Gobetti e la scuola

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In un anno in cui la scuola è stata l’ambito che più di tutti ha necessitato di un ripensamento, con interventi più o meno coraggiosi da parte dell’amministrazione pubblica, giova particolarmente rivedere come intendeva Piero Gobetti il sistema scolastico, soprattutto per quanto riguarda due degli aspetti ancora oggi più problematici, ovvero l’autonomia scolastica e il rapporto tra “scuola di Stato” (pubblica) e “scuola particolare” (privata).

 

 

In un anno in cui la scuola è stata l’ambito che più di tutti ha necessitato di un ripensamento, con interventi più o meno coraggiosi da parte dell’amministrazione pubblica, giova particolarmente rivedere come intendeva Piero Gobetti il sistema scolastico, soprattutto per quanto riguarda due degli aspetti ancora oggi più problematici, ovvero l’autonomia scolastica e il rapporto tra “scuola di Stato” (pubblica) e “scuola particolare” (privata)[1].

Il contesto in cui si trova Gobetti, quello di un’Italia relativamente giovane in quanto nazione, presenta uno Stato ancora immaturo, con i partiti e i corpi intermedi acerbi, se non incapaci di elaborare una idea chiara e ideologica in tutti gli ambiti dell’amministrazione e a maggior ragione nell’ambito della scuola, fino ad allora quasi del tutto appannaggio della Chiesa.

La prima contraddizione da risolvere sta proprio qui. Il neonato Stato liberale e democratico deve fare i conti con un retaggio medievale che prevedeva il sistema scolastico in mani clericali, e proprio i liberali, di cui Gobetti si sente di far parte, attestandosi il compito di rendere l’Italia uno Stato moderno, prendono atto della necessità in un primo momento di dover attuare una transizione con i cattolici, non tanto “anti” quanto “con” coloro i quali avevano finora attuato una sorta di egemonia sull’istruzione con radici profondissime.

Gobetti, sempre estremamente attento a tenere distinta speculazione filosofica e realtà, prende atto che lo sforzo che deve fare uno Stato per garantire un’istruzione di base a tutto il popolo non può prescindere da chi ha gestito l’istruzione finora, ma dall’altro lato insiste sulla necessità che lo stesso Stato debba costringersi a sovrapporsi alla scuola privata con una scuola pubblica, per evitare di lasciare indietro quei territori più arretrati dove il sistema scolastico era meno capillare e in certi casi pure assente, per permettere a tutti di uscire dall’analfabetismo e permettere a tutti di ricevere un’istruzione così da diminuire il più possibile le disparità.

Tuttavia, Gobetti è fermamente convinto della necessità vitale per lo Stato democratico di una scuola libera e non solo statale, come invece qualche «statolatra», come li chiama lui, desidererebbe. Solo uno Stato teocratico può rivendicare il diritto di un monopolio scolastico; lo Stato moderno democratico e liberale, invece, deve permettere ai propri cittadini di creare una scuola aderente alle proprie esigenze, senza tuttavia scadere in un anarchismo scolastico che svaluterebbe l’istruzione se abbandonata senza un controllo.

Se da una parte il senso di “libertà della scuola” è un riconoscimento del valore educativo contenuto nelle libere iniziative, dall’altra il ruolo dello Stato è quello di vigilare su questi tentativi per garantirne la qualità. Citando Giambattista Vasco, economista piemontese che scrive pochi anni prima della Rivoluzione Francese un trattato (Delle università delle arti e mestieri[2]) che tocca anche il problema dell’istruzione primaria, Gobetti afferma che la concorrenza dei maestri privati con i professori della scuola pubblica è utilissima per formare una classe professionale di maestri e per evitare che i primi a non siano tentati di trascurare il loro dovere.

Gobetti si accorge di una la tendenza, che giudica positivamente: diversi insegnanti compiono una prima gavetta nella scuola privata per poi passare alla scuola pubblica; da parte nostra non possiamo non notare di come questo sia un fenomeno che si riscontra anche nell’Italia di oggi, soprattutto in quelle Regioni in cui le scuole paritarie sono maggiormente diffuse, come Lombardia e Veneto[3]. I motivi sono da ricercare soprattutto nella maggiore facilità di accesso all’insegnamento, soprattutto quando si tratta di supplenze brevi o annuali: nella scuola pubblica ci sono graduatorie necessarie ma spesso farraginose e i metodi di individuazione delle supplenze cambiano quasi di anno in anno, creando insicurezza e rendendo nei fatti impossibile sapere se, quando, dove e per quanto tempo si prenderà una supplenza. Inoltre, le graduatorie sono aperte mediamente ogni tre anni, non consentendo di essere inseriti subito nei database delle scuole. Soprattutto per chi si appresta, immediatamente dopo aver conseguito la laurea, a entrare nel mondo del lavoro, una possibilità concreta è quella di candidarsi per un posto nella scuola privata che, eliminato il problema della burocrazia della pubblica amministrazione, ragionando come una vera e propria azienda, può assumere indistintamente senza sottostare a graduatorie provinciali o d’istituto.

Se si vuole avere una scuola liberale, e dunque completamente autonoma e regolata dall’intraprendenza dei singoli, serve avere uno Stato maturo. Stato maturo che nel Dopoguerra, quando scrive Gobetti, è lungi dall’arrivare, e pertanto la soluzione non può essere nell’immediato una scuola liberale, che deve essere temporaneamente sacrificata in favore di una scuola nazionale e unitaria con un’impronta piccolo-borghese che traduce lo Zeitgeist di allora.
Chiedersi se oggi questa maturità dello Stato sia stata o meno raggiunta rimane un quesito interessante da porsi, dato che da qui parte la possibilità o meno di creare una vera scuola libera e liberale.

