Andrea Canevaro, in un libro del 1976, paragonava l’ingresso a scuola degli studenti a un’uscita nel bosco, lontano da casa1. Raccontava che ci sono studenti che trascorrono la giornata nel bosco e imparano tante cose, sanno rientrare e in alcuni casi andare anche oltre. Ci sono studenti che si riempiono le tasche di sassolini bianchi e li buttano per terra, in modo da saper ritrovare la strada di casa, e riescono a vivere completamente la vita del bosco. Altri studenti lasciano delle briciole di pane secco, ma è una traccia molto fragile, e bastano le formiche a cancellarla. Questi alunni si perdono nel bosco, non si riconoscono come compagni di strada e non sanno più tornare a casa.
A detta di alcuni, che sono poco interessati alle storie e alle identità di chi incontrano, oggi potremmo dire che chi si perde nel bosco un po’ se lo è meritato: non ha lavorato abbastanza, non ha saputo valutare ciò che era necessario, non ha scelto alleanze giuste, non ha raggiunto la meta, non è stato attento alla strada o non si è portato i “giusti” sassolini. Non si è impegnato, e “giustamente” si è perso. Chi sceglie invece di guardare attraverso una lente attenta alle dimensioni personali e contestuali, e autenticamente pedagogica, avrà subito chiaro che la possibilità di scegliere strategie funzionali può dipendere da una molteplicità di fattori: le capacità, le possibili situazioni iniziali di svantaggio sperimentate e mai fatte evolvere, i mediatori messi a disposizione del contesto, l’immagine di sé.
Perdersi a scuola: te lo sei meritato?
Leggere questa parola, merito, senza una cornice specifica, senza il necessario contesto, è dunque molto pericoloso, perché finisce per definire immeritevole chi in realtà non è stato messo nelle condizioni e nelle situazioni di eccellere, come può e come desidera.
Sempre Andrea Canevaro, in un’intervista, dichiarava:
Merito è una parola molto utilizzata, soprattutto nel suo derivato meritocrazia. Uno degli obiettivi, e uno dei vanti, di un certo modo di proporre un progetto politico fa riferimento alla necessità di restaurare i principi meritocratici. Che, nella corruzione delle parole, sono intesi come meriti da confermare. Chi nasce fortunato, e chi nasce sfortunato. Secondo questo presupposto, i principi meritocratici possono essere interpretati come l’individuazione il più possibile precoce dei fortunati, i meritevoli, che devono ricevere tutte le attenzioni. Mentre gli altri, gli sfortunati immeritevoli, devono essere messi in condizione di non far perdere tempo, energie e soldi. Per questo, coerentemente, è non solo inutile ma dannoso come ogni sperpero: organizzare tempo pieno scolastico, insegnanti specializzati per l’integrazione, compresenze, e altri accorgimenti didattici. E nelle università è dannoso perdere tempo, energie e soldi per la ricerca didattica che tenga conto dei bisogni speciali di alcuni, gli sfortunati. In questa impostazione, risultano spese improduttive quelle che riguardano quel settore che viene sovente indicato come “il sociale”, e che si occupa di soggetti problematici (sfortunati e immeritevoli).2
Le riflessioni lucidissime che abbiamo appena letto ci portano allora a pensare che la narrazione merito-meritocrazia sia davvero pericolosa, oltre che scorretta, perché non solo va ad alimentare i destini scritti di chi è falsamente ritenuto immeritevole, ma perché ha anche la presunzione di considerarsi giusta, ovvero nel giusto in termini di comportamento responsabile.
