Goodbye pacifismo!

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Perché chi non conosce la guerra è destinato a ripeterla. Dall’ultimo numero de La ricerca, il 27: “Guerra”.
La biblioteca di Holland House pesantemente danneggiata dai raid tedeschi su Londra. La fotografia dei tre uomini di fronte agli scaffali scampati all’incendio ebbe un grande valore di propaganda.Photo by: Harrison for Fox Photos Limited/Wikimedia Commons/Public Domain

Prima della Nascita della tragedia e delle altre opere che gli frutteranno imperitura memoria, quando ancora non ha intrapreso la pur breve carriera di filologo classico ed è poco più che studente a Lipsia, Nietzsche tiene una conferenza a proposito di un presunto certamen che avrebbe visto Omero ed Esiodo contendersi il titolo di aedo. La ricerca, volta anche a dimostrare la contemporaneità dei due poeti, è doppiamente incentrata sul tema del conflitto: innanzitutto, la cornice narrativa della vicenda rievocata è costituita dalla contesa tra i due cantori; in secondo luogo, spiega Nietzsche, la gara si disputa proprio sul tema della lotta, ovvero della sua assenza. Chiamati a recitare i loro migliori versi, da un lato Omero torna su alcuni eventi della guerra di Troia, mentre Esiodo sceglie di declamare la condizione di pace da lui descritta nelle Opere e i giorni. I giudici incoronano quest’ultimo, benché il pubblico rimanga contrariato dall’esito del concorso. Lo sguardo privilegiato di lettori postumi ci permette di presagire, già in queste pagine, la propensione nietzscheana nei confronti della contrapposizione e dello scontro, temi che riceveranno spazio nella Nascita della tragedia (dove si sottolinea il drammatico, ma proficuo contrasto tra il principio apollineo e quello dionisiaco) e nel resto della sua opera, caratterizzata dallo scontro e dalla rottura violenta con la tradizione filosofica fino a quel momento consolidata. L’altro elemento non trascurabile è il riferimento al mondo greco per capire il presente e l’eterno dell’umano, come se comprendere a fondo un fenomeno, un comportamento o un contesto significhi per il filosofo fare appello all’antichità ellenica che, prima del cristianesimo, ha gettato le basi per lo sviluppo della cultura occidentale.

Le attestazioni che ci giungono dall’antica Grecia sul tema della guerra sono molteplici, basti pensare a quella che da molti è considerata la prima parola della filosofia, il detto di Anassimandro, secondo cui un ciclo inevitabile determina l’ordine cosmico, che vede il necessario alternarsi di creazione e distruzione. Esistere significa compiere un’ingiustizia nei riguardi dell’infinito dal quale ciascun ente si separa, ma questa colpa viene espiata dagli esseri reciprocamente, poiché venire alla vita significa, altrettanto, lottare per rimanere aggrappati a essa a inevitabile discapito di tutti gli altri. Non si tratta di una prassi immorale che possa venire aggiustata dal diffondersi di atteggiamenti più rispettosi verso il prossimo, bensì di un principio ontologico, che, in quanto tale, non è né buono né cattivo, semplicemente ineluttabile. Viviamo sempre a costo di chi e di ciò che non siamo, resistendo al nulla al quale saremmo destinati se abbandonassimo la lotta per l’esistenza.

Anche Empedocle, un secolo dopo, riprende l’idea della guerra come principio cosmico, affiancando e rendendo complementari le due forze di odio e amore. La seconda, che tende a unire gli elementi generando armonia e vita, ciclicamente e infinitamente si alterna alla discordia, che separa, divide e causa conflitto. Benché questi due principi si susseguano e oppongano, non c’è una prevalenza dell’uno sull’altro: tanto l’amore è generativo di vita, quanto la discordia è il propulsore inestinguibile per la trasformazione e il cambiamento, senza cui nessuna forma di vita potrebbe altrimenti darsi. Nuovamente, il tema non viene declinato in senso morale, ma nemmeno politico: le due sfere che oggi monopolizzano il discorso sulla guerra sono considerate inessenziali, derivate, rispetto al piano di realtà fondamentale che anche Empedocle si propone di indagare.

