L’archetipo dell’artigiano, nell’immaginario di molte generazioni di italiani, è ancora, almeno in parte, San Giuseppe: il santo patrono dei falegnami e degli artigiani, rappresentato spesso con gli attrezzi da lavoro.
Una figura che si presta a simboleggiare – al di là dei valori religiosi che gli sono attribuiti dal cristianesimo – due aspetti fondativi del lavoro artigianale: la manualità e l’autoimprenditorialità. Il falegname evocato dalla figura di San Giuseppe sembrerebbe, infatti, il titolare di un’impresa individuale che sa lavorare il legno.
Analogo a San Giuseppe è mastro Geppetto, personaggio letterario e padre-artefice di Pinocchio. Geppetto è il falegname per antonomasia, creatore di un burattino diventato nell’arco di appena un secolo e mezzo il protagonista di una delle fiabe moderne più importanti e diffuse di tutti i tempi, soppiantato solo dal Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry.
Protagonista del secondo lungometraggio Disney del 1940, di uno storico anime giapponese del 1972 e di una altrettanto mitica, struggente miniserie dello stesso anno, prodotta e mandata in onda dalla RAI e diretta da Luigi Comencini, e presente anche nei film d’animazione dedicati all’orco Shrek (il primo risale al 2001), Pinocchio è il segno tangibile – per quanto sia frutto della fantasia dello scrittore Carlo Lorenzini detto Collodi – dell’artigianato come forza creativa, capace addirittura di dare magicamente vita alla materia grezza.
Le generazioni di italiani che sono cresciuti davanti alla televisione degli anni Ottanta – gli anni della crescita esponenziale delle televisioni private – hanno avuto un’alta probabilità di imbattersi nelle avventure del personaggio di MacGyver, trasmesso ogni mercoledì sera in prima serata nel 1986 e inserito successivamente in programmazione quotidiana nelle fasce orarie pomeridiane, dal 1988 sino al 1992.
MacGyver, ex agente segreto dotato di grande ingegno e abilità manuale, è un eroe solitario impegnato a ogni episodio della serie nella soluzione di problemi causati da criminali, truffatori, ecc.
Si distingue dagli eroi di serie analoghe per il ripudio dell’uso delle armi e della violenza in generale, per la morigeratezza dei costumi e per la capacità di inventare e costruire – con il suo coltellino svizzero e altri attrezzi improvvisati – oggetti e strumenti utili a risolvere le situazioni difficili in modo creativo [capacità tanto radicata nell’immaginario collettivo da meritarsi, come per il collega Chuck Norris, un’esilarante parodia nei blog di facts: il sito originale e quello italiano].
Anche gli artigiani, come i medici, possono essere degli eroi protagonisti di storie di salvezza e di “meritocrazia”. Prendiamo Mark Browne, un giovane irlandese che dopo il suo apprendistato nel mobilificio del signor Wise riesce, grazie alle sue capacità di artigiano-imprenditore, a salvare l’azienda e diventarne proprietario.
La storia è narrata dallo scrittore irlandese Brendan ‘O Carroll nel libro I marmocchi di Agnes, pubblicato in lingua originale nel 1995 (The Chisellers), tradotto in italiano da Gaja Cenciarelli e pubblicato prima dall’editore Giano (2005) e poi da Neri Pozza (2008 e 2010). È il secondo volume di una vera e propria saga comica di successo che ha per protagonista Agnes Browne, la madre di Mark, una straordinaria donna del popolo dublinese, abitante del Jarro, il quartiere popolare della città, e proprietaria di un banco di frutta al mercato centrale.
La storia di Mark è esemplare del percorso di carriera di un self made man degli anni del boom economico. Dopo la scuola dell’obbligo Mark, primogenito di sette figli e orfano di padre, decide di andare a lavorare per dare un sostegno economico alla famiglia. Incontra per caso il signor Wise, proprietario di un mobilificio, il quale riconosce da subito il talento del ragazzo e lo avvia al mestiere di falegname all’interno della sua piccola fabbrica. Si legge a p. 21 dell’edizione italiana:
Da quando era entrato nella fabbrica di Wise, più di due anni e mezzo prima, Mark aveva lavorato sodo, applicandosi nella sua attività. Amava il suo mestiere. Ogni mattina, quando andava al lavoro, fischiettava e si dedicava anima e corpo a qualsiasi compito assegnatogli da Mr. Wise. Mentre lavorava sul legno ricurvo da cui si ricavavano gli schienali e le gambe delle sedie a forma di artiglio stretto su una sfera, il suo entusiasmo era quello di un artista dedito alla sua opera. In effetti, alcuni degli oggetti realizzati, benché con soli due anni e mezzo di esperienza alle spalle, avevano riempito Mr. Wise d’orgoglio per il suo giovane fenomeno.
