Cittadinanza e sostituzione

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Nell’attesa di poter ordinare il fuoco ad alzo zero alle batterie del Sistema Nazionale di Valutazione, allo scopo di avere misurazioni su base scientifica e graduatorie di merito trasparenti e indiscutibili con cui premiare la professionalità rilevata come efficace e – di riflesso – punire quella giudicata carente, il superiore ministro in carica passa il tempo a condannarci di fronte alla pubblica opinione.

 

E – a dire la verità – quando afferma che noi prof abbiamo perso l’entusiasmo ci azzecca, per lo meno nel mio caso.
Chiedersi perché o porre l’interrogativo all’opinione pubblica non è però importante: sarebbe tutto un altro paio di maniche, non bucherebbe i media e renderebbe piuttosto necessari una riflessione sull’immagine socio-culturale della scuola, un bilancio delle politiche istituzionali, una definizione sostenibile di innovazione, una progettazione credibile degli interventi e così via: tutte prospettive e problematiche non in sintonia con lo spirito dei tempi, che richiedono velocità e producono superficialità.
Del resto, l’innovazione, soprattutto se implementata e rappresentata dal totem tecnologico, deve essere realizzata “a prescindere”: non contano i risultati di apprendimento effettivi laddove – e sono percentuali di classi e di scuole risibili – è stata messa in atto, da nessuno mai misurati né tanto meno valutati; così come non vengono considerate le autentiche condizioni materiali e logistiche degli istituti.
Per non parlare delle richieste di intensificazione delle prestazioni professionali: “lavoro” e – peggio! – “contratto” sono espressioni desuete nell’Italia 2.0, approcci ai problemi di cui vergognarsi profondamente, simboli di gretto conservatorismo, di rifiuto della flessibilità.
Lo testimoniano affermazioni come quella recentemente sfuggita – per un inconsapevole eccesso di ironia sconfinato in sarcasmo davvero gratuito – a un notissimo guru dell’innovazione dei contenuti e delle pedagogia: probabilmente esacerbato dai decennali e costanti respingimenti dei suoi insegnamenti visionari da parte della massa critica dei docenti, non solo si è immaginato ministro dell’istruzione, ma si è anche attribuito il potere di rendere obbligatoria agli insegnanti la lettura di un certo libro, ovviamente ed esclusivamente in versione digitale, poco importa se nel formato proprietario della più nota corporation internazionale del settore degli ebook.
Non stupisce di conseguenza che un altro tra i più evidenti sostenitori della costruzione di una nuova scuola in una nuova comunità educativa sostituendo il principio della libertà di insegnamento con quello della costrizione di coloro che ci lavorano (mi è sfuggito, chiedo venia!), costantemente impegnato a rilasciare interviste ai media sul tema dei nativi digitali – concetto e presunta categoria antropologica a cui del resto ha legato in modo indissolubile carriera accademica e notorietà –, si sia anch’egli lasciato andare pochi giorni fa a un giudizio sprezzante sulla generalità degli insegnanti, troppo mal pagati per poter rispondere in modo serio della richiesta di produrre materiali didattici digitali.
Siamo di fronte non a episodi isolati, ma alla vera e propria punta di un iceberg: la scuola è certamente inadeguata, ma l’idea che la responsabilità principale sia di chi la tiene in piedi tutti i giorni è ingenerosa e da respingere in toto ai diversi mittenti.
E invece succede troppo spesso che esternazioni come quelle che ho citato riscuotano consenso da parte di diversi colleghi, che si identificano come contro-esempio, ne assumono la prospettiva e, con una visione distorta e autodistruttiva della deontologia, aprono il fuoco amico su coloro che ostinatamente resistono alle forzature professionali di volta in volta prospettate.

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Marco Guastavigna

Insegnante nella scuola secondaria di secondo grado e formatore. Tiene traccia della sua attività intellettuale in www.noiosito.it.

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