrarca, l’italiano dimenticato, ricorre alle metafore del “parricidio” e del “colpo di stato” per sottolineare il radicale mutamento di paradigma che si verifica nella prima metà del XIX secolo. E insiste, giustamente, sulla “marginalità” di Petrarca nella cultura contemporanea, e sul nostro “disagio” nei confronti della sua opera e del suo successo di un tempo.
Non è certo un anniversario (quest’anno ricorrono i 650 anni dalla morte) che può cambiare una percezione epocale frutto di una rivoluzione complessa come quella romantica, e ben lungi dall’aver esaurito la sua forza propulsiva e le sue conseguenze. Essendo però “La ricerca” una rivista rivolta in primo luogo agli insegnanti, forse vale la pena di condividere alcune riflessioni che potrebbero risultare utili per ovviare, almeno in parte, all’istintiva indifferenza, quando non all’aperta antipatia, con cui gli adolescenti affrontano questo autore. Sono riflessioni nate dal lavoro di autore di manuali di letteratura e dalla lettura integrale e ordinata del Canzoniere, che ho iniziato il 1° gennaio di quest’anno e che concluderò, se mi basterà il fiato, il 31 dicembre con la canzone alla Vergine.
Ma come, diranno i colleghi, non avevi mai letto il Canzoniere? Partiamo proprio da qui.
La risposta è no: avevo studiato il Canzoniere all’università, avevo letto dei saggi critici su Petrarca in generale e sul Canzoniere in particolare, avevo letto tutte o quasi tutte le poesie che compongono l’opera, ma leggerla come si legge un romanzo, o come ho letto la Commedia, dall’inizio alla fine, come Dante pensava che andasse letta, questo no, non l’avevo mai fatto.
È ovvio che tutte le raccolte di liriche si prestano a una lettura antologica, anzi direi che la presuppongono. Ma Petrarca ha pensato alla sua opera come a un libro unitario, non come a un’antologia: lo rivela il numero dei testi che ha prescelto nella versione definitiva, o ultima che dir si voglia (uno di introduzione più 365, quanti i giorni dell’anno) e la cura maniacale con cui, fino alla vigilia della morte, ha continuato non solo a limare le sue poesie, ma a ridisporle, a riordinarle, evidentemente in vista di un determinato effetto, o di determinati effetti, sui lettori.
Aggiungo che Petrarca ha pensato a lettori (o lettrici: ma lui usa il maschile, consentitemi di rispettare questa formula oggi superata) – a lettori, dicevo, e non a studiosi. Le sue poesie si rivolgono certo a un pubblico colto, culturalmente aristocratico, ben diverso da quello delle “mulierculae” a cui Dante pensava scrivendo l’Inferno (ma non il Paradiso: perché già allora, in quindici anni circa, le cose erano cambiate, e l’ultima cantica della Commedia è scritta per chi ha drizzato “il collo per tempo al pan de li angeli”, cioè al pubblico culturalmente aristocratico che è quello di Petrarca). Ma un pubblico comunque di lettori, che dalla lettura deve ricavare un piacere, in cambio del suo investimento di tempo e di energie.
E mi sembra che questo sia un primo elemento su cui far riflettere gli adolescenti: il Romanticismo auspicava una letteratura popolare, nel senso che Berchet attribuiva a questa espressione, e quindi non poteva amare un poeta dichiaratamente anti-popolare come Petrarca. Ma perché noi, a distanza di due secoli da quella svolta, che allora era rivoluzionaria in senso democratico, non potremmo assumere un atteggiamento oggi più contro-corrente, e accettare la sfida della difficoltà? Petrarca non è un poeta facile: basta confrontare la cordiale linearità con cui inizia la Commedia, fornendo ordinatamente ai lettori tutti i dati necessari per orientarsi (tempo, luogo, causa…) e l’intricata sintassi del sonetto proemiale del Canzoniere, con quel “Voi” che subito si apre su una cascata di subordinate (“Voi ch’ascoltate… ond’io… quand’era…”) e con quelle continue esitazioni, quei distinguo, quelle precisazioni (in parte… piango e ragiono… ove sia… spero… nonché…). Non è un poeta facile e sa essere decisamente oscuro:
Quando ‘l pianeta che distingue l’ore
ad albergar col Tauro si ritorna,
cade vertú da l’infiammate corna
che veste il mondo di novel colore…
Senza l’aiuto delle note, temo che questi versi alla stragrande maggioranza dei lettori risultino opachi quanto quelli di un Mallarmé o di un Eliot, sia pure per ragioni diverse.
Paul Celan, che è tra i lirici più oscuri di ogni tempo, diceva che nessuna grande poesia è facile, tutta la grande poesia è difficile (lui diceva oscura), anche quelle che all’apparenza “si capisce subito cosa vuol dire”. Celan, con la sua oscurità, affrontava le grandi tragedie del Novecento, Hiroshima, Auschwitz, e l’insondabilità del mistero che è all’origine di tutto quel grande scandalo che è la storia dell’umanità. Petrarca vive in uno dei periodi più spaventosi della storia europea prima appunto del Novecento: forse dobbiamo dare fiducia ai nostri studenti e dir loro che Petrarca è nostro fratello molto più di quello che appare a prima vista. Dobbiamo rinunciare a proporre solo il Petrarca più limpido e comprensibile, quello che si colloca al filone del trobar leu, quello di “Solo e pensoso”, per intenderci, di “Erano i capei d’oro a l’aura sparsi” e di “Chiare, fresche, et dolci acque”, e avere il coraggio di spiegare anche il Petrarca ermetico, quello che scrive sestine e che gareggia con il Dante delle rime filosofiche e con il “miglior fabbro” Arnaut Daniel.