La Pedagogia speciale, che si occupa da sempre di questi temi, ha molto chiara la distinzione tra uguaglianza, equità e giustizia. Claudio Imprudente ha scritto un racconto molto bello a riguardo:
C’era una volta un re che si chiamava Trentatré. Un giorno Trentatré pensò che un re deve essere giusto con tutti. Chiamò Sberleffo, il buffone di corte: “Io voglio essere un re giusto – disse Trentatré al suo buffone – così sarò diverso dagli altri e sarò un bravo re”. “Ottima idea maestà” – rispose Sberleffo con uno sberleffo. Contento dell’approvazione il re lo congedò. “Nel mio regno – pensò il re – tutti devono essere uguali e trattati allo stesso modo”. In quel momento Trentatré decise di cominciare a creare l’uguaglianza nel suo palazzo reale. Prese il canarino dalla gabbia d’argento e gli diede il volo fuori dalla finestra: il canarino ringraziò e sparì felice nel cielo. Soddisfatto della decisione presa, Trentatré afferrò il pesce rosso nella vasca di cristallo e fece altrettanto, ma il povero pesce cadde nel vuoto e morì. Il re si meravigliò molto e pensò: “Peggio per lui, forse non amava la giustizia”. Chiamò il buffone per discutere il fatto. Sberleffo ascoltò il racconto con molto rispetto, poi gli consigliò di cambiare tattica. Trentatré, allora, prese le trote dalla fontana del suo giardino e le gettò nel fiume: le trote guizzarono felici. Poi prese il merlo dalla gabbia d’oro e lo tuffò nel fiume, ma questa volta fu il merlo a rimanere stecchito. “Stupido merlo – pensò Trentatré – non amava l’uguaglianza”. E chiamò di nuovo il buffone Sberleffo per chiedergli consiglio. “Ma insomma! – gridò stizzito il re – come farò a trattare tutti allo stesso modo?”. “Maestà – disse Sberleffo – per trattare tutti allo stesso modo bisogna, prima di tutto, riconoscere che ciascuno è diverso dagli altri. La giustizia non è dare a tutti la stessa cosa, ma dare a ciascuno il suo.3
La narrazione già offre una lettura significativa a riguardo. Il “dare a tutti la stessa cosa” credendo così di offrire a tutte le stesse opportunità è sicuramente poco efficace e palesemente discriminante. La scuola dell’uguaglianza così intesa è uno spazio non generativo, che non sa invertire le lotterie dello svantaggio e delle povertà. Paradossalmente, a confermare questa visione è anche l’insegnante che si crede inclusivo il quale, ignorando il peso degli atteggiamenti e delle convinzioni personali, afferma con convinzione e credendosi nel giusto di «essere uguale con tutti i suoi studenti» oppure che quel ragazzino lì «per me è uno come gli altri», ignorando i tanti pezzetti di cui ciascuno di noi è fatto, compreso un eventuale deficit e/o un ambiente sfavorevole.
L’idea di “dare a ciascuno il suo” è sicuramente maggiormente evolutiva in termini di riconoscimento e promozione. Comporta essere disponibili a mettere in conto che alcuni bambini e alcune bambine, alcuni ragazzi e alcune ragazze, per possibili condizioni vissute o situazioni contestuali esperite necessitino di una differenziazione di opportunità, mezzi, linguaggi messi a disposizione. Anche un’equità che cerca di pareggiare le differenze, considerandole sempre in difetto, non è però quello che mi aspetto da una scuola realmente democratica, che oggi dovrebbe essere così attenta alle singolarità e alle specificità da non dover “aggiustare” in via emergenziale per alcuni, ma proporsi come già al plurale. Fare giustizia, a scuola e nella comunità, significa, a mio avviso, alimentare sguardi, prassi e contesti che hanno bene in mente che di “cento” siamo fatti e che ciascuna singolarità merita di essere considerata nella sua unicità e vissuta in un contesto accessibile e plurale.
Il caso dei Bisogni Educativi Speciali: vincolo o possibilità?
Nella norma italiana si legge che
l’area dello svantaggio scolastico è molto più ampia di quella riferibile esplicitamente alla presenza di deficit. In ogni classe ci sono alunni che presentano una richiesta di speciale attenzione per una varietà di ragioni: svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture diverse. Nel variegato panorama delle nostre scuole la complessità delle classi diviene sempre più evidente. Quest’area dello svantaggio scolastico, che ricomprende problematiche diverse, viene indicata come area dei Bisogni Educativi Speciali (in altri paesi europei: Special Educational Needs). Vi sono comprese tre grandi sotto-categorie: quella della disabilità; quella dei disturbi evolutivi specifici e quella dello svantaggio socio-economico, linguistico, culturale.4
A partire dal 2019, a queste tre categorie è stata aggiunta anche quella della plusdotazione.
A un decennio da questo intervento normativo, può essere fatto un primo bilancio delle pratiche che si sono attivate a partire dalla definizione di BES – pratiche che, a mio avviso, non sempre hanno permesso la costruzione di contesti evolutivi in termini di equità5.
Nella quotidianità di molti contesti scolastici si è spesso sposato il binomio bisogno-problema, che ha favorito di fatto l’assunzione di una prospettiva riparatoria focalizzata su risonanze più riabilitative che formative. Il Bisogno Educativo Speciale è diventato una sorta di cortocircuito da sanare, perché letto solo come portavoce di problematicità e di difficoltà che sembrano, nell’interpretazione di chi se ne fa carico, chiedere una risoluzione, un aggiustamento. Progettare a partire dai bisogni in queste circostanze non ha rappresentato un momento iniziale importante di raccolta di informazioni, di conoscenza e di comprensione, ma si è trasformato nella definizione di una serie di azioni più risarcitorie, volte a ridurre il gap, a colmare la distanza dalla presunta idea di normalità.
