Chiariamo subito un equivoco. Questo saggio, che esce nel centenario della nascita di Gianni Rodari, non è un omaggio a un autore amato, e neanche il ripescaggio di un autore dimenticato o non adeguatamente valorizzato dall’establishment letterario. Questo, a mio avviso, è un saggio che, attraverso la ricostruzione della storia di Rodari, contribuisce a ridefinire l’idea stessa di autore e di intellettuale nel nostro tempo, aiutandoci a riflettere su come abbiamo osservato fino a oggi il nostro passato, su quali storie ci siamo raccontati per arrivare fin qui e, dunque, sui dispositivi concettuali che abbiamo usato per assegnare un ruolo marginale a Rodari e, con lui, all’educazione, alla didattica, alla scuola, ai bambini e alle bambine.
Arrivati alla fine del libro, quindi, non vi aspettate di trovare una risposta alla domanda se Rodari sia o no un grande autore della letteratura italiana. Preparatevi, semmai, a mettere in dubbio i criteri che, nel lungo periodo dell’Italia repubblicana, sono stati usati per canonizzare gli autori e, quindi, inserirli o meno nei corsi di studio universitari o nei manuali scolastici. Soprattutto, nell’iniziare il libro, predisponetevi a fare autocritica sul ruolo che, nel nostro sistema culturale, nel discorso pubblico e nel dibattito politico – ma anche, più concretamente, nei nostri investimenti – riserviamo ai nuovi cittadini e alle nuove cittadine, i bambini e le bambine, e sulla qualità dei servizi educativi e di istruzione che mettiamo loro a disposizione, costringendoli a usarli.
Rodari, scrive Roghi, sceglie precocemente, già all’inizio del suo percorso politico e letterario, «di abbracciare il presente per immaginare il futuro» (p. 35), di aderire alla realtà e di esplorarla attraverso l’esercizio costante dell’immaginazione. I bambini, incontrati per caso durante il proprio percorso professionale, sono il punto d’approdo ideale del tragitto di un intellettuale che accetta la sfida di cambiare il mondo. Perché il bambino «è un essere rivolto naturalmente al futuro una profezia, un’utopia concreta» (p. 76) e l’utopia, ha scritto Rodari, «non è meno educativa dello spirito critico. Basta trasferirla dal mondo dell’intelligenza (alla quale Gramsci prescrive giustamente il pessimismo metodico) a quello della volontà (la cui caratteristica principale, secondo lo stesso Gramsci, deve essere l’ottimismo)».
Per questo – è ancora la voce di Roghi (p. 9) – dobbiamo continuare a guardare all’intellettuale Rodari:
per scrutare il presente e l’infanzia e la scuola, per scrutare il nostro tempo. Serve farlo perché «i bambini vengono dal futuro, non sappiamo di preciso che cosa siano, essi sono ‘impastati’ di ignoto e di futuro: ogni volta si presentano come un fatto assolutamente nuovo e sconcertante» [Andrea Zanzotto, Infanzia, poesia, scuoletta, in «Strumenti critici», febbraio, 1973], sono l’immagine stessa dell’imprevedibilità, per questo ci abituano all’uso dialettico della ragione, a non adagiarsi su vecchie certezze, sull’immagine di un’età dell’oro perduta, ci obbligano a esercitare la speranza.
E un grande e prolungato esercizio di speranza è lo sforzo che fa Roghi – e noi lettori e lettrici con lei – di capire Rodari nel suo e nel nostro tempo. Roghi, infatti, ci tratta da persone intelligenti, capaci di comprensione e di trasformazione, pur sapendo che, come Rodari, si rivolge a un «pubblico che, pur essendo spesso progressista in politica, ha sulla scuola posizioni a dir poco reazionarie, o, quantomeno, conservatrici» (p. 160). Non ci offre la soluzione bell’e pronta, e ci coinvolge, lasciandoci spazio, ricorrendo a molte citazioni che ci danno modo di farci un’idea, di toccare con mano quelle idee in forma di parole. Confida nella nostra capacità di seguire i tanti fili che tessono il suo libro.
C’è il filo della storia degli intellettuali e delle idee, il filo della storia dei partiti politici e della militanza, quello della storia della scuola dell’Italia repubblicana, e anche quello della storia letteraria, tutti intessuti con grande competenza per dare spessore alla trama e rilievo al personaggio protagonista, quel Gianni Rodari da Omegna che, tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta del Novecento, ha contribuito, con il suo lavoro culturale, ad aprire prospettive e orizzonti che sono ancora lì, come finestre spalancate a cui davvero in pochi hanno osato affacciarsi.
Prendiamo il caso, per esempio, del ruolo giocato da Rodari nel dibattito sul ruolo della didattica nella scuola democratica. È il 1966, e su «Riforma della scuola» è appena uscita una stroncatura a un libro intitolato Didattica operativa.
Il libro, che presenta le tecniche di didattica attiva di Freinet così come state applicate nel contesto italiano dal Movimento di Cooperazione Educativa, è accusato di tecnicismo, appunto, perché non dedica abbastanza spazio alle prospettive ideali e politiche dell’insegnamento.
Rodari, che condivide l’approccio del Mce, scrive una lettera aperta al direttore, l’amico Lucio Lombardo Radice, nella quale esplicita uno dei limiti maggiori degli intellettuali comunisti che si occupano di scuola mettendo al centro i principi ideali, senza capire l’importanza delle tecniche didattiche, le quali sono esse stesse portatrici di valori, dai quali sono inscindibili.
Il punto, secondo Rodari, è riuscire a ricorrere in modo consapevole e competente a tecniche capaci di trasformare la classe in una comunità cooperativa e, quindi, in uno spazio democratico nel quale sia possibile assistere alla nascita della coscienza critica del bambino. Queste tecniche, afferma Rodari, non possono essere usate nel quadro di un insegnamento dogmatico, e chi le rifiuta in nome di un generico antiempirismo dovrebbe fornire almeno dei metodi alternativi, perché per cambiare la scuola è necessario cambiare l’insegnamento tradizionale («dogmatico, antiscientifico, non democratico» dice Rodari, citato a p. 163).
Scrive Roghi:
Rodari coglie in questo intervento un punto cruciale che, da Gramsci in poi, fa spesso cadere in contraddizione insegnanti progressisti, ma solo a parole: la scuola democratica non esiste senza una didattica democratica. Guardiamo Mario Lodi, per esempio o Maria Luigia Bigiaretti.
Ora, dice Rodari, insegnanto come Lodi, come Bigiaretti vanno valutati a partire da un piano didattico e non ideologico. Una coerente impostazione dei problemi educativi, partendo dal piano didattico (cioè partendo dal lavoro di ogni giorno, oggi, qui), conduce inevitabilmente l’insegnante a scoprire la necessità, per esempio, di riforme strutturali della scuola.
Segue una lunga citazione – è un passo straordinario, andate a leggerlo a pagina 164 – in cui Rodari spiega perché «un maestro deve sapere bene insegnare» e perché il Mce ha scelto di limitare il suo campo d’azione alla didattica, facendo appello alla coscienza professionale dell’insegnante e mettendo in moto all’interno della scuola dei processi di rinnovamento. Un rinnovamento che è profondamente politico, perché intenzionato a formare, nella concretezza del lavoro didattico, nella vita quotidiana della classe, «un cittadino democratico, una mente aperta, capace di conoscenza critica».
È tutto qui. Rodari, grazie al lavoro di Mario Lodi e dei maestri e le maestre del Mce, ha capito che è davvero tutto qui: la democrazia è un esercizio che nasce a scuola, frutto di comportamenti e di stili di vita da adottare concretamente attraverso i metodi di insegnamento praticati dai docenti. La trasformazione della scuola non avverrà per l’adesione a principi e teorie ma grazie alla capacità di scegliere e di agire tecniche didattiche che consentano agli allievi bambini – proprio a quelli che sono nella tua classe, di fronte a te, ogni giorno di scuola – di vivere l’esperienza di una comunità democratica in cui sia possibile sperimentare, qui e ora, insieme agli altri, le proprie possibilità.
Ed è così anche per la letteratura. Rodari è diventato scrittore per bambini sui quotidiani e sui settimanali, lavorando giorno per giorno per lettrici e lettori che reagiscono colpo su colpo, ridono e si divertono alle sue filastrocche o alle sue storie, e poi rispondono, scrivono lettere, ne chiedono ancora. Rodari sa cosa significa dover inventare ricorrendo a delle tecniche – le ha descritte nel suo «libro d’oro e d’argento», la Grammatica della fantasia (1973) – che non vengono tenute nascoste ma che sono al contrario rivelate, come un mago che racconti i suoi trucchi, perché quel che conta, per il mago-scrittore Rodari, non è far bella figura ma far fare bella figura al pubblico, che deve essere partecipe dell’intelligenza dell’opera e uscire dallo spettacolo della lettura rinfrescato, divertito, fiducioso nelle proprie capacità e, anche, nella possibilità di imparare qualcosa dagli altri. Poter dire, alla fine della lettura, «ma questa avrei potuto scriverla anch’io», è il più grande complimento che si possa fare a una filastrocca così:
C’era una volta un gatto
che andava nel Canadà,
e questa è la metà.
Portava un cartoccetto
di pane col prosciutto,
e questo è tutto.
E non vi aspettate di trovarla nelle storie della letteratura, perché – come ha scritto Tullio De Mauro – è difficile che uno sguardo italocentrico riesca a cogliere l’importanza di una scrittura che egli definisce plurilingue, vicina agli inglesi, ai tedeschi, ma soprattutto perché – come possiamo osservare ancora oggi, a quarant’anni dalla scomparsa di Rodari – i bambini e le bambine piacciono solo, alla fin fine, quando sono ubbidienti e silenziosi. In classe, certo, “in presenza”, tutti pronti ad ascoltare le orazioni del mattino e a dare senso al lavoro di centinaia di migliaia di insegnanti senza didattica.