Di recente, al termine di un incontro per discutere di orientamento, un insegnante che già aveva partecipato al corso per tutor dell’orientamento, e che aveva ascoltato attentamente almeno una decina di interventi di altrettante esperte ed esperti del settore, mi si è avvicinato per chiedermi gentilmente: «sì, tutto chiaro, ma alla fine io cosa dovrei portare a scuola di tutto quello che è stato detto? Cosa devo dire ai miei colleghi?».
Lì per lì, con lo zaino in bilico sulla spalla, la borsa penzoloni e la giacca in mano, pronti a uscire all’aria aperta, io e il collega ci siamo istintivamente sintonizzati su un solo concetto, uno solo, punto di partenza intorno a cui costruire quel che dovrà venire. Ci siamo scambiati uno sguardo e abbiamo detto entrambi: “consapevolezza!”. L’orientamento è consapevolezza: rendere consapevole ogni studente del processo di cambiamento vissuto (affinché non sia subìto), delle potenzialità proprie e altrui, delle risorse messe a disposizioni dalla scuola, dei vincoli esistenti e delle azioni necessarie e possibili. Tutto ciò che non contribuisce ad aumentare la consapevolezza non merita il nome di orientamento. E allora: via il consiglio orientativo! (basterebbe chiamarlo più semplicemente consiglio), via il marketing scolastico e universitario!, via l’orientamento informativo e il riorientamento! (parola oscena, da sostituire per decenza con ricollocamento) e con loro tutto ciò che non è intenzionalmente volto al trasferimento di potere dalla scuola (dalla società) alla persona.
Sul momento mi sono sentito rinfrancato dal confronto col collega, ma presto è sopraggiunto lo sconforto – possibile che a venticinque anni di distanza dalla direttiva 487 del 1997, che di fatto rendeva obbligatorio l’orientamento in ogni ordine e grado di scuola, siamo ancora al punto di partenza? – e mi sono deciso a scrivere queste righe, che mi auguro chiarificatrici.
L’orientamento come diritto della persona
C’è stato un tempo in cui l’orientamento era confuso con la selezione, il collocamento, il matching, ovvero con l’esigenza di mettere le persone giuste al posto giusto. Anche nella scuola degli anni Sessanta del secolo scorso, quando si è cominciato a parlare della “funzione orientativa” della scuola media, si pensava che l’orientamento consistesse nel dare un consiglio orientativo, ovvero indirizzare le persone verso un determinato ordine di scuola o ambito di lavoro. Dagli anni Novanta almeno, l’orientamento è inteso invece come un diritto della persona a ricevere dei servizi educativi e di istruzione in grado di formare e di potenziare le capacità personali, di favorire la conoscenza di sé, dell’ambiente, dei mutamenti culturali e socio-economici e anche delle offerte formative, affinché gli e le studenti «possano essere protagonisti di un personale progetto di vita, e partecipare allo studio e alla vita familiare e sociale in modo attivo, paritario e responsabile» (Direttiva 487/1997).
Il concetto è ribadito nelle linee guida del 2009 (C.M. 43/2009), dove si legge tra l’altro che
L’orientamento mira a mettere in grado i cittadini di gestire e pianificare il proprio apprendimento e le esperienze di lavoro in coerenza con i propri obiettivi di vita, in collegamento con le proprie competenze e interessi, contribuendo al personale soddisfacimento.
In quelle del 2014 si ribadisce che alla scuola «è riconosciuto un ruolo centrale nei processi di orientamento (da 3 a 19 anni) e ad essa spetta il compito di realizzare, autonomamente e/o in rete con gli altri Soggetti pubblici e privati, attività di orientamento, finalizzate alla costruzione e al potenziamenti di specifiche competenze orientative».
È alla luce di questa storia e del contesto europeo, oltre che della letteratura scientifica, che occorre leggere le più recenti Linee guida per l’orientamento (D.M. 328/2022): esse fanno dei passi indietro rispetto al passato (per esempio parlando impropriamente di «inclinazione» e di «merito» o introducendo il termine «ri-orientamento», che non può essere assolutamente interpretato come re-indirizzamento, a meno di non voler negare le stesse premesse del documento), ma dobbiamo anche riconoscere che, dopo venticinque anni di “indicazioni” e “suggerimenti” che hanno coinvolto una piccola percentuale di addetti ai lavori, ci costringono a porci seriamente il problema di come soddisfare il diritto all’orientamento di ogni studente.
L’orientamento è formativo (o non è)
Quindi, in sintesi, tutte le attività che chiamiamo orientamento o definiamo orientative, ma che di fatto non sono direttamente riconducibili a questo diritto, devono essere interrotte o denominate in altro modo. A titolo di esempio: gli open day, le fiere, le visite in azienda o all’università non sono di per sé attività di orientamento, come non lo sono i test online che portano a incrociare le proprie attitudini, interessi eccetera con dei profili professionali o con dei percorsi di istruzione.