In altri contesti i bisogni sono stati derivati esclusivamente dalla patologia o dalla situazione di svantaggio di chi li manifestava. Si è cominciato così a immaginare che tutti i bambini e le bambine con un certo disturbo potessero di fatto esprimere gli stessi bisogni, dimenticando completamente il peso dei fattori personali e ambientali, i diversi modi di poter avere e vivere anche un eventuale deficit. Molti interventi hanno così perso occasioni per conoscere la specificità di ogni storia, deducendo tutto dalla semplice diagnosi e sposando strategie e approcci da essa derivati come gli unici ritenuti efficaci e possibili.
In alcune mappe interpretative, dentro questa logica, l’intreccio tra bisogni e patologia si è amplificato, perché è andato ad alimentarsi dentro le aspettative delle età: ne deriva che l’universo dei bisogni può essere automaticamente dedotto in base all’età cronologica. Per sintetizzare: bambine e bambini di quell’età e con quel disturbo hanno questi bisogni.
Un’altra riflessione significativa è legata alla difficoltà di leggere queste dimensioni in una prospettiva di cambiamento. Con fatica si coglie l’evoluzione dei bisogni nel corso del tempo: l’analisi fatta all’inizio dell’intervento rimane spesso invariata. Nonostante sia anche possibile che i sostegni proposti non siano modulati e che il mondo educativo-scolastico non riesca a personalizzare e individualizzare, i bisogni, i bambini e le bambine in sé, sono mutati, così come i loro funzionamenti. Dentro questo scenario, nonostante anche la normativa lo preveda, viene meno una dimensione temporale, che spesso, purtroppo, rimane schiacciata in un “per sempre” sia nell’individuazione sia nell’intervento.
Infine, in contesti non pronti ad accogliere la complessità delle identità, spesso si legge la difficoltà come disturbo, attivando anche processi di medicalizzazione e di patologizzazione non necessari e molto preoccupanti in questo momento storico, vista la generale difficile situazione dei sistemi di cura. Etichettare non basta, e non è mai servito a far evolvere qualcuno. Per far sì che alcuni bambini e bambine non peggiorino, bisognerebbe avere il coraggio di intervenire sui contesti di povertà che molti di loro vivono e da cui purtroppo poco possono raccogliere.
Non è impossibile però dare una chance a questa normativa e ai pensieri e riflessioni che a riguardo si sono attivate in questo decennio.
L’etimologia della parola bisogno deriva dal basso latino bisonium, a sua volta composto dal prefisso pleonastico bi- + somnium (poi assimilato dal franco bi-sunnia). Il termine ha un duplice significato: necessità e impedimento da un lato e dall’altro attenzione, cura, sollecitudine. La parola include non solo l’idea di qualcosa che manca, ma anche la possibilità di mettere in conto una necessità da realizzare, una sorta di desiderio.
Il bisogno tout court non è quindi esclusivamente espressione di ostacolo o assenza, ma anche di una sorta di ventaglio di possibilità che raccontano l’identità di chi si incontra, il suo modo di essere e di stare al mondo. Riconoscere e nominare i bisogni è occasione preziosa per capire chi abbiamo davanti. Ogni soggetto è portatore di bisogni specifici che riguardano il proprio percorso educativo e gli stessi possono essere letti come un intreccio di indizi capaci di presentare la trama di una storia e di una identità: diventano in questo senso una sorta di desiderio di mostrare chi si è, affinché chi ha la responsabilità educativa possa prendersene cura.
Questa cornice vale anche per i Bisogni Educativi definiti Speciali. In questo caso, ciò che va a contraddistinguere la loro eccezionalità non è il fatto che si presentino in categorie di persone speciali perché con un funzionamento particolare, ma perché per essere soddisfatti necessitano di un intervento specifico, spesso individualizzato e/o personalizzato. Ribaltandone la vulgata, la “specialità” non dipende dalla condizione dei ragazzi e delle ragazze, ma dalla possibilità che la scuola ha di offrire opportunità adeguate, che possano tenere conto della diversità e delle differenze di ciascuno, dalla sua reattività, dunque, e capacità di avere tanti strumenti a disposizione quante sono le unicità con cui ha a che fare.
Questa idea rinnovata di “bisogno” può aprire anche a una diversa idea di compensazione, altra parola non sempre usata in un orizzonte concettuale corretto, quando non abusata.