Si potrebbe così scoprire che le sestine non sono affatto inaffrontabili: ecco per esempio la prima strofa della n. 66, che contiene una delle più belle descrizioni dell’inverno che io ricordi nella poesia italiana:
L’aere gravato, et l’importuna nebbia
compressa intorno da rabbiosi vènti
tosto conven che si converta in pioggia;
et già son quasi di cristallo i fiumi,
e ‘n vece de l’erbetta per le valli
non se ved’altro che pruine et ghiaccio.
E si potrebbe scoprire, anche nei testi più “facili” e “cantabili” e quindi ripetuti e cantati, un Petrarca sperimentale, addirittura trasgressivo.
“Chiare, fresche, et dolci acque”, per esempio, è un verso basato su tre sinestesie – con la vista, con il tatto e con il gusto; e questo probabilmente è scritto in tutte le analisi dei manuali scolastici. Ma proviamo ad andare oltre l’osservazione tecnica: Petrarca attraverso questa figura retorica propone un approccio “sensuale” alla realtà che, nel Trecento, costituisce quasi una provocazione; non è un caso che l’aggettivo “bello”, in tutte le sue varianti, ricorra ossessivamente nei suoi versi – la bellezza non è un elemento accessorio, una decorazione, ma un fattore essenziale nel suo innamoramento per Laura – al contrario di quanto accade per Dante e Beatrice, la cui bellezza infatti non viene mai descritta, mentre quella di Laura è mostrata dettagliatamente, negli occhi, nei capelli, nel seno, nelle mani e così via.
Naturalmente Petrarca non è Baudelaire, anche se ricorre alle sinestesie, e non è Pasolini, anche se ama le antitesi. Non si tratta di “modernizzare” Petrarca, ma di sottrarlo, nel momento del primo approccio, ai filologi e ai linguisti, per restiruirlo ai lettori. E una delle chiavi di lettura del Canzoniere è la lotta che si svolge nell’interiorità del poeta, tra sensualità da una parte e volontà ascetica dall’altra, tra insopprimibilità del desiderio e aspirazione a una virtù religiosa tradizionalmente intesa. Che i due termini del dilemma siano legati almeno in parte all’epoca in cui Petrarca è vissuto è indubbio; ma nella rappresentazione di questa lacerazione interiore dolorosa e insolubile Petrarca è di una modernità straordinaria. Quello che a noi può sembrare un verso “innocuo”, anestetizzato dalle infinite ripetizioni, per il lettore ideale di Petrarca era una dichiarazione impegnativa: una minima, ma sintomatica, rivendicazione dello spazio autonomo della poesia, della bellezza, svincolata da finalità morali e religiose.
Prendiamo ora un altro punto di vista, quello metrico; e continuiamo il nostro esperimento sullo stesso verso: “Chiare, fresche, et dolci acque” è ovviamente un settenario; le sillabe metriche (individuate le due sinalefi) sono infatti
Chia – re – fre – sche et – dol – ci ac – que
1 2 3 4 5 6 7
Ma nessuno pronuncia Chià-re-fré-schee-dol-ciàc-que; nel concreto atto di lettura, gli accenti formano in realtà un ottonario: Chià-re-fré-schee-dòl-ci-àc-que, come se fra “dolci” e “acque” ci fosse una ipotetica dialefe. Petrarca rispetta le regole, certo, ma all’interno delle misure date inventa un ritmo diverso, che fa sparire il settenario e rompe le attese dei suoi lettori. E lo fa spesso, pensiamo per esempio a celebri endecasillabi come “Non Tesin, Po, Varo, Arno, Adige et Tebro”, n. 148: o lo trasformiamo in un delizioso nonsense (Nònte sinpò – vararnàdi gettèbro), o chi lo sente più, il ritmo dell’endecasillabo?
Ho scelto “Chiare, fresche, et dolci acque” perché è la canzone più spesso usata per spiegare le regole, appunto, della canzone petrarchesca: fronte, sirma, chiave, congedo ecc. Credo di averlo fatto anch’io, in uno dei miei manuali. Ma non dimentichiamo di dire che Petrarca stesso, in molti casi, queste regole le cambia: e nel Canzoniere troviamo canzoni senza congedo, canzoni con rime al mezzo (che turbano la musicalità orecchiabile degli endecasillabi e dei settenari, complicando virtuosisticamente lo schema metrico: anche questo bisogna dirlo, credo, che Petrarca è un mostro di bravura metrica, almeno quanto Dante, o Pascoli), e una canzone unissonans, la n. 29, in cui cioè i versi non rimano all’interno della strofa, ma con quelli che si trovano nelle medesima posizione in tutte le altre strofe.
E osservazioni simili si potrebbero fare, e forse si devono fare con maggiore incisività di quanto non accada di solito, riguardo alla uniformità tematica del Canzoniere e alla sua levigatezza linguistica. Ma questo sarà l’argomento della prossima puntata.
(continua)