Negli anni del miracolo economico e del boom dei consumi la fabbrica di Mr. Wise va in crisi perché i suoi mobili pregiati, realizzati in legno duro e pelle, vanno fuori mercato, sostituiti da prodotti più leggeri, di qualità e prezzo inferiori, realizzati in serie da fabbriche più grandi e moderne. È a questo punto della storia – nei capitoli 5 e 6 del libro – che l’intervento del giovane Mark diventa provvidenziale. La storia à narrata con ritmo avvincente e quindi difficile da sintetizzare. Il direttore generale e il contabile della Smyth & Blythe, il più vecchio cliente del mobilificio, sono a Dublino per comunicare la decisione di interrompere il rapporto con la Wise & Co. Il direttore della Wise & Co., Sean McHugh, decide di invitare anche Mark, in quanto giovane e aitante collaboratore, alla riunione d’affari decisiva per le sorti del mobilificio. Dopo la riunione, quando ormai la situazione sembra definita e la sua fabbrica destinata alla chiusura, Mark ha un’idea per salvare il mobilificio, chiede a Mr. McHugh ventiquattr’ore di tempo e si precipita da sua madre per ottenere un prestito di 50 sterline da destinare al suo folle progetto. Così, durante un giorno e una notte, Mark – grazie alla collaborazione di due aiutanti: lo stesso Mr. McHugh e la sarta Betty, sua futura fidanzata e moglie – riesce a procurarsi il legno e le stoffe necessarie e poi a disegnare, tagliare, montare e rifinire un set di divani e poltrone che rispondono alle caratteristiche richieste dalla Smyth & Blythe. Il lieto fine è ben costruito: Mark va a prelevare in albergo il direttore della Smyth & Blythe, che una volta arrivato alla Wise & Co. – dove tutti i dipendenti sono in trepidante attesa – si mette a analizzare con cura i nuovi prodotti:
Greg Smyth non disse niente, il viso inespressivo, e per un momento non si mosse. D’un tratto passò all’azione. Era come un medico che esamina un neonato. Capovolse i mobili, li girò su un fianco, ci si sedette e si mise persino in piedi su una delle poltrone. Mark osservava nervoso a braccia conserte. (…)
Poi Mark si avvicinò ai mobili e si trovò faccia a faccia con Greg. “Allora, che ne pensa?” chiese.
Greg teneva in mano uno dei cuscini, e stava tirando con forza un bottone per vedere se si staccava.
“Quanto?” domandò, senza aggiungere altro.
Mark guardò Sean dietro la spalla di Greg Smyth, che subito alzò sette dita. Mark intuì che significava settanta sterline, ma non per niente lui era figlio di un’ambulante…
“Novanta sterline a set” disse, imperturbabile.
Sean si coprì il viso con le mani.
“No! Non ve ne darò più di ottanta” rispose Greg Smyth sbrigativo.
Mark allungò la mano e si limitò a dire: “Affare fatto!”
Greg Smyth gli strinse la mano, sorrise e si voltò verso Sean. “Comprerò tutti quelli che riuscirete a fare, Sean”.
All’improvviso la fabbrica vuota esplose in un’ovazione e da ogni angolo corse fuori qualcuno, Mark fece un paio di risatine nervose, che si trasformarono in risate quando gli operai più anziani lo circondarono, dandogli pacche sulla schiena. Poi lanciò un’occhiata all’ufficio di Sean e vide Betty Collins vicina alla porta. Aveva gli occhi umidi. Era stanca, ma il suo sorriso era largo quasi quanto la porta. Mark ricambiò il sorriso, poi alzò il pugno in aria e esclamò: “Sì!”.