Per capire l’importanza di questa edizione è necessario fare un passo indietro nella storia dell’editoria italiana, e riprendere in mano il volume intitolato L’opera in versi e in prosa, la prima edizione di “tutto Sbarbaro”, curata da Gina Lagorio e Vanni Scheiwiller per Garzanti nel 1985 e poi ristampata in formato più tascabile ed economico nel 1989. Si trattava, come dichiaravano i due curatori in una paginetta introduttiva, dell’edizione ne varietur delle opere cui egli volle affidato il suo nome, «per espressa volontà testamentaria»: Poesie, Trucioli, Fuochi fatui, Cartoline in franchigia, seguite da una scelta di alcune tra le traduzioni poetiche realizzate dall’autore nel corso della sua vita.
L’editore-amico Vanni Scheiwiller (1934-1999), che aveva iniziato il suo sodalizio con Sbarbaro nel 1954, e la scrittrice-amica Gina Lagorio (1922-2005), che nel 1981 aveva pubblicato sempre per Garzanti la biografia Sbarbaro: un modo spoglio di esistere, non potevano che assecondare le ultime volontà di un autore al quale erano rimasti legati e che avevano accompagnato nella sua tormentata vecchiaia. Il risultato di quella fedeltà è un’opera che rispecchia l’immagine di un autore già anziano, il quale dal secondo dopoguerra aveva iniziato a riscrivere e ripubblicare i suoi libri precedenti, trasformandoli anche in profondità, in modo tale da ottenere delle opere completamente nuove, che pur conservando le tracce di quelle del passato di fatto ne occultavano l’identità.
Ma Sbarbaro, come ricorda Testa nella sua generosa e puntuale introduzione, ha giocato un ruolo fondamentale in più momenti della storia letteraria, influenzando diverse generazioni di poeti che hanno avuto modo di entrare in contatto con le differenti fasi della sua produzione, iniziata in sordina nel 1911 con la pubblicazione della raccolta poetica intitolata Resine, ed esplosa letteralmente con le poesie di Pianissimo (1914) e con le poesie in prosa e i frammenti di Trucioli, pubblicati in volume nel 1920 ma usciti su rivista durante l’intero arco della Prima guerra mondiale, proseguita poi con le prose d’arte e poesie in prosa di Liquidazione (1928) e con le poesie poi raccolte nel volume Rimanenze, scritte tra il 1922 e il 1933, prima di approdare alla prima grande opera di rimescolamento e di riscrittura operata con i Trucioli del 1948, con la quale Sbarbaro dichiara di aver trovato nella prosa la sua «terraferma».
Provate a rileggere oggi, grazie a questa edizione che riproduce integralmente le prime edizioni delle opere sbarbariane, i primi tre libri – Pianissimo, Trucioli e Liquidazione – e scoprirete un autore finora quasi sconosciuto, che nell’arco di venticinque anni cruciali per la storia della cultura e della lingua italiana ha individuato ed elaborato soluzioni narrative e stilistiche capaci di mettere in scena con straordinaria coerenza formale i tormenti del desiderio e l’aridità dell’esistenza, la consolazione offerta dalla natura e la necessità dell’amicizia, la perdizione e la grazia.
Tutto ha inizio con questi versi:
Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all’uno e all’altro vai
rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d’ira o di speranza,
e neppure di tedio.
L’anima e il corpo sono come morti, ammutoliti, e tuttavia procedono nel mondo, camminano senza sentire ciò che percepiscono, e in un mondo ridotto a mera rassegna di cose all’io lirico non può che rimanere inebetito a osservarsi dall’esterno, senza provare pietà di sé.
Questo è invece l’inizio del libro dei Trucioli, che si apre con una poesia in prosa intitolata La vite:
La mia anima d’ora somiglia ad una vite guardata un giorno con meraviglia. Nasceva da un muro di casa su una piazza lastricata. Trapiantata in piena terra sarebbe intristita, io credo.
Così la mia anima ha messo radice nella pietra della città e altrove non potrebbe più vivere. E se guardo qualche volta ai monti lontani come a una liberazione, in realtà essi non mi dicono più niente.
Siamo ancora dalle parti di Pianissimo, ma inoltrandosi nel libro, composto da ottantasei pezzi in prosa dallo stile e dai temi cangianti e variegati, è possibile assistere alla costruzione di un personaggio-narratore sempre più sfaccettato e preciso, che mentre si avventura nella vita e nel mondo – prima nei meandri della città e dei suoi abitanti, poi nella natura rivelata dalla guerra, – si chiarisce a sé stesso e si svela.
Nei testi finali, che analogamente alla Saison en enfer di Rimbaud sono dedicati all’interpretazione del passato, sembra nascere un nuovo personaggio: un fanciullo che cammina senza meta e controvoglia, si volta mettendo in mostra una faccia disperata, una sorta di fantoccio che osserva con chiaroveggenza un altro fantoccio, il sé stesso della gioventù, morto suicida:
Adesso, da quando? i trivii e i budelli non mi parlano più il linguaggio d’una volta lacerante. E ci sono gli alberi che mi consolano e gli animali che mi fanno divinamente sorridere.
Da quel giorno il fantoccio ebbro e tragico che conosci è morto. Suicida, come a lui piaceva, giace di traverso in qualche piazzetta ove non passa nessuno.
Ma rimastica il superstite nelle ore deserte l’antico tozzo di gioia, malinconico scavatore che rovista nelle macerie della sua casa.
E incamminato verso dove non sa – fanciullo tratto a mano controvoglia – a te e a quella larva di gioventù con disperata faccia si volge.
Otto anni dopo così si apre Liquidazione, con un testo scritto e pubblicato nel 1921:
Il 24 Gennaio, quest’anno, la primavera si azzardò alle mura di Genova in una vestarella da ballerina che faceva pena a vedere.
«Quanta fretta!» pensai, mirando quella delicatezza nell’aria.
La mia riconoscenza non garbò a un tale che di là per malanno passava.
«Stolto alberello!» declamò colui alle mie spalle «Sarà punita la tua jettanza. Il rigore d’una notte ti ridurrà uno stecco annerito.»
Al che, punto:
«Ingrato uomo! Or così ringraziate chi vi fa un dono?»
«Dono? Tradimento, avete a dire. Costui prometteva lunga fioritura e pomi ad aprile. La vanità d’un minuto mandò ogni cosa in malora.»
«Ignoravo gli impegni dell’albero. Questo, in ogni modo, mantiene.»
«Fronzoli! Frivolità d’un mattino!»
«Non è delle cose belle il durare…»
«Ah, ah!» ghignò allora colui. «Ben mi apponevo. Vi ravviso ora. Siete scrittore…»
«Tal nome non mi conviene» balbettai, da rossore offeso.
«… e in quella dell’albero difendete la vostra stoltezza. Come scrittore, appunto, rendete immagine di quest’albero.»
«Foss’egli come voi dite!»
«Non serve. Mutarono i tempi, bello mio. Frutti, non fiori, chiedono gli uomini ormai.»
«Me dunque, non l’albero, ammaestravate? – Orbé, messere, che fec’io per dispiacervi?
I miei scrittarelli colloco su fogli che vivono, quant’essi, un giorno: né so come v’abbian dato nell’occhio.
Con merce non venni a mercato.
…
La struttura del testo – davvero anomalo e bizzarro per chi abbia letto in ordine cronologico le opere di Sbarbaro – è quella della ‘passeggiata’, una vera e propria fantasticheria del passeggiatore solitario, alla Rousseau, o anche alla Palazzeschi, sulla falsariga di E lasciatemi divertire e della Visita di Mr. Chaff. Il personaggio-scrittore attraversa la città e incontra sul suo cammino un vecchio giardiniere, una donna, una bambina… e avanzando si accumulano nel testo i riferimenti al ruolo del poeta – definito «giardiniere di tropi» –, alla sua funzione estetica e sociale. Chiude la prosa, insolitamente lunga, una «epistola» indirizzata al sindaco di S. Margherita Ligure, in cui il poeta chiede che gli vengano immediatamente devoluti i soldi che in futuro la cittadinanza destinerebbe all’erezione di un suo monumento commemorativo:
Facendo com’io vi dico, ottimamente meriterete della patria, da tema sollevata di villan marmo; ottimamente di voi medesmo, cui di perspicacia monumento eleverete in eterno; ottimamente infine delle lettere, ché, sciolto da cure, opere creerò come bimbo spiccia da canna bolle.
Mentre il libro dei Trucioli si era chiuso con un fanciullo che si volta indietro e guarda disperato verso la propria gioventù, Liquidazione ricomincia con un fanciullo metaforico che – come il fanciullo del Bateau ivre di Rimbaud – crea cose da poco, leggere, inutili, bisognose del sostegno e della benevolenza degli altri per sopravvivere.
È l’immagine ripresa da Montale nel suo celeberrimo epigramma, pubblicato nel 1925 quasi in apertura degli Ossi di seppia:
Sbarbaro, estroso fanciullo, piega versicolori
carte e ne trae navicelle che affida alla fanghiglia
mobile d’un rigagno; vedile andarsene fuori.
Sii preveggente per lui, tu galantuomo che passi:
col tuo bastone raggiungi la delicata flottiglia,
che non si perda; guidala a un porticello di sassi.
Tornati dunque alla lettura integrale di Liquidazione, che si chiude con un Congedo che sembra voler mettere fine a una stagione poetica avviata nel 1912 con la stesura delle prime poesie di Pianissimo, leggete e rileggete poi, tutte insieme, le poesie di Rimanenze, per correre infine all’ultima grande stagione del prosatore, ripartendo dai Trucioli del 1948, Scampoli (1960) e poi Fuochi fatui, di cui è riprodotta la terza edizione del 1962 (la prima risale al 1956) e gli straordinari e pressoché introvabili libriccini pubblicati da Scheiwiller: Gocce (1963), «Il Nostro» e nuove Gocce (1964), Contagocce (1965), Bolle di sapone (1966), Vedute di Genova 1921 (1966), Quisquilie (1967), repertori inesauribili di aforismi – «Non dar dell’egregio: “uscito dal gregge” suona offensivo agli altri, definiti così pecorame» – intercalati a pezzi in prosa più lunghi, come d’abitudine.
Una seduta a parte richiederebbe infine il libro delle Cartoline in franchigia del 1966, un’opera composta interamente da trascrizioni di lettere e cartoline scritte da Sbarbaro in gran parte all’amico fraterno Angelo Barile durante gli anni compresi tra il 1909 e il 1919, scanditi in tappe segnate dalla pubblicazione dei suoi primi libri. Non si tratta solo di una testimonianza utile alla ricostruzione della biografia sbarbariana o della vita in trincea, quanto semmai di un omaggio alla più necessaria delle scritture, l’epistolare, che richiede sempre, per suo statuto, un’interlocutrice o un interlocutore.
Arrivati alla fine potete affrontare l’esemplare Cronologia di Costa, che consente di ricostruire puntualmente le tappe di una vita segnata soprattutto dagli incontri e dal dialogo con le amiche e gli amici, ma anche dall’antifascismo e dal lavoro di traduttore e di lichenologo, per poi provare a immaginare cosa abbia significato – nel corso del Novecento – avere a disposizione l’esempio e i testi di quest’uomo, le cui opere, ha scritto Enrico Testa nel saggio introduttivo, hanno rappresentato un «ombrello grande e rattoppato» sotto cui hanno trovato rifugio in tanti e che ancora oggi possono offrire riparo «dai piovaschi delle mode e dalle grandinate della storia».