Fare ricerca con i bambini: più facile a dirsi che a farsi

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Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli studi antropologici che hanno cercato di coinvolgere i bambini nella ricerca. L’idea è che per conoscerne le esperienze e i punti di vista non basti più fare domande ai genitori, ma occorra parlare direttamente con i più piccoli.

Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli studi antropologici che hanno cercato di coinvolgere i bambini nella ricerca. L’idea è che per conoscerne le esperienze e i punti di vista non basti più fare domande ai genitori, ma occorra parlare direttamente con i più piccoli.

bimbibnSi tratta di una novità relativamente recente. Per molto tempo, infatti, gli antropologi hanno considerato i bambini soggetti noiosi. Di loro nessuna traccia nelle grandi etnografie dei maestri della disciplina. Vi sono certo alcune eccezioni. Margaret Mead aveva 23 anni quando lasciò gli Stati Uniti per andare a Samoa con l’intento di realizzare uno “studio psicologico della gioventù primitiva”. Qualche anno dopo, negli anni Cinquanta, la coppia di antropologi John e Beatrice Whiting avviò “Six Cultures Study of Socialization“, un progetto di ricerca che si proponeva di studiare i bambini in sei diverse società: Messico, India, Kenya, Okinawa, Filippine e Stati Uniti. Per quanto importanti, si tratta di lavori fatti sui bambini e non con i bambini. Forte era la convinzione che i dati ottenuti dai minori fossero inaffidabili poiché provenienti da soggetti immaturi, mancanti delle capacità verbali e concettuali per comunicare le loro esperienze e, cosa più importante, suggestionabili e incapaci di distinguere tra fantasia e realtà.
L’antropologa Alma Gottlieb ha fornito spiegazioni più concrete ma altrettanto valide dell’invisibilità dei bambini nelle scienze sociali: anche se tutti gli adulti, inclusi i ricercatori, sono stati bambini, ben pochi conservano un lucido ricordo della propria infanzia. Questo li rende indifferenti a una fase della vita che considerano tutto sommato remota. Inoltre, sottolinea la studiosa, all’inizio del loro lavoro di campo quasi tutti gli antropologi sono relativamente giovani, e dunque non ancora genitori. Questo li rende inconsapevoli delle sfide emotive, mediche, pratiche, ma anche teoriche che i bambini pongono.
A partire dagli anni Ottanta sia le scienze sociali che l’opinione pubblica hanno iniziato a pensare ai bambini come soggetti attivi di diritti e autori del proprio destino. Di qui l’esigenza di trattarli anche nella ricerca come interlocutori competenti e affidabili, alla stregua degli adulti. Due sono i punti di svolta dell’evoluzione che segna il passaggio da una ricerca “sui” bambini a una ricerca “con” i bambini: la Convenzione ONU del 1989 e la sociologia dell’infanzia inglese, che proprio intorno agli anni Novanta ha cominciato a elaborare una nuova riflessione sul modo di concepire e studiare l’infanzia.
Per promuovere e favorire la pratica dell’ascolto e la partecipazione dei bambini sono state sperimentate a partire dagli anni Duemila nuove tecniche e metodi di indagine che, accanto all’osservazione e all’intervista, utilizzano strumenti di ricerca piacevoli come il disegno, la fotografia e la videoregistrazione.
Nonostante le buone intenzioni, tuttavia, questi approcci si scontrano con alcuni problemi etici. Tre, in particolare, sono le questioni fondamentali: le relazioni di potere fra adulti e bambini, il consenso informato e la riservatezza. In primo luogo va riconosciuto il dato di fatto che l’asimmetria fra adulti e minori, tipica della maggior parte delle società, è duplicata nel processo di ricerca. Occorre chiedersi, ad esempio, quanto i bambini siano liberi di rifiutarsi di partecipare a uno studio, di ritirarsi durante la ricerca o anche di esprimere il proprio parere e le proprie esperienze ai ricercatori adulti. Un problema particolarmente spinoso nelle ricerche che coinvolgono i bambini più vulnerabili, ad esempio i bambini disabili o i “bambini di strada”. Nella maggior parte degli studi che coinvolgono interlocutori al di sotto dei 16 anni i genitori o gli altri adulti agiscono come garanti nel dare il consenso alla partecipazione dei minori allo studio. Quasi sempre i grandi agiscono come protettori di coloro di cui hanno la tutela legale, ma vi è anche la possibilità che neghino ai bambini le opportunità di partecipare a una ricerca o, al contrario che li costringano a farlo. Non è poi da escludersi l’eventualità che i bambini subiscano un danno dalla partecipazione alla ricerca sperimentando diversi generi di conflitti: sensi di colpa, minacce per l’autostima, paura di fallimento, imbarazzo.Vi è in secondo luogo la questione spinosa del consenso informato, un principio che in genere si basa su tre assunti: che i potenziali partecipanti ricevano informazioni che possono comprendere, che il permesso sia dato volontariamente e che l’interlocutore abbia la capacità di dare il suo consenso. Problemi particolarmente scottanti nella ricerca con i bambini. Se è vero che è stata da tempo riconosciuta la necessità di sviluppare le informazioni a misura dei più piccoli, rimane il fatto che spiegare loro cosa significhi partecipare a una  ricerca e che la loro partecipazione può non avere alcun beneficio immediato per la loro vita rimane un’impresa piuttosto complicata. Nel Regno Unito i ricercatori sono soliti basarsi sulle decisioni dei giudici emesse a proposito dell’assistenza sanitaria e sociale verso i minori, che hanno stabilito il criterio per cui sotto i sedici anni non è possibile che i soggetti diano in maniera stabile e definitiva il proprio consenso. Questo si traduce, in concreto, nel fatto che gli studiosi di area anglosassone debbano valutare di volta in volta le competenza dei singoli bambini e si impegnino a controllarne continuamente il desiderio di partecipare allo studio.
Anche la riservatezza è considerata una questione problematica, soprattutto nel caso di ricerche fatte in contesti familiari, nei quali anche questioni banali e logistiche possono costituire una fonte di dilemmi metodologici: ottenere ad esempio uno spazio separato dal salotto di casa, o dallo spazio comune, per parlare con i bambini senza che i genitori ascoltino la conversazione in atto è cosa nient’affatto scontata. Può essere che la famiglia viva in situazioni anguste o che alcune famiglie non vedano i bambini come soggetti bisognosi di privacy. Ma vi è anche il rischio che i piccoli interlocutori possano divulgare informazioni delicate, che suggeriscono che loro stessi o altri minori siano “a rischio”. Molti esperti ritengono che in questo caso la completa riservatezza non debba essere garantita e che i ricercatori abbiano il dovere di trasmettere tali informazioni a chi ha il compito di tutelare i bambini.

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