La carrellata di autori antichi sul tema della guerra potrebbe estendersi ben oltre lo spazio di queste sintetiche note, ma sicuramente non si può evitare un riferimento a Eraclito che, in linea con quanto fin qui riportato, ha definito il pòlemos «padre di tutte le cose, di tutte re; alcuni fa dèi, altri esseri umani, alcuni schiavi, altri liberi» (Heracl. B53, tr. nostra). Affidare la paternità di tutte le cose alla guerra ha un’importante implicazione filosofica: con Eraclito, infatti, questo principio, ancora una volta essenziale e concernente la natura profonda degli enti, non si applica più alla relazione di due o più enti tra loro, cioè «non esprime il modo in cui soggetti autonomi supposti preesistenti alla relazione entrano in rapporto gli uni con gli altri – e perciò potrebbero anche entrarvi in forme differenti da quelle del pòlemos –, ma è piuttosto ciò che originariamente pone i soggetti, e li pone specificamente come soggetti polemicamente in relazione»1. In questo contesto, pòlemos è un termine polisemico e copre un raggio d’azione che va dalla guerra aperta a un più blando conflitto di opinioni. L’aspetto più significativo riguarda il fatto che queste forme di opposizione non si danno verso un nemico esterno, bensì si rivolgono verso l’interiorità degli enti e, per di più, li costituiscono in quanto tali. La metamorfosi, che Empedocle aveva descritto come esito cosmico dell’azione della discordia, viene qui declinata come principio ontogenetico, capace cioè di spiegare la creazione e la sussistenza di “tutte le cose”.

Pur nella diversità delle accezioni considerate, possiamo sostenere che la guerra per i Greci si colloca agli antipodi, da un lato, dell’idea di annientamento fine a sé stesso: essa non agisce avendo come fine la nullificazione dell’ente, bensì in favore del suo essere oppure della sua trasformazione. Dall’altro lato, la guerra sta al polo opposto anche rispetto alla nozione di tolleranza, poiché, diversamente da quest’ultima, essa non procede per toglimento delle differenze fino a raggiungere il minimo comun denominatore di una pacifica convivenza. Al contrario, dentro e fuori di noi la discordia valorizza le differenze come motore di cambiamento, individuale o universale che sia.

Più che ai Greci, l’attuale concezione della guerra sembra debitrice allo spirito illuminista che, da Voltaire a Kant, ha optato per una declinazione della questione in chiave sociale e politica (e, di conseguenza, anche etica): la guerra è la situazione di conflitto nella quale entrano i popoli, le singole persone all’interno di una comunità o i gruppi che si coalizzano per una causa a svantaggio della voce opposta. Viene così posto l’accento sul rischio di annichilimento, che porta all’esigenza di coalizzarsi, far fronte comune per assicurare a entrambe le parti di continuare a esistere. La famosa sentenza, erroneamente attribuita a Voltaire da una sua biografa, ma che è fedele allo spirito che ha animato la riflessione razionalistica di fine Settecento, nasce dal bisogno di riposare sulla certezza, comunque vadano le cose, di sopravvivere al conflitto: «Non sono d’accordo con te, ma lotterò affinché tu possa esprimere la tua opinione»2. La situazione nella quale si sa di poter dire qualsiasi cosa senza essere esposti al pericolo di vedere sconfitti il proprio sé o le proprie idee configura uno scenario opposto a quello greco, in cui la contraddizione veniva espressa a favore di una metamorfosi, cioè di un profondo cambiamento dello stato delle cose. Nel mondo moderno, invece, il principio di tolleranza che, letteralmente, si propone di tollere, rimuovere il rischio insito del contrasto, inaugura l’epoca del dominio dell’identico: al di là della manifestazione superficiale delle differenze, è uguale dire una cosa o un’altra perché le conseguenze non saranno comunque significative: niente può davvero cambiare (o anche solo accadere) se si abbraccia una posizione diversa da quella di altri.

