Giuseppe Ripamonti ghostwriter del cardinale Borromeo?

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Riflessioni su un recente libro, che indaga sulla prigionia dello storico seicentesco.

Cardinale_Federico_Borromeo

Ho letto il libro di Edgardo Franzosini, Sotto il nome del Cardinale (Adelphi, Milano, 2013) tutto d’un fiato, senza neppure chiedermi se fosse davvero un saggio – come in realtà è – oppure un avvincente racconto storico. Le vicende del lombardo Giuseppe Ripamonti (1573-1643), religioso, latinista, storico (autore tra l’altro del De peste) tanto citato nei Promessi sposi manzoniani, sono infatti proposte dall’autore usando – per così dire – due “piani cronologici”, entrambi necessari per indagare la documentazione in nostro possesso. Il primo piano è quello relativo alla Lombardia spagnola e borromaica di cui il Nostro fu intellettuale di spicco, mentre il secondo è relativo alla cultura milanese dell’Ottocento avanzato che, complice il successo del romanzo del Manzoni, riscoprì l’interesse per il Seicento: in particolare, Franzosini sfrutta le opere storico-erudite di Tullio Dandolo e dei fratelli Cesare e Ignazio Cantù, databili tra gli anni Cinquanta e Sessanta del XIX secolo.
Ma perché dovremmo appassionarci alle vicende di un personaggio come il Ripamonti, che per molti insegnanti milanesi della mia generazione è soprattutto legato al nome della via dove – al mitico n. 40 – era ubicata la sede storica del vecchio “Provveditorato agli Studi”, labirintica succursale della “Torre di Babele”?
Ve lo spiego subito, in poche parole. Infatti Giuseppe Ripamonti, di origini brianzole e rampollo di una dignitosa famiglia contadina, era destinato – per volontà dei parenti – a una monotona vita di curato di campagna. Ma una volta ordinato sacerdote ebbe invece una carriera fulminante, ben più prestigiosa, che lo portò a diventare professore al Seminario e poi Dottore della neonata Biblioteca Ambrosiana; era dunque nelle grazie del cardinale Federico Borromeo, che lo accolse a vivere nel palazzo arcivescovile, ma anche delle autorità spagnole, nella persona del governatore Pietro da Toledo.
Dopo la pubblicazione della prima parte della sua Historia Ecclesiae Mediolenensis (1617), cominciarono però per lui i guai. E furono guai non da poco, se è vero che dal 1618 al 1622 venne incarcerato e, dopo un processo artificiosamente rimandato alle “calende greche”, condannato a ulteriori tre anni di carcere. Come tutti sanno, nel Seicento controriformista accusare qualcuno era un gioco da ragazzi, e al Nostro vennero imputate le colpe più disparate, che andavano dal contenuto della sua Historia (che egli avrebbe modificato dopo l’Imprimatur), alla trascuratezza degli uffici religiosi, all’infamante pratica della sodomia (dalla quale venne però prosciolto). Chi lo interrogò in fase istruttoria gli rimproverò pure i ritardi alla mensa del Seminario, quando era giovane…

