Che la biografia di Giacomo Leopardi fosse avara di eventi esterni paragonabili a quelli interiori è già stato smentito dal film per il cinema scritto da Mario Martone e Ippolita di Majo e interpretato da Elio Germano, Il giovane favoloso (2014). Il più recente tentativo di Sergio Rubini, Leopardi: il poeta dell’infinito (2025), è una miniserie televisiva per la Rai, che si concentra su alcuni aspetti biografici: segata via la doppia gobba della tradizione storiografica, trasformato il conte in un giovane aggraziato e azzimato, il Leopardi ora interpretato dal ravennate Leonardo Maltese continua a non avere accento marchigiano e a manifestare una tendenza alla trasgressione, alla ribellione, anche urlata, tanto da lasciare un’iniziale impressione di comicità per la sua apparente ingenuità.
Complesse, se non contraddittorie, sono le situazioni in cui Leopardi fin da ragazzo si trova: tra un padre conservatore eppure bibliomane e una madre anaffettiva eppure prolifica; tra precettori clericali e uno degli intellettuali più acclamati e spregiudicati del secolo, Pietro Giordani, ateo e omosessuale; tra liberali che, al Gabinetto Vieusseux, lo sostengono economicamente e editori (Pietro Brighenti) spie del governo asburgico.
In effetti, come si vede nella prima parte della miniserie, l’entusiasmo scatenato dalla canzone All’Italia spinge sul pedale del poeta patriottico, pronto a sacrificarsi, a «procombere» per la nazione non ancora unificata che aveva accolto Enea. Leopardi non si riconosce in questa immagine e con sdegno prima declina le possibilità di carriera ecclesiastica, strappandosi le vesti da pretino che gli erano state imposte, quindi si sgancia dall’influenza intellettuale e finanziaria fiorentina, nonostante le bollette e la pigione da pagare.
Poeta e scrittore esperto delle dogane degli Stati preunitari, dallo Stato pontificio alla Lombardia, dal Granducato di Toscana al Regno delle Due Sicilie, Leopardi fa del nomadismo una categoria taciuta ma ben presente nella storia editoriale dalle Canzoni ai Versi, ai Canti: Milano (nelle riviste), Bologna (Nobili e Brighenti), Firenze (Piatti e poi Le Monnier), Napoli (Starita). Ed è un poeta con disabilità, una condizione che è stata ricondotta, in tutte le sue molteplici manifestazioni, non – come pensava lui – a una malattia di nervi ma alla tubercolosi ossea. Il suo corpo non conforme diventa un’originale terrazza panoramica sul mondo, quella siepe che ostacola i sensi integri senza la quale, però, non si riuscirebbe a immaginare l’in(de)finito, coltivando il piacere delle illusioni. Il regno del poeta è per forza la notte, lontano dagli sguardi crudeli e giudicanti della gente «normale», in dialogo con una compagna d’eccezione che non parla ma sa ascoltare più di tanti umani, la «cara» luna, quando gli occhi possono finalmente riposare.
La miniserie di Rubini mette in scena il Leopardi canonico per poi decostruirlo, soprattutto nelle relazioni umane che intrattiene: quella con la sorella Paolina (Maria Vittoria Dallasta), scrittrice mancata a causa di un ambiente familiare che già aveva mal digerito l’intraprendenza del primogenito e il matrimonio del fratello Carlo, figuriamoci l’estro letterario di una ragazza; quella con la cugina Geltrude Cassi Lazzari (Serena Iansiti), «primo amore»; quella con Marianna Brighenti (Emma Fasano), la cantante lirica figlia di Pietro che presto scopre il doppio gioco del padre e lo rivela all’amico Giacomo; soprattutto, quella con lady Fanny Targioni Tozzetti (Giusy Buscemi), che diventa, lei donna sposata e madre di tre figlie, amante di Antonio Ranieri (Cristiano Caccamo; lui sì parla con la cadenza). Dai Canti la nobildonna esce a pezzi, mascherata dall’ambiguo senhal di Aspasia, cortigiana e concubina di Pericle ma anche donna colta e oratrice, e presentata come una maliarda ingannatrice rispetto alle cui «arti» la prudenza del poeta nulla ha potuto. Con la giovane giornalista Matilde Serao che le chiedeva lumi sul sentimento non ricambiato di Giacomo, che l’amò per due anni, l’ormai anziana e olezzante Fanny si sarebbe vendicata: «Mia cara, puzzava».