Oggi abitiamo una società che è stata definita “palliativa” o “della positività”3, nella quale il dolore (correlato costante della contraddizione) fa paura e ci si ingegna a vari livelli per espungerlo. Sul piano relazionale si rivendica sempre più spesso il diritto a recidere di punto in bianco i contatti (ghosting) o comunque a chiudersi nella bolla apparentemente protettiva dell’individualismo, rendendo sempre più flebili quei legami, sentimentali o affettivi, che, intrecciati con l’altro da sé, implicano inevitabilmente un dialogo talvolta conflittuale. Sul piano della crescita individuale, invece, alcuni genitori cosiddetti «elicottero» ovvero «coccodrillo»4 fanno il possibile affinché i loro figli non si trovino nella condizione di dover crescere soffrendo (tutto all’opposto del pathein mathos di greca memoria), per cui evitano loro quelle situazioni che potrebbero esporli a difficoltà o insuccessi, privandoli così della gratificazione che si ottiene nel momento del superamento degli ostacoli. A livello farmacologico è sempre più diffuso l’uso di medicinali analgesici o psicotropi, per attenuare le varie forme di sofferenza fisica o emotiva. Il messaggio implicito è che il dolore rappresenta un’esperienza da evitare a tutti i costi, piuttosto che una componente naturale della vita umana. Questa tendenza porta a una medicalizzazione crescente delle emozioni negative, rendendo alcuni normali stati d’animo condizioni patologiche da curare, anziché accettare e comprendere. È ugualmente preoccupante la tendenza di un crescente numero di studenti universitari dei college americani a utilizzare stimolanti come Adderall e Ritalin (spesso prescritti per il trattamento del deficit attentivo), allo scopo di migliorare le prestazioni accademiche. Diverse ricerche mostrano che questi farmaci non potenziano realmente i risultati degli studenti senza diagnosi di ADHD; al contrario, il loro abuso porta a conseguenze negative, come il peggioramento della salute mentale, ma anche problemi cognitivi a lungo termine5.

Tentiamo in vari modi di trasformare la tragedia in commedia; d’altronde, veniamo costantemente esposti a rappresentazioni felici di vite riuscite attraverso i social media e proviamo a fare altrettanto con la nostra, senza renderci conto che in questo modo finiamo per mettere in scena una farsa. È grottesco quanto ingenuo pensare che gli elementi di negatività – dal trauma al dolore, dalla contraddizione allo scontro aperto – che caratterizzano ogni vissuto possano estinguersi, o venire rimossi, senza che ci vengano restituiti, con tanto di interessi.

L’epoca del dominio dell’identico dischiude così ben presto le porte all’“inferno dell’uguale”, dove la mancata adeguazione agli standard di felicità e produttività genera innanzitutto spossatezza, esaurimento (burn out) e autolesionismo. Il negativo, che rimane latente, non si dà per vinto e adotta vie più subdole per esprimersi, finendo per esercitarsi contro il soggetto, in funzione meramente autodistruttiva. Non si coglie la sfida del dilemma, il pungolo della contraddizione, ma si sventola bandiera bianca per non assumersi l’impegno, gravoso, di un confronto con l’alterità che ci abita. Il risultato è un kappaò preventivo, che viene a coincidere con la sfinitezza dell’individuo, volontariamente ritiratosi nella speranza di trovare così una efficace via di fuga dalla sofferenza.