Una prospettiva che voglia affrontare la questione da un punto di vista pedagogico deve poter leggere la compensazione come non solo centrata sul soggetto e sulle infinite possibilità di autopoiesi, ma anche su quali condizioni ambientali e contestuali ne hanno permesso lo sviluppo. Non solo una compensazione del disturbo e/o dello svantaggio misurata sul soggetto, ma anche sull’ambiente di apprendimento e di vita, capace esso stesso di essere promotore di accomodamenti.
Non si tratta quindi di mettersi in un’ottica di pareggio, in cui chi era in difficoltà ha sistemato e aggiustato il suo guasto, ha sanato l’errore e si è normalizzato, ma provare a riequilibrare i confini, chiedendo a tutte le parti in causa di ripensarsi, in una relazione di eco-dipendenza. Maggiore sarà la capacità del contesto di farsi a priori alla portata di tutti, minore sarò lo sforzo che il soggetto dovrà fare in termini di personale compensazione, maggiori saranno i livelli e le occasioni di dipendenza reciproca e più alti i livelli di autonomia conquistata.
In questo senso, una proposta autenticamente inclusiva potrebbe riconoscere la necessità di un intervento speciale in un determinato momento senza cadere nella trappola che sia irreversibile, e attivare una variegata molteplicità di azioni perché quella condizione non diventi un tatuaggio indelebile e quel bisogno evolva con la persona stessa e con il suo contesto.
Costruiamo scuole meritevoli di chi incontriamo
Già dall’inizio degli anni Duemila l’UNESCO invitava ad accogliere l’orizzonte dell’“Education for all”6, facendo proprio il riconoscimento della diversità di ciascuno e della necessità della promozione delle differenze, con e oltre situazione di disabilità e/o svantaggio. C’è ancora tanta confusione oggi quando si parla di orizzonte inclusivo: c’è l’idea che riguardi alcune categorie di persone, che implichi il raggiungimento di una pseudo ordinarietà, che sia il movimento di accoglimento di alcuni verso altri. La storia del nostro Paese da questo punto di vista ha tanto da insegnare: l’inserimento prima e l’integrazione poi hanno avviato percorsi di riflessione importante, nonostante le tante configurazioni in cui queste pratiche si sono tradotte. Nel primo caso si è garantito l’accesso ai luoghi educativi, senza badare molto alla qualità di quell’esperienza. Nel secondo caso la logica è stata quella di ragionare sulla costruzione di percorsi specifici dentro i luoghi tradizionali e le proposte ordinarie, pensati ad hoc per persone certificate.
La dimensione inclusiva dovrebbe ribaltare questo immaginario: ampliare la forbice dei destinatari fino ad abbracciare l’intera popolazione studentesca, multiforme in termini di diversità e di differenze-possibilità. Dall’altro cambia anche la prospettiva: il senso non è più un intervento riparatorio sul singolo, ma la possibilità di far evolvere i contesti perché ciascuno possa essere riconosciuto, valorizzato per il proprio unicum. Ne deriva che la differenziazione degli interventi non riguarda alcuni, ma un modo ordinario di procedere in educazione.
E allora, se proprio vogliamo parlare di merito, mi piacerebbe immaginare che una scuola che “meriti” di essere frequentata, conosca le differenze sempre meglio, le ricerchi con coraggio, le celebri e le faccia fiorire, senza buonismo e senza folklore. Meritiamoci la bellezza di una scuola che si spende per offrire competenze apprenditive e educative essenziali per la vita, ma che non ha paura di coltivare le tante possibilità che incontra: una scuola in cui si entra differenti, si impara ciò che conta per essere autodeterminati, si esce cresciuti e, in maniera evolutiva, nuovamente “differenti”.
Note
- Cfr. A. Canevaro, I bambini che si perdono nel bosco. Identità e linguaggi nell’infanzia, La Nuova Italia, Firenze 1976.
- L’intervista è reperibile online all’indirizzo https://comune-info.net/scuola-meritocrazia-e-imprevisti/.
- Cfr. C. Imprudente, Re 33 e i suoi 33 bottoni d’oro, La Meridiana, Roma 2006.
- Direttiva Ministeriale 27 dicembre 2012 – Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica.
- Cfr. M. Sannipoli, Per una nuova cultura dei bisogni. Dispositivi e pratiche inclusive in dialogo, “Italian Journal of Special Education for Inclusion”, 7(1), 2019, pp. 55-66.
- Cfr. UNESCO, The Dakar Framework for Action. Education for All: Meeting our Collective Commitments, UNESCO, Paris 2000.