Ritratto_del_Ripamonti

Il processo al Ripamonti ha però, ai nostri occhi qualche stranezza. Infatti l’Inquisizione, che dipendeva dal Sant’Ufficio di Roma, ne venne tenuta alla larga, e l’affaire fu gestito solo dal Tribunale locale che rispondeva al Borromeo. Borromeo che, quando il condannato Ripamonti minacciò un “ricorso” a Roma, si affrettò a commutare la sua pena in una sorta di “libertà vigilata” e non si oppose alla sua reintegrazione negli uffici religiosi antecedenti alla prigionia. Paterna benevolenza? Carità cristiana? Illuminata misericordia? Non sembrerebbe proprio, se è vero quello che il Ripamonti stesso in una lettera dal carcere scrive a un amico, con parole che possono dare a tutta la vicenda una luce diversa e farci forse capire le vere ragioni della sua lunga prigionia.
Se infatti Federico Borromeo è noto come autore di una sterminata serie di opere latine di carattere teologico, morale, storico, erudito, Ripamonti sembra “sbugiardare” la fama letteraria del cardinale affermando non scrisse mai il signor Cardinale cosa nessuna in latino e aggiungendo poi che ben venti volumi son quelli per me tradotti accuratissimamente dal volgare italiano in latino. Insomma, il Ripamonti sarebbe stato una sorta di traduttore e/o ghostwriter del Borromeo, il quale o per paura di “perderlo” (egli sognava infatti l’ebbrezza di un soggiorno spagnolo) o per il sospetto che potesse “cantare”, gli volle dare una bella lezione. E, in effetti, la lezione dovette avere le conseguenze sperate perché, finita la carcerazione, l’aiuto linguistico al cardinale (non troppo ferrato in Latino, secondo il Ripamonti) continuò; e con ciò il Nostro si riappropriò della scena culturale milanese, tanto che – morto Federico – divenne “storiografo patrio” e scrisse il De peste (1640) e le Historiae Patriae (1641-43), prima di spegnersi nel 1643 a Rovagnate, nel Lecchese.
Non so se Franzosini abbia forse un po’ troppo costruito un racconto “a tesi”, dove il cardinale è il “cattivo persecutore” e il Ripamonti il “buono perseguitato”, dando un peso eccessivo a lettere scritte dal carcere, e pertanto cariche di odio per il presunto accusatore: non ho né le competenze né la conoscenza dei documenti per dirlo. Ma non voglio certo assolvere il cardinale e restituirne l’immagine integerrima di derivazione manzoniana: quello dei Promessi Sposi è infatti un modello etico, questo di cui parliamo è invece un uomo, potenziale artefice di tutte le grandezze e – perché no? – bassezze di cui l’uomo è capace… È sulla funzione di Scriptor Latinus che vorrei però dire qualcosa, perché ritengo che quello che per Ripamonti era stato un “abuso”, cioè lo sfruttamento delle sue abilità di latinista, era invece per Federico del tutto normale. Infatti quest’ultimo, fin dal momento del suo insediamento (1595), aveva voluto dare alla Diocesi ambrosiana un’impronta ben precisa, mediante la valorizzazione di tutte le arti – nelle quali egli vedeva il riflesso della sapienza e della bellezza di Dio – nonché la formazione di uno staff di dotti specialisti in ogni ambito umanistico. E questo “pensatoio”, a suo avviso, doveva sì lavorare ad maiorem Dei gloriam, ma anche ad maiorem Borromaei gloriam, in una prospettiva dove Milano sarebbe divenuta la “Nuova Atene”, capitale di una Lombardia nobilitata dalla Biblioteca Ambrosiana di Milano, dal Sacro Monte di Varese, dai quadri di Cerano, Procaccini e Morazzone e last but not least dagli scritti del suo dotto arcivescovo.

stemma-araldico-borromeo

Qualche anno fa riscoprii e studiai un codice conservato alla Biblioteca di Como, intitolato Theatrum Insubricae Magnificentiae, opera antiquaria di Girolamo Borsieri (1588-1629), comense, attivo nella prima fase del Seicento nell’entourage del Borromeo e che svariò dalla musica, alla poesia baroccheggiante, alla storiografia e soprattutto alla critica d’arte: fu pertanto uno dei consiglieri artistici di Federico, appassionato collezionista. Il testo è manoscritto, mutilo, ed è dedicato al cardinale, che però mai lo fece dare alle stampe; inoltre, da alcune lettere rimaste, scopriamo che il Borromeo dovette deludere alcune richieste del Borsieri “maturo”, divenuto sacerdote, tra le quali il beneficio di potersi stabilire definitivamente a Milano, che non gli venne concesso. Anche qui, dunque, non sappiamo se il focoso carattere del cardinale fosse entrato per qualche motivo in conflitto con quello del suo collaboratore, oppure se le richieste di quest’ultimo fossero inopportune o infondate: almeno, però, nessuno in questo caso finì in galera!
E questa citazione del “caso Borsieri” a completamento della riflessione sul Ripamonti, se non apporta nulla di più rispetto alle acute pagine di Franzosini, ci aiuta però a rileggere in una chiave ancor più “seicentesca” e “borromaica” le vicende da lui narrate. Vicende – lo ripeto – che ci mostrano un uomo, il cardinale Federico, che sembra sacrificare in entrambe le circostanze i rapporti umani con due dei “suoi” uomini sull’altare del superiore interesse del proprio progetto spirituale e culturale; un progetto ambizioso, da portare avanti “senza se e senza ma”, dove la grande assente sembra essere quella umiltà (humilitas) che era il motto dello stemma dei Borromei, già di San Carlo e poi del più giovane cugino. E se Federico era persuaso – come dice di lui Manzoni (Promessi sposi, XXII) – che la vita non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego, sapeva che il suo impiego di Principe della Chiesa gli poteva – come accade a tutti i Principi (Machiavelli docet…) – richiedere una durezza nei comportamenti ben lontana da quei principi evangelici che soleva predicare. Questo, infatti, era funzionale alla fondazione e al controllo di quella “Nuova Atene” di cui parlava – davanti a lui e alle autorità politiche milanesi – il canonico del Duomo l’8 dicembre 1609, data della solenne inaugurazione dell’Ambrosiana.

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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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