Esilio e scrittura: un legame da sempre fecondo

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L’ultimo libro di Silvia Tatti, “Esuli: scrittori e scrittrici dall’antichità a oggi”, offre un’estesa ricognizione della restituzione letteraria dell’esperienza dell’esilio, tema di urgente attualità. Una recensione.

 

 

1. Vite in esilio: indagare il passato per capire il presente

Nei testi autobiografici il passaggio della frontiera significa uscire da un orizzonte noto per approdare verso l’ignoto; è un passaggio epocale perché comporta il fatto di entrare in uno spazio indeterminato, dove si diventa stranieri, se non lo si è già in patria, e dove l’individuo si confronta con un orizzonte sconosciuto. È qui che la scrittura diventa centrale, come momento di elaborazione dell’esperienza, espressione di un disagio e costruzione di nuovi riferimenti.[1]

Il tema affrontato da questo libro è di urgente attualità e si iscrive nel novero delle questioni ineludibili che l’umanità globalizzata deve affrontare. La citazione in esergo corrisponde al taglio dello studio, che tratta la restituzione letteraria dell’esperienza dell’esilio, dimostrando, attraverso una ricognizione estesa nel tempo e nello spazio, le ragioni che rendono indispensabile il ricorso alla letteratura per tentare di comprendere un fenomeno che oggi viene affrontato come un problema economico, politico, sociale, umanitario (quando c’è una particolare sensibilità), mentre non manca di importanti risvolti culturali, antropologici, psicologici.

Il primo merito che voglio sottolineare di questo saggio è che documenta come l’esilio non sia un fenomeno solo contemporaneo né degli anni recenti: sembra ovvio, ma è utile ricordarlo anche nel dibattito pubblico, nel quale spesso si affrontano le emergenze migratorie come una novità del mondo attuale, dimenticando che l’umanità in una certa misura è sempre stata nomade. L’esilio non coincide de plano con la migrazione, ma ne è una manifestazione importante.

2. Raccontare l’esilio: la costruzione di un linguaggio e di un immaginario

Partendo dall’antichità, classica e biblica, e sviluppando un percorso storico che giunge fino a oggi, Tatti in primo luogo mette a fuoco la costruzione di un linguaggio capace di narrare l’esperienza dell’esilio: al di là dei tòpoi narrativi tradizionali, il racconto dell’esilio, che si tratti dell’esodo biblico, dei tragici greci, di Ovidio o Seneca, da sempre ha dovuto far ricorso a modalità narrative specifiche, in grado di trasmettere la peculiarità di un processo articolato, di un’esperienza umana che si sviluppa attraverso dei passaggi ricorrenti, ma possiede anche dei tratti di singolarità irripetibile.

Risulta evidente che, sin dall’epoca antica, è forte il nesso tra esilio e scrittura: la scrittura si configura come approdo consolatorio, canale per mantenere vive le relazioni fisicamente interrotte, ma anche strumento di una rielaborazione dell’esperienza che, quando l’esilio arriva come esito di un conflitto politico, permette a chi ne è vittima di argomentare le proprie ragioni e dare un senso alla sventura.

Non è irrilevante, inoltre, la configurazione di esperienza di formazione che l’esilio può assumere, intrecciandosi spesso con una responsabilità collettiva che trova la sua ragione in una dimensione di lunga durata: esemplare tra tutti il destino di Enea.

Se in alcuni casi l’esilio ripercorre i tòpoi tipici del racconto di viaggio (allontanamento e perdita, ma anche scoperta e rifondazione) in altri l’esilio già nell’antichità possiede le caratteristiche moderne di una vicenda cui è impossibile attribuire un senso: la scrittura diventa così veicolo prezioso di «recupero di identità e costruzione di una propria storia alternativa a quella pubblica cancellata dagli avvenimenti»[2]; ed è questo il caso di Ovidio.

Dopo il capitolo sugli antichi, un posto a sé merita l’esilio dantesco, che Tatti colloca «al centro del paradigma», nella misura in cui nell’esperienza di Dante exul immeritus si condensano tutti i tratti già consolidati dalla tradizione, si apre la strada per la costruzione possente della Commedia, e si eleva infine l’esperienza contingente a un valore emblematico capace di rappresentare nella sua interezza ogni aspetto della vita umana, anche in chiave escatologica.

Il lungo tracciato che va dal Rinascimento al Risorgimento vede configurarsi molteplici tipologie di esilio, e di scritture dell’esilio. Se nel Rinascimento l’esilio si coniuga con una ricerca personale di acquisizione di sapere e consapevolezza, non di rado anche in relazione a un approfondimento della conoscenza dei classici, nel periodo del Risorgimento «in Italia l’esilio diventa “un’istituzione”»[3], a partire dalla vicenda emblematica del Foscolo. La militanza politica degli esuli assume significato in relazione al processo risorgimentale, e favorisce altresì la conoscenza della cultura italiana all’estero. L’autrice esamina i singoli, numerosi, casi, individuando le peculiarità specifiche di ognuno. Un’attenzione particolare va, come detto, a Foscolo, che dà all’esilio un senso attivamente politico, e una trasfigurazione letteraria che si compie anche attraverso una riattivazione del rapporto con la tradizione, con Dante in primo luogo. La ricognizione è puntuale e, pur nella sintesi, rende ragione del quadro articolato e vivace del panorama intellettuale italiano dell’Ottocento, che spesso trova negli scritti degli esuli la definizione identitaria che darà alimento alla ricostruzione politico-letteraria di De Sanctis.

Oltre alla indagine storica, il saggio mette a fuoco alcuni nodi linguistici e tematici specificamente legati alla scrittura dell’esilio. La rilevanza della costruzione linguistica viene approfondita nel capitolo Per un vocabolario minimo dell’esilio letterario, nel quale l’autrice individua alcune costanti espressive e tematiche che travalicano i confini e le differenze linguistiche, e si ripropongono i contesti anche storicamente lontani. L’esplorazione è ampia e, non prescindendo anche qua dall’indispensabile osservazione dei classici, giunge a focalizzare contesti caldi della storia del Novecento, ancora oggi nodi irrisolti: un esempio che vale per tutti è quello della diaspora palestinese, che ha prodotto opere letterarie di grande interesse e di intensa forza drammatica.

 

 

3. L’esilio da parte delle donne

Un capitolo è dedicato alla scrittura femminile: in esso Tatti individua (ancora con dovizia di esemplificazioni) le peculiarità distintive dell’esperienza e della scrittura da parte femminile. Nel Novecento, che ha visto l’affermazione piena della donna sulla scena letteraria, si è venuta strutturando anche una scrittura dell’esilio tipicamente femminile, sorta talvolta dalla coincidenza dell’emigrazione con la conquista di una autonomia sociale, talvolta invece dalla sovrapposizione dell’allontanamento dalla propria terra con una condizione di sradicamento profondo, che proprio grazie all’esilio è arrivata a consapevolezza e ha conquistato la parola. Negli interstizi tra una dimensione esistenziale di instabilità e la maturazione di una propria autonomia mi pare che l’autrice abbia colto tutta la complessità della scrittura femminile, cui l’esperienza migratoria ha conferito impulso:

Tale richiamo a una condizione che rende le scrittrici virtualmente, almeno sul piano professionale, più slegate da un’appartenenza e da vincoli identitari, contraddistingue spesso la scrittura femminile, in cui è più l’identità di scrittrice che non quella etnica e politica che può conferire alle donne, anche fuori dalla patria, un sentimento di appartenenza linguistica e