La metafora più usata, per indicare l’utilità delle conoscenze e delle competenze adeguate al mondo in cui si vive, è quella della “cassetta degli attrezzi”. Se ne parla anche qui, nel primo articolo del numero (Oltre la scuola: cause e conseguenze della povertà educativa, di Orazio Giancola e Luca Salmieri).
La cultura, si dice, «è un insieme di risorse che devono essere costantemente alimentate e praticate per adattarsi e rispondere alle situazioni mutevoli e complesse della realtà contemporanea».
Definizione più che mai calzante e che però ho personalmente bisogno di rendere plastica con un paragone terra terra, che attingo dal mio personale bagaglio di esperienza.
Io ho una cassetta degli attrezzi, a casa, di cui sono molto geloso. Del tipo probabilmente più diffuso, è rossa, in metallo, con apertura “a ventaglio”, manico longitudinale ripiegabile e profondi scomparti rettangolari.
Contiene attrezzi di prima qualità, che ho comprato negli anni, almeno fino a quando ho ritenuto utile e necessario tentare di sistemare in prima persona le cose.
Con quella cassetta sono stato in grado di riparare piccoli elettrodomestici e mezzi di locomozione, dalla bicicletta all’automobile, passando per un vecchio scooter.
Non ho mai pensato di aver bisogno di qualcosa di più: se hai cacciaviti, brugole, martello, pinza e chiave inglese, mi dicevo, di che altro puoi aver bisogno? Ero bravino. E me ne vantavo spesso.
Recentemente mi si è accesa una spia nell’automobile acquistata pochi anni fa, ibrida e asiatica. Ho cercato il manuale di manutenzione, ho riesumato la mia vecchia cassetta, ho aperto il cofano anteriore e, sorpresa… il motore non c’era!
O meglio, non c’era nulla che somigliasse all’idea che avevo io di un motore. Nulla che sembrasse pensato per essere smontato e manutenuto. Non da me, almeno! Non dai miei attrezzi!
Ho fatto mente locale, e mi sono reso conto di quanti anni erano passati da quando avevo utilizzato per l’ultima volta quegli strumenti ottimi e ormai inadeguati.
Il mondo mi era scivolato lentamente davanti ed era cambiato, senza che io mi preoccupassi di provare a tenere il passo. La mia cassetta era ancora quella di una volta, il contesto no.
Ne ho parlato la sera stessa con un amico e collega, mio coetaneo, col quale condividiamo spesso esperienze anagrafiche simili.
“Eh…”, ci siamo detti con nostalgia “i bei tempi in cui ti bastava lo svita-candela e un po’ di carta vetrata per risolvere il 90% dei problemi”.
Abbiamo annuito, rimpiangendo quei tempi che ci sembravano più comprensibili e quindi più umani. L’unico sollievo, abbiamo concluso, è che ci sono persone che sanno dove mettere le mani. “Ci affideremo a loro!” ci siamo detti, con forzata convinzione. “Alla fine, non è mica scritto da nessuna parte che tutti dobbiamo sapere fare tutto!”
Conclusione saggia solo in apparenza, e lo sapevamo. Stavamo ammettendo esplicitamente che c’erano ambiti della nostra vita nei quali avevamo abdicato alla nostra capacità di intervenire in prima persona. Illusi di mantenere il potere di controllo e di giudizio, sapevamo di fingere, tragicomici come quei signori hegeliani, dialetticamente condannati a essere spossessati del mondo.