Ieri mattina uno strillo fuori da un’edicola mi ricordava del giorno della memoria. Poco tempo fa, sola a Berlino, ho visitato il museo ebraico.
All’ultimo piano del museo, a tratti spigoloso, vuoto, freddo, luogo di repentini cambi di prospettiva, stanza altissima, che va restringendosi fino a creare un lontano spigolo buio. Comincia a un tratto un pavimento di oltre 10.000 volti di ghisa, un memoriale per le vittime di tutte le guerre, anche se il pensiero porta subito alla bruttura per eccellenza, dato il luogo in cui mi trovo. La gente ci cammina sopra, vi sono più strati, i volti si muovono, rumoreggiano e rimbombano forte: nessuno parla con nessuno. Cominciano camminate e fermi improvvisi: la gente ci pensa, io penso, abbasso lo sguardo al pavimento e afferro un volto, di bimbo, ma sento disagio a poggiare i piedi. Il numero, il peso, il rumore, la casualità di volti vicini a volti, la tentazione infantile di avvicinare per creare famiglie, faccia più grande, faccia media, faccini… tutti diversi, pesi, presenze, alcuni quasi fuori dall’allestimento, sul pavimento del mondo dei vivi, quasi scampato, ma quasi non ha valore. Se decidi per la camminata, la violenza che senti sotto i piedi nell’onorare: se partecipi, se entri, calpesti. E allora il tentativo di un passo leggero, che non faccia rumore, né male. A quale scopo, se provoca in me disagio? Al fondo della sala vedo il buio, e la chiusura dello spigolo lontano: sento una laica sensazione religiosa e cammino per raggiungere, nel buio pesto, l’ultimo degli ultimi nell’angolo buio, elevandolo, cercando di raccogliere la sua faccia di ghisa. La tocco al buio, e penso: per fortuna non è un bambino.