Etimologia delle passioni

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“Quando diciamo amore non sospettiamo il basilare riferimento all’allattamento che la parola cela nelle sue origini; quando diciamo invidia eludiamo il riferimento all’occhio maligno che il termine possiede nei suoi ancestrali inizi”.

 

Questa citazione è tratta da Etimologia delle passioni, della psicanalista argentina Ivonne Bordelois (Apogeo, 2007), un piccolo, prezioso libretto che si propone “di curare la stessa parola con cui cerchiamo di curare”: prendendosene cura, esaminandone svolte e botole, ambivalenze, significati nascosti nel tempo. Scopriamo così che “molte parole hanno in principio significati nascosti e contraddittori rispetto ai significati sociali attuali. Dunque, ogni parola trattiene, in strati successivi, parte della storia dell’uomo e della sua coscienza, e ricostruire significati lungo questo percorso vuol dire chiarire i nostri legami con il passato e, allo stesso tempo, con il presente e il futuro”.

Il volume ripercorre la storia delle parole con cui diamo un nome alla passione prima (amore), alle altre passioni “chiare” (allegria, felicità, speranza) e alle passioni “oscure” (cupidigia, avarizia, invidia, gelosia, tristezza): prestando ascolto al linguaggio, ricostruendo le comuni radici indoeuropee delle parole della passione (leubh-: amare; od-: odiare; *eis: sacro, veloce, ispirato, collerico e sessuale; ecc.), ridando vita a metafore ormai spente , facendo dell’etimologia una nuova ermeneutica.

Alle passioni tristi (o, per meglio dire, triste), e più in particolare ai biblici “7 vizi capitali”, sono dedicati alcuni volumetti della serie omonima diretta da Carlo Galli per il Mulino (Superbia. La passione dell’essere di Laura  Bazzigalupo; Gola. La passione dell’ingordigia, di Francesca Rigotti; Accidia. La passione dell’indifferenza di Sergio Benvenuto; Lussuria. La passione della conoscenza di Giulio Giorello; Ira. La passione furente di Remo Bodei; Invidia. La passione triste di Elena Pulcini): tutti, inevitabilmente, si confrontano con l’etimo della parola (e quindi della passione) in gioco.

Mi soffermerò perciò sulla storia di una parola non analizzata in questi testi: tradire. Per ricostruire il significato originario di una parola (il punto di partenza, spesso sorprendente, su cui si sono innestati i successivi significati) disponiamo di strumenti come i dizionari etimologici. Tra quelli liberamente consultabili online c’è il Vocabolario etimologico della lingua italiana di Ottorino Pianigiani, pubblicato  per la prima volta nel 1907 in due volumi ( Albrighi & Segati), seguìto nel 1926 da un volume di Aggiunte, correzioni e variazioni (Ariani), e poi ripubblicato più volte fino agli anni ’90 del secolo scorso. Un dizionario ormai “d’epoca”, con un lemmario e una documentazione non confrontabili con quelli del Nuovo Etimologico (DELI – Dizionario Etimologico della lingua italiana, a cura di Manlio Cortelazzo e Michele A. Cortelazzo, seconda edizione, 1999, Zanichelli), ma ancora valido e affidabile.

Il verbo italiano tradire viene dal latino tradĕre (composto di tra- “oltre” e dăre “dare”), che voleva dire propriamente “consegnare, affidare, trasmettere”. Da questo significato originario è derivato il termine tradizione, che indica appunto una trasmissione di conoscenze, sentimenti, valori. In un’accezione più specifica, il verbo latino poteva significare “consegnare al nemico” (la bandiera, una fortezza, una persona o altro che si sarebbe dovuto difendere), e di conseguenza “ingannare”. Questa accezione si è sviluppata nel latino cristiano, a partire dall’interpretazione dell’atto di Giuda (la consegna di Gesù alle guardie) come tradimento verso una figura che simboleggia amore, e quindi come “tradimento d’amore”. Interpretazione che si è conservata fino a noi, che identifichiamo il tradimento con l’adulterio (o, più in generale, con l’infedeltà amorosa), sebbene il gesto di Giuda possa essere e sia stato interpretato anche in modo opposto, quale gesto d’amore che permette il compiersi del destino del figlio di Dio (come nel romanzo La gloria di Giuseppe Berto); rovesciando la prospettiva, del resto, si potrebbe riconoscere in Giuda non il traditore, ma il tradito (da un Cristo incapace di adempiere a quel ruolo politico che molti si aspettavano da lui).

La ricostruzione etimologica ci aiuta a riconoscere aspetti meno consueti della fedeltà e del tradimento, che la letteratura – e in particolare il genere romanzo a partire dal XIX secolo – si è incaricata di esplorare: tradire non vuol dire sempre negare all’altro la conoscenza della verità, ma può rappresentare anzi lo strumento per acquistare e far acquisire consapevolezza di sé, assumendosi la responsabilità di libertà che richiedono fatica etica ed emotiva, e che possono generare sofferenza. In Madame Bovary di Gustave Flaubert, come in Anna Karenina di Lev Tolstoj, il tradimento diventa la chiave di volta di una drammatica ricerca di autenticità e di piena realizzazione che riguarda soprattutto i personaggi femminili, in un’epoca in cui il matrimonio era in primo luogo un contratto sociale e non l’esito di una passione autentica, e la fedeltà era imposta alle donne (oltre che dagli imperativi della religione e da un diritto di famiglia che equiparava il rapporto marito-moglie a quello padrone-servo) da un canone letterario che, partendo da Ulisse e passando per la lirica cortese, riservava agli uomini i piaceri dell’avventura amorosa.

Ma l’etimologia si rivela acuta e illuminante anche se applicata ai romanzi contemporanei, popolati di personaggi femminili che, pur avendo potuto – per storia sociale e letteraria – scegliere liberamente e consapevolmente relazioni autentiche (ma anche le scelte libere – come la psicanalisi insegna – possono essere condizionate da aspettative, ambizioni, proiezioni), a un certo punto sentono l’esigenza di consegnarsi a un “nemico” per non tradire sé stesse, per ritrovarsi dopo essersi perse di vista. Perché “nella nostra vita personale, i grandi mutamenti e gli avvenimenti decisivi sono segnati anche da questa forza di schiacciante intensità in grado di guidarci tanto alla felicità quanto alla rovina” (Bordelois, cit.): la passione, appunto, senza la quale “nulla di importante si realizza nella storia” (Hegel), senza la quale “l’arte e il romanzo non esisterebbero” (Balzac).

Buon anno nuovo pieno di passioni (chiare e oscure, tristi e allegre) alle lettrici e ai lettori della Ricerca.

p.s.: “Chiamate lingue morte le lingue dei greci e dei latini. Da esse, però, si origina ciò che nelle nostre sopravvive” (Schiller).

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Cristiana De Santis

Ricercatrice di Linguistica italiana presso l’Università di Bologna (sede di Forlì). È coautrice della grammatica Sistema e testo (Loescher, 2011).

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