Sul piano collettivo le cose sembrano altrettanto poco rassicuranti. «In che modo», si chiede il filosofo argentino Michel Benasayag, «è stato possibile che la barbarie dilagasse a tal punto, nonostante l’odierna diffusione dell’ideologia pacifista? È necessario rovesciare i termini del problema: l’inflazione delle guerre e della barbarie è piuttosto il frutto dell’ideologia pacifista. La pace, concepita e perseguita come fine della guerra, trasforma la guerra in strumento della pace, e nel nome della pace rende possibile accettare l’inflazione illimitata della violenza»6. Quando la pace è vista semplicemente come il fine della guerra, si corre il rischio di legittimare la guerra come mezzo necessario per raggiungere quel fine: si pensi all’ossimoro di «guerra preventiva» o al paradosso dell’esportazione della democrazia a ogni costo che gli americani hanno utilizzato come principi per fronteggiare chi abbia minacciato «la leadership a stelle e strisce»7. In questo senso, la guerra diventa uno strumento plausibile, perché finalizzato all’ottenimento della pace. Il ragionamento, paradossale e provocatorio, ci aiuta a comprendere che nel mondo moderno la guerra, anziché essere eliminata, viene perpetuata e amplificata, in quanto giustificata da un obiettivo reputato superiore. La violenza diventa endemica perché sostenuta dall’ideologia che si propone di sconfiggerla. Quello della pace a ogni costo è un obiettivo ambizioso, che ha però come corollario la guerra totale di annientamento dell’avversario. Farsi portavoce di un ordine maggiore significa avallare la barbarie che si attraversa per arrivare a istituirlo.

È quindi il caso di riconsiderare in modo radicale la questione: non si tratta di promuovere un’ideologia guerresca fine e a sé stessa o un’immagine muscolare di sé e del proprio gruppo sociale, per divenire capaci di affrontare valorosamente ogni competizione. Questo modello è insidioso e caricaturale quanto le gesta cinematograficamente fuori scala nei film d’azione hollywoodiani. Andrebbe invece promossa una rieducazione al conflitto e alla contraddizione, che permetta di considerare la guerra come una componente essenziale dell’umano in particolare e dell’ente in generale: combattiamo tutti una lotta contro noi stessi, ogni volta che non ci arrendiamo al conformismo, alle comodità, ai pregiudizi, all’indifferenza… Questa lotta va rispettata, in noi e negli altri, e supportata come veicolo di crescita di sé e trasformazione del mondo, a favore di una metamorfosi che non deve spaventare, ma alla quale dobbiamo tornare a guardare con la meraviglia che la filosofia ci ha insegnato a coltivare.

 

NOTE

  1. U. Curi, Pòlemos. Filosofia come guerra, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 157.
  2. E.B. Hall, The Friends of Voltaire, Smith, Elder & Co, London 1906, tr. nostra.
  3. B.-C. Han, Palliativegesellschaft Schmerz heute, Berlin 2020, tr. it. di S. Aglan-Buttazzi, La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Einaudi, Torino 2022.
  4. Cfr. M. Recalcati, Le mani della madre, Feltrinelli, Milano 2015.
  5. Cfr. A.N. Edinoff, C.A. Nix, S.E. McNeil et. al., Prescription Stimulants in College and Medical Students: A Narrative Review of Misuse, Cognitive Impact, and Adverse Effects, «Psychiatry International», 3/18 (2022), pp. 221-235; D.D. Abelman, Mitigating risks of students use of study drugs through understanding motivations for use and applying harm reduction theory: a literature review, «Harm Reduction Journal» 14, 68 (2017).
  6. M. Benasayag, A. Del Rey, Éloge du conflit, Paris 2007, tr. it. di F. Leoni, Elogio del conflitto, Feltrinelli, Milano 2018, p. 52.
  7. U. Curi, Giustizia duratura, in Il farmaco della democrazia. Alle radici della politica, Christian Marinotti editore, Milano 2003, p. 239.
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Silvia Capodivacca

ha studiato Filosofia e Storia tra Padova, Bologna e New York. Attualmente svolge attività di ricerca all’università di Udine e collabora con la casa editrice Loescher come autrice e formatrice didattica. Maggiori informazioni e aggiornamenti sulla sua attività sul sito personale, www.silviacapodivacca.com.

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