Dietro questa immagine poco edificante della donna c’è una rete complessa di ragioni, biografiche e letterarie, che gettano una luce diversa sulla presunta misoginia del poeta. Anzitutto, nel cosiddetto ciclo di Aspasia dei Canti Leopardi presenta sé stesso e la sua figura femminile rielaborando da par suo quei luoghi comuni pronti all’uso in contesti polemici: conoscitore della letteratura misogina (nel 1823 aveva tradotto la satira del poeta greco Semonide contro le donne: «la donna è il massimo / di tutti i mali che da Giove uscirono»), Leopardi prima celebra la bellezza e il fascino di Aspasia, quindi le attribuisce la mancata capacità di cogliere l’eccezionalità dei sentimenti del poeta. In Aspasia, Leopardi trasforma una qualità tipica dell’estetica femminile antica (le «anguste fronti») in un segno di scarsezza cerebrale e stabilisce un abisso ontologico tra i «sensi profondi, sconosciuti, e molto / più che virili» dell’io lirico (che pure non si accontenta della mascolinità poetica petrarchesca) e «chi dell’uomo al tutto / da natura è minor», cioè Aspasia. D’altra parte, in Alla sua donna Leopardi ha dimostrato di saper attingere al linguaggio lirico alto per definire il proprio ideale femminile, di cui dimostra la performatività nelle Operette morali: bandito il concorso per la «macchina» della donna perfetta, la fantomatica Accademia dei Sillografi richiede che essa dovrà corrispondere alla quintessenza della femminilità delineata da Castiglione e altri scrittori. Come in Aspasia, quando poi ci si accorge che il reale non corrisponde all’ideale, gli uomini incolpano «a torto» le loro innamorate, riconoscendo la caduta dell’«incanto» e dell’illusione d’amore («io te non amai, ma quella Diva»).
Quando, nello Zibaldone, Leopardi riflette più seriamente sulla questione dei generi e sulla presunta inferiorità e debolezza delle donne, usa argomenti diversi:
Lo spirito naturale e primitivo delle donne, non ha nè vestigio alcuno di tali facoltà, nè disposizione ad acquistarle, maggiore per nessun grado di quella che ne abbiano gli uomini. Ma la facilità e la perfezione con cui esse le acquistano, non viene da altra cagione che dalla loro natural debolezza, e inferiorità di forze a quelle degli uomini, e dal non poter esse sperare se non dall’arte e dall’astuzia essendo inferiori nella forza, ed inferiori ancora ne’ diritti che la legge e il costume comparte fra gli uomini e le donne. (Zib. 2260, 19 dicembre 1821)
Se le donne possono sembrare deboli, cioè meno forti degli uomini, per natura (una questione tuttora aperta nella discussione su violenza di genere e femminicidi), le circostanze storiche («la legge e il costume») aggiungono il carico da novanta. Ed è così che, per compensare l’avvertito divario e riequilibrarlo, si presentano alle donne le carte dell’«astuzia» o, come aveva già scritto Mary Wollstonecraft, della «civetteria». Non si tratta di veri difetti, ma di un meccanismo di difesa utilizzato per riposizionarsi e affrontare le iniquità sociali, culturali e giuridiche. Prive di educazione e tutele, costrette a fare bella figura in società, le donne aristocratiche e alto-borghesi non potevano che ricorrere a quelle «arti» per stare al passo nelle discussioni salottiere e nelle relazioni. Anche i maschi, del resto, possono essere astuti e ingannatori, ma essendo i privilegiati della storia, avranno meno necessità di diventarlo. In questo – continua Leopardi – le donne sono accomunate ad altri esseri «deboli», cioè marginalizzati, come i bambini o i malati, a cui natura e cultura impongono una serie di discriminazioni che invece gli uomini conformi, fatti e finiti, schivano senza tanti sotterfugi.