Prima che arrivi il fascismo a scompaginare la storia, Gobetti individua tre progetti sui quali agire per arrivare alla scuola liberale[4].

Primo, una sostanziale chiamata alle armi di tutte le forze nazionali per combattere l’analfabetismo. Nel 1911, durante il quarto governo Giolitti, è stata approvata la legge Credaro (n. 487) che prevede la trasformazione della scuola elementare: questa passa da essere comunale a essere sotto il controllo dello Stato, che ha l’onere di pagare gli stipendi agli insegnanti. Ciò dovrebbe comportare una maggiore capillarità del sistema scolastico, che spesso si trova a fare i conti con i magri bilanci comunali che, soprattutto nelle realtà rurali e più disagiate, non sono in grado di garantire l’apertura di una scuola.
Inoltre, sono istituiti i patronati scolastici, istituzione già prevista, ma solo come raccomandazione, nel Regio Decreto n. 5292 del 1888 (su ispirazione di Aristide Gabelli), raccomandazione ribadita nella Circolare Ministeriale n. 30 del 1897 firmata dal ministro Emanuele Gianturco, non a caso aviglianese di nascita e napoletano di adozione, ben consapevole dello stato della scuola nel Mezzogiorno. Questi patronati scolastici, che hanno anche nel 1911 difficoltà di attuazione, come tutta la riforma Credaro, a causa dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, hanno il compito di fornire vestiario, scarpe, libri e materiale scolastico ai bisognosi per consentire l’adempimento dell’obbligo scolastico. Se l’analfabetismo in Italia appena dopo l’unità[5] si attesta al 75%[6] (con picchi superiori al 90% al Sud, in Sardegna, Sicilia, Calabria), grazie anche alla legge Credaro si arriva al 27,3% nel secondo lustro degli anni Dieci, ma con ancora un importante divario tra Nord e Sud.
Giusto per completare il quadro, con il censimento generale del 1951[7], chi non sa leggere e scrivere è il 2% in Lombardia, il 3% in Piemonte, il 7% in Veneto, mentre è il 23% in Campania, il 24% in Sicilia, il 32% in Calabria[8].
Risolvere il problema dell’analfabetismo nel Mezzogiorno significa, per Gobetti, risolvere l’altro grande problema etico e politico, endemico in questa parte d’Italia: l’emigrazione.

Secondo, per la scuola elementare serve formazione per i maestri, anzi serve la formazione di maestri, che scarseggiano nelle zone ancora una volta del Sud e nelle zone rurali. Nel primo Novecento, la scuola media rappresenta la prosecuzione oltre la scuola dell’obbligo per formare professioni in cui serve una maggiore scolarizzazione, come appunto il mestiere di maestro. Per questo, secondo Gobetti, per risolvere la carenza e la formazione degli insegnanti, è necessario istituire delle scuole medie modello, a cui si doveva accedere per concorso si poteva garantire sia la formazione, sia la motivazione per creare la classe degli insegnanti. Inoltre, preso atto che diplomi e lauree erano diventati i nuovi titoli nobiliari che la borghesia sostituiva con quelli veri dell’Ancien Régime, Gobetti auspicava la loro abolizione.

Terzo, la presa di coscienza che se si vuole riformare, anzi rivoluzionare la scuola, serve partire dall’economia. Per convincere la borghesia (che comandava) della necessità della riforma, basta andare a vedere dove si può risparmiare, in una spending review ante litteram che andava a colpire i reali sprechi della scuola e di chi ci lavorava, agli occhi dell’intellettuale torinese una vera e propria casta. Dunque aumentare per chi può le tasse scolastiche (creando bandi e concorsi per i posti gratuiti) ed eliminare il parassitismo professorale riducendo gli stipendi.

Gobetti non farà in tempo a vedere l’evoluzione della scuola italiana perché stroncato da una bronchite pochi giorni dopo essere arrivato a Parigi, con un fisico già debilitato dai pestaggi subiti dai fascisti.

Sicuramente non sperava che la scuola sarebbe stata rivoluzionata dal nascente fascismo: «Il fascismo non farà nulla di questo perché ha bisogno di gregari fedeli o non può ottenerli se non in cambio di un impiego governativo; né può lasciar libertà alla cultura per timore delle conseguenze e perché in ogni tempo l’oscurantismo burocratico e la morale di Stato furono le migliori armi per l’assolutismo»[9].


Note

[1] Piero Gobetti, Il problema della scuola, in Polemica scolastica, «La Rivoluzione Liberale», anno II, numero 9 (10 aprile 1923).

[2] Giambattista Vasco, Delle università delle arti e mestieri, dalla stamperia di Luigi Veladini, Milano 1793.

[3] Focus “Principali dati della scuola – Avvio Anno Scolastico 2018/2019” a cura del Miur.

[4] Gobetti, Ibidem.

[5] Sandra Chistolini, Comparazione e sperimentazione in pedagogia, Franco Angeli, Milano 2001.

[6] Sveva Avveduto (a cura di), Italia 150 anni: popolazione, welfare, scienza e società, Gangemi, Roma 2011.

[7] Roberto Sani, Maestri e istruzione popolare in Italia tra Otto e Novecento, Vita e Pensiero, Milano .2003

[8] Saverio Santamaita, Storia della scuola, Bruno Mondadori, Milano 2010.

[9] Piero Gobetti, La rivoluzione liberale, Einaudi, Torino 1964.

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Giovanni Pigatto

Insegnante di Lettere al liceo, libero professionista nell’ambito della consulenza politica e della comunicazione.
A tempo perso scrive di quello che lo incuriosisce, soprattutto di Africa, ma non solo. È autore del podcast “Ab origine” per «Africa Rivista».

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