L’orientamento è un’attività formativa che si realizza attraverso specifiche modalità didattiche e con servizi più specialistici che non devono essere concentrati nei momenti di passaggio, e che devono essere finalizzati ad aumentare la consapevolezza di sé della persona.
Nelle pur imperfette Linee guida del 2022 si legge che «la letteratura scientifica sull’orientamento scolastico è concorde nel dichiarare conclusa la stagione che ha visto interventi affidati a iniziative episodiche» e che serve altresì creare un sistema strutturato e coordinato di interventi per accompagnare le persone a «elaborare in modo critico e proattivo un loro progetto di vita, anche professionale». È dunque evidente che il consiglio orientativo, la selezione in ingresso con i test e il marketing scolastico e universitario sono il contrario dell’orientamento, la sua negazione.
Il fatto che continuiamo a chiamare così taluni settori o talaltra attività non ci impedisce – in attesa di cambiare i nomi alle cose – di agire in modo da garantire un servizio pubblico all’altezza delle aspettative, dei bisogni e dei diritti delle e degli studenti.
Trenta ore di cosa?
Ben armate e armati di queste idee, proviamo allora ad affrontare il problema dei problemi, quello che costringe molte persone a interessarsi di un argomento che altrimenti avrebbero continuato a ignorare per i prossimi ulteriori venticinque anni: come si realizzano le 30 ore di «moduli curricolari di orientamento nella scuola secondaria» previsti dalla norma?
Cominciamo dal mettere in evidenza che si tratta di attività di gruppo, da progettare per la classe o anche – come già viene fatto in alcune scuole – per l’intera scuola, che può sospendere per un periodo le attività ordinarie e riorganizzare la didattica in modo da creare gruppi misti per svolgere compiti autentici, attività laboratoriali e simili.
A meno che non si voglia dare una risposta meramente formale e sostanzialmente burocratica al diritto all’orientamento, sconsiglio di limitarsi ad elencare le attività già svolte da singoli docenti e dal consiglio di classe fino ad arrivare a un monte di 30 ore annuali, in modo da poter finalmente dire: «Visto? Già lo facevamo!» (abbiamo già assistito a questo fenomeno con l’educazione civica e non ha funzionato, ma quella è un’altra storia, assai più triste e imbarazzante). I moduli di orientamento formativo vanno progettati a ritroso, a partire dai risultati di apprendimento attesi (un buon riferimento possono essere le otto competenze chiave di cittadinanza che già certifichiamo, in modo spesso totalmente aleatorio e illegittimo, alla fine dell’obbligo di istruzione: imparare a imparare, progettare; comunicare; collaborare e partecipare; agire in modo autonomo e responsabile; risolvere problemi; individuare collegamenti e relazioni; acquisire e interpretare informazioni), ponendosi sempre nella prospettiva di trasferire potere agli e alle studenti, mettendole in grado di agire per progettare o per agire in modo autonomo e responsabile, e dando loro gli strumenti per capire se stanno effettivamente progredendo il tal senso, e in che modo.
Le Linee guida sono chiare nell’assegnare alle scuole autonome il compito di organizzare le 30 ore, che «non devono essere necessariamente ripartite in ore settimanali prestabilite», ma che «vanno considerate come ore da articolare al fine di realizzare attività per gruppi proporzionati nel numero di studenti, distribuite nel corso dell’anno, secondo un calendario progettato e condiviso tra studenti e docenti coinvolti nel complessivo quadro organizzativo di scuola». A queste ore possono aggiungersi anche «tutti quei laboratori che nascono dall’incontro tra studenti di un ciclo inferiore e superiore per esperienze di peer tutoring, tra docenti del ciclo superiore e studenti del ciclo inferiore, per sperimentare attività di vario tipo, riconducibili alla didattica orientativa e laboratoriale, comprese le iniziative di orientamento nella transizione tra istruzione e formazione secondaria e terziaria e lavoro, laboratori di prodotto e di processo, presentazione di dati sul mercato del lavoro». In questo passo sembra che alcune attività che io ho buttato fuori dalla finestra rientrino dalla porta principale. Personalmente consiglio di partire dal progetto complessivo dell’istituto scolastico (30 ore per studente/classe per i tre anni nella scuola secondaria di primo grado, 30 ore per cinque anni nella scuola secondaria di secondo grado, da articolare anno per anno secondo per perseguire la finalità della consapevolezza, ricordate?), mettendo da parte le attività già svolte, che possono anche rientrare in gioco qualora abbiano un senso nel progetto, ovvero per il conseguimento dei risultati che avete messo in fondo ai percorsi.
L’orientamento che cambia la didattica
Si legge ancora nelle Linee guida:
L’attività didattica in ottica orientativa è organizzata a partire dalle esperienze degli studenti, con il superamento della sola dimensione trasmissiva delle conoscenze e con la valorizzazione della didattica laboratoriale, di tempi e spazi flessibili, e delle opportunità offerte dall’esercizio dell’autonomia.
L’orientamento inizia, sin dalla scuola dell’infanzia e primaria, quale sostegno alla fiducia, all’autostima, all’impegno, alle motivazioni, al riconoscimento dei talenti e delle attitudini, favorendo anche il superamento delle difficoltà presenti nel processo di apprendimento.
Premesso che la didattica si definisce orientativa quando riesce a perseguire intenzionalmente i risultati di apprendimento previsti per la propria materia di insegnamento e anche le competenze orientative o di autorientamento, è opportuno ribadire che tutta la didattica curricolare potrebbe, e a mio avviso dovrebbe, essere orientativa, ricorrendo a modelli didattici centrati sul soggetto e sul processo di apprendimento. La programmazione per unità di apprendimento, l’insegnamento laboratoriale e la valutazione educativa o formativa dovrebbero sostituire le prassi dominanti, focalizzate sugli esiti e sugli oggetti culturali, che anche quando efficaci – ovvero in casi minoritari – generano stress, competizione e ubbidienza.
Prendere sul serio l’orientamento formativo significa anche avviare un processo di cambiamento capace di coinvolgere l’intera istituzione scolastica e non singole e singoli docenti – sempre le stesse, sempre gli stessi – che già stanno procedendo in quella direzione.
L’orientamento e la valutazione
Nelle Linee guida per la certificazione delle competenze del primo ciclo (D.M. 742/2017), in cui si attribuisce alla stesura del modello di certificazione per ogni studente da parte delle scuole una finalità orientativa, troviamo esplicitato il nesso inscindibile tra didattica, valutazione e orientamento, che trova la sua massima realizzazione nella valutazione formativa:
La valutazione diventa formativa quando si concentra sul processo e raccoglie un ventaglio di informazioni che, offerte all’alunno, contribuiscono a sviluppare in lui un’azione di auto orientamento e di autovalutazione. Orientare significa guidare l’alunno ad esplorare sé stesso, a conoscersi nella sua interezza, a riconoscere le proprie capacità ed i propri limiti, a conquistare la propria identità, a migliorarsi continuamente.
Lungi dall’essere rappresentata come un mero adempimento burocratico, la certificazione delle competenze è presentata correttamente come un dispositivo di orientamento, a condizione che ne sia preservato il carattere processuale, che sia correlata a una didattica attiva, centrata sulla risoluzione di problemi e che sia accompagnata da un continuo alternarsi di riscontri valutativi forniti dal docente e di autovalutazione e riflessione sugli apprendimenti da parte di ogni studente, la cui «valutazione attraverso la narrazione» assume «una funzione riflessiva e metacognitiva nel senso che guida il soggetto ad assumere la consapevolezza di come avviene l’apprendimento».
Strumenti per l’autoformazione, l’aggiornamento e per la progettazione
L’orientamento è un campo di ricerca a cui contribuiscono studiose e studiosi di diversi settori disciplinari: pedagogia sperimentale, psicologia dell’orientamento, didattica generale, sociologia del lavoro e delle organizzazioni eccetera. Per imparare il mestiere della e del consulente di orientamento esistono alcuni percorsi postuniversitari (master, specializzazioni, corsi di formazione professionale) che possono rappresentare un buon riferimento per capire il funzionamento del ruolo professionale e individuare le competenze professionali necessarie. Per l’insegnante, tuttavia, è importante soprattutto saper interagire con le esperte e gli esperti che possono rappresentare una risorsa per le scuole, senza che sia necessario sviluppare un’altra professionalità.
È invece importante conoscere la normativa e lo stato dell’arte della ricerca sull’orientamento formativo, in modo da poter affrontare con consapevolezza la progettazione e la gestione delle attività. A questo scopo consiglio la lettura del recentissimo manuale Orientarsi nell’orientamento, a cura di Giulia Guglielmini e Federico Batini, realizzato dalla Fondazione per la Scuola e appena pubblicato dal Mulino, e che presto sarà disponibile sulla piattaforma Darwinbooks. Si tratta al momento della rassegna più completa e aggiornata, espressamente pensata per la scuola.
Di Batini consiglio inoltre il volume Costruire futuro a scuola. Che cos’è, come e perché fare orientamento nel sistema di istruzione, il Quaderno della Ricerca 24, consultabile online sul sito della rivista di Loescher Editore. Uscito nel 2015, il libro propone un inquadramento puntuale dell’orientamento formativo e della metodologia dell’orientamento narrativo, ideata dallo stesso Batini (su questi temi si possono leggere i volumi realizzati in occasione dei convegni biennali Le storie siamo noi, scaricabili gratuitamente dal sito di Pensa Multimedia).
Altrettanto utile può essere la Guida all’orientamento per lo studente per allenare le competenze di auto esplorazione e autovalutazione da Annarita Dibenedetto, messa a disposizione sempre da Loescher Editore. Gli esercizi proposti possono essere utilmente adattati alle proprie esigenze e provati direttamente nelle classi.
Un piccolo elenco che spero di poter allungare presto, a patto che, come nei casi citati, si faccia sul serio.