C’è poi un altro elemento che complica la relazione Giacomo-Fanny: Antonio Ranieri. Quest’uomo, che avrebbe dato alle stampe Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi e che sarebbe diventato parlamentare del Regno d’Italia, è stato il destinatario di lettere appassionate da parte del poeta, con cui appunto visse a lungo. Il saggio Silvia è un anagramma di Franco Buffoni, oltre che tante voci già all’epoca circolanti, ha ormai fatto outing sull’«amicizia particolare». Non si tratta tanto di investigare se e come Leopardi fosse gay (per lui l’amor platonico era pura «pederastia»), se Aspasia fosse una maschera per Totonno (come Giacomo chiamava il suo Antonio), se questi fosse un badante-amante, se i due dormissero in camere separate o insieme in un queen-size bed. Gli ingredienti della coppia perseguitata ci sarebbero tutti: la partenza dal «borgo selvaggio» e la rottura con la famiglia; la tentata sublimazione nel celibato ecclesiastico; la rete intellettuale; il chiacchiericcio dei compaesani, a Recanati e fuori; la convivenza e la famiglia non di sangue; il riscatto letterario.
Quel che risulta più affascinante è leggere in chiave queer i modelli relazionali e di genere impersonati dai membri di un legame poco conforme, due uomini diversissimi, innamorati della stessa donna e/o tra loro, con una delicatezza di gesti quotidiani, con una vicinanza corporea che la miniserie di Rubini in più occasioni immortala: quando Antonio solleva Leopardi leggero come una piuma, quando lo soccorre negli attacchi d’asma, quando lo accompagna a fare il bagno nel mare, quando impersona Fanny e si fa baciare da lui.
Ecco: questa scena – nel film di Martone, invece, Giacomo, a Napoli, ha un incontro occasionale con un femminiello – esprime al meglio il processo di decostruzione delle norme di genere che gli Studi queer invitano a praticare.
Sullo sfondo, Fanny, che nel finale, morto e in qualche modo sepolto il conte, si riprende la scena e Ranieri: lo raggiunge a Napoli per scoprire che tutte le lettere che credeva scritte da lui in realtà le aveva composte Giacomo con la complicità di Paolina, la sorella di Antonio omonima della sua (interpretata da Roberta Lista). Fanny si rende così conto della grandezza del poeta e prosatore privato, oltre che pubblico, e dell’«astuzia» di Leopardi, anche lui essere «debole» e dunque scaltro e ingegnoso. Un alleato nell’intersezionalità, dopo tutto.
I volti dei tre attori, ricomposti insieme sullo sfondo del golfo di Napoli, ricordano un altro recente trio queer cinematografico partenopeo: la Parthenope, il Raimondo e il Sandrino del film di Paolo Sorrentino. Anche in quel caso, come canta Cocciante nella colonna sonora, «era già tutto previsto» e la donna della canzone, incerta tra due uomini, valuta con quale dei due avviare una relazione, rinunciando al poeta perché a lei, come a Parthenope e a Fanny, «ci vuole un uomo» (e il poeta è più di un uomo, ha «sensi più che virili»).
Non è che Ranieri fosse un perdigiorno, che Targioni Tozzetti fosse una vezzosa capricciosa sciantosa, anzi al confronto con un ipocrita come Tommaseo, devoto frequentatore di chiese e di bordelli (morì di sifilide), la nobildonna appare parecchio insofferente alle norme sociali, a costo di farsi una cattiva fama. È che Leopardi, poeta con disabilità, irradiava una luce tanto potente da incenerire, da far «puzzare» di mediocrità intellettuale e umana chiunque gli stesse vicino. Quell’aura lui stesso doveva averla avvertita intorno a sé quando, poco prima di morire, mormorò: «Addio, Totonno, non vedo più la luce». Altro che olio santo e particola consacrata; Leopardi si spense con negli occhi l’immagine sfocata, obliqua, queer del suo Ranieri.