Immaginiamo che Carlo, un bibliotecario, debba raccogliere in alcuni scatoloni i libri che trova in ordine sparso davanti a sé. Si tratta di ordinarli in due categorie, perché tutto il materiale sarà disposto nella nuova sede della biblioteca. Le casse in cui raccogliere la letteratura sono perciò contrassegnate con una L, mentre quelle per la filosofia hanno la F.
Si noti che la logica dualista filosofia-letteratura è proposta, ma non vincolante: nulla obbliga Carlo ad accoglierla, di fatto. Egli potrebbe tranquillamente inserire tutti i libri nelle L-scatole, o tutti nelle F-scatole. Dunque come agirà?
L’inizio è semplice, perché gli capita in mano Il vecchio e il mare di Hemingway. Certo, pensa il bibliotecario, il testo può essere oggetto di riflessione da parte di filosofi che si interroghino sul senso della vita e della morte, sulla solitudine e sulle beffe del destino che ti soffia via la gioia più grande, proprio quando sembra avertela concessa. In realtà, il libro non è filosofico, a essere filosofiche sono le idee che ispira. Dunque scatola L. Così è presa una prima decisione importante: le scatole L non resteranno vuote.
C’è poi un libro di Borges che, caduto a terra, è rimasto aperto su una pagina che attira l’attenzione di Carlo. Egli afferra il libro e legge il racconto che comincia proprio lì: La biblioteca di Babele. Finita la lettura, aggrottando le sopracciglia, Carlo lo pone nella scatola L. La terza decisione sembra semplice: Una teoria della giustizia di Rawls finisce nella scatola F. Si tratta di un saggio piuttosto denso e pesante, che nel suo complesso non ha nulla a che spartire con la letteratura, osserva tra sé Carlo. Con ciò un’altra scelta è presa: neanche le scatole F saranno vuote. Subito dopo anche il Breviario di estetica di Croce finisce in F. Nemmeno il quinto libro è un problema: Diario di un seduttore di Kierkegaard va in L. Non basta che l’autore abbia fama di filosofo per fare di ogni sua opera un testo filosofico. Quando ha dei dubbi, Carlo di solito li risolve facendo confronti: se La noia di Albero Moravia è in L, allora va lì anche Bonjur tristesse di Françoise Sagan.
Insomma, il lavoro procede per ore e, man mano, si forma una pila di libri che Carlo lascia indietro, malgrado il suo decisionismo. Non sa proprio come classificare quei testi. Vi si trovano, tra gli altri, il De rerum natura di Lucrezio, La favola delle api di Mandeville, Il mondo di Sofia di Gaarder, le Confessioni di Agostino, Così parlò Zarathustra di Nietzsche, Flatlandia di Abbott, La scuola degli egoisti di Schmitt, Gödel, Escher, Bach di Hofstadter e, naturalmente, Le tribolazioni del filosofare di Varzi e Calosi.
È ormai tempo di lasciare il bibliotecario ai suoi scatoloni, e di andare ai problemi di ontologia che egli sta affrontando. Se si ammette una dualità irriducibile tra filosofia e letteratura, come sembrerebbe che sia osservando i casi estremi, come dare conto del fatto che esistono i casi borderline? Essi dovrebbero scomparire per via della discontinuità tra i due ambiti. Ma d’altra parte, la stessa esistenza di casi borderline non mostra che vi è irriducibile continuità tra filosofia e letteratura? Verrebbe da dire che nella zona di confine tra le due si dispongono in qualche modo i casi borderline. Ma, d’altra parte ancora, la stessa nozione di “borderline” ammette il darsi di una linea, di una cesura intorno a cui vengono a porsi i singoli casi dubbi. Insomma, la questione è di non facile soluzione.
Tanto la filosofia quanto la letteratura sono in stretto rapporto con la verità: si tratta di un’intuizione che risale a Platone. Si potrebbe sostenere che ci sono casi di difficile collocazione e che sono intermedi, ma che la linea tra gli estremi non è continua, che ci sono punti di discontinuità. Non è però questa la tesi che difenderò di seguito. Proverò a mostrare, piuttosto, che vi è un elemento che garantisce la continuità: la verità.
Tanto la filosofia quanto la letteratura sono in stretto rapporto con la verità. Non si tratta tutto sommato di un’intuizione di per sé nuova: essa può vantare una tradizione che risale a Platone. Questi, è noto, ha una concezione dell’arte come forma di imitazione. L’arte, e perciò la letteratura, in quanto copia del vero è legata alla verità, anche se in maniera molto mediata. La filosofia ha invece per Platone un contatto diretto col vero. Perciò, in forma più o meno diretta, tanto l’arte quanto la filosofia sono in rapporto col vero.
Quello di Platone è però nel complesso un approccio metafisico. Quanto cerco di svolgere di seguito prende invece le mosse da un’immediata e più leggera constatazione del meccanismo tipico che è uno dei requisiti del valore estetico del testo letterario, cioè la sua credibilità. Il testo letterario deve essere in qualche misura veritiero. Se, per fare un esempio estremo, si volesse descrivere il processo di trasformazione di un essere umano in un insetto, lo si potrebbe fare in maniera che il lettore trovi degli elementi di verità. Certo, la cornice complessiva di una tale storia sarebbe surreale, ma se si riuscisse a rendere in maniera credibile l’itinerario psicologico del protagonista, potrebbe venirne un capolavoro. E così in effetti è stato, e Gregor Samsa, il protagonista de La metamorfosi di Kafka, esprime un vissuto di angoscia molto realistico, così da decretare il successo dell’opera del grande scrittore praghese. Il lettore vi ravvisa della verità, ed è proprio essa a rendere il testo potente, straordinario. L’irrealtà assurda della cornice è allusiva di una verità ulteriore, che si intreccia con la verità nauseante del vissuto in primo piano. Il libro acquista il proprio valore del gioco complesso di queste verità: una nascosta, assurda, torturante, l’altra manifesta, viva, coinvolgente, descritta con grande efficacia e offerta in modo asciutto, essenziale, come se dovesse essere naturale.
Si noti che il metro di valore per la letteratura è la verità, e non la verosimiglianza. Lo stesso tipo di conclusione vale per alcuni generi letterari lontani dalla pretesa realista: si pensi alla fantascienza o al genere fantastico. La fantasia e il simbolismo sono moduli che servono per giocare con la verità, celarla, svelarla, suggerendo possibilità e scenari alternativi. In ultima istanza è però sempre la verità un termine di riferimento essenziale con cui si valuta se l’opera è un capolavoro. Anche il più sconclusionato testo futurista, attraverso i suoi giochi, le sue provocazioni e le sue libertà vuole catturare un vero, esprimere un’emozione vera.
È rivelatore l’episodio in cui Arthur Danto, noto studioso di estetica e critico d’arte, si indigna col romanziere che fa risalire a un’auto una strada di New York, nota per essere a senso unico, così che la manovra comporterebbe un contromano. Danto confessa di non essere riuscito a proseguire nella lettura e spiega: “Non ci si può fidare di un uomo con una conoscenza della realtà così fiacca, visto che quando si tratta dei ben più delicati fatti psichici ci aspettiamo la verità da parte del romanziere” (A.C. Danto, La destituzione filosofica dell’arte, trad. it. di C. Barbero, a cura di T. Andina, appendice bibliografica di A. Lancieri, Aesthetica Edizioni, Palermo 2008, p. 183).
In realtà, la razionalizzazione di Danto delle ragioni della propria emozione è di aiuto, ma di per sé lascia qualcosa di non chiaro. Infatti, potrebbe essere che in un testo surreale la conoscenza della realtà sia fiacca nello scrittore. Ciò potrebbe però non costituire un problema, perché, come si è visto, l’impegno nei confronti della verità della realtà fisica, in quel contesto, non sarebbe importante.
Al contrario, in un romanzo teso a descrivere il quotidiano il lettore concede libertà alla trama, ma pretende verità nell’ambientazione. Se lo scrittore viene meno ai suoi doveri verso la verità – doveri che variano di caso in caso – l’opera perde valore, non è credibile. In fondo, anche il più disimpegnato romanzo d’intrattenimento, deve essere in qualche rispetto credibile.
Si noti che il metro di valore per la letteratura è la verità, e non la verosimiglianza. Questo secondo concetto rischia di essere fuorviante, se confuso col primo. L’opera letteraria non pretende di essere simile al vero, ma di essere vera in qualche rispetto. Se fosse solo simile sarebbe intrinsecamente falsa, una menzogna. In effetti, la tesi che la letteratura sia finzione e quindi menzogna non è nuova. E tuttavia bisogna riconoscere che per qualche aspetto quella finzione vuole o almeno deve avere qualcosa di vero da dire. Il cuore della letteratura è la trattazione di un vero che, per quanto possa essere banale, come per esempio nella letteratura d’intrattenimento, il lettore ritiene di interesse, forse persino fondamentale, comunque significativo. A partire da quello il lettore concede allo scrittore libertà su tutto il resto.
Il romanzo, dice Eco, è una macchina da interpretazioni. Che la filosofia poi abbia a che fare con la verità dovrebbe essere abbastanza evidente, nonostante i ricorrenti dubbi sorti al riguardo, soprattutto nel Novecento che in più modi ha insinuato il sospetto che non sia così. Tra i primi nomi a venire in mente al proposito vi è quello di Derrida, col suo approccio decostruzionista. Bisogna però tenere conto che, se vi è decostruzione, è perché vi è struttura, e la pratica decostruttiva, per potersi dare, presuppone un qualche ordine, come peraltro ammette lo stesso Derrida. Inoltre, come ha alla fine riconosciuto Umberto Eco, la decostruzione non può portare dappertutto: il romanzo, ad esempio, è una macchina da interpretazioni, secondo la felice definizione dello stesso Eco. Da ciò però non segue che, ad esempio, Il nome della rosa sia un elenco telefonico, o un libro di cucina. Detto altrimenti, la decostruzione come pratica di approccio al testo è vincolata a quello che Eco chiama lo “zoccolo duro dell’essere”, cioè a ciò che fin qui, in maniera dimessa e più semplicemente, ho chiamato verità.
Prendiamo ad esempio Nietzsche, ritenuto da alcuni illustri esponenti della filosofia del Novecento l’araldo del messaggio che non ci sono verità. Egli, come ha acutamente osservato Bernard Williams, non solo difende l’idea che ci siano delle verità, ma segnala anche in tutti i modi che pensava di averne dette alcune (Genealogia della verità. Storia e virtù del dire il vero, Roma 2005, pp. 22).
Insomma: la filosofia ha a che fare con la verità, anche se nei secoli questo l’ha portata, attraverso un lavorio sofferto, all’apertura dialettica, alla sensibilità ermeneutica, al pluralismo prospettico, alla prudenza fallibilista, all’ascolto dell’alterità. Tutto ciò è in qualche modo anticipatamente ricapitolato e compendiato nell’umiltà socratica del “so di non sapere”: un monito sapienziale, un programma di cautela, e non già un manifesto dello scetticismo.
Lo scetticismo, del resto, è l’esito dello spavento che il filosofo prova di fronte alla possibilità del vero.
[Leggi la prima e la seconda puntata dell’approfondimento su filosofia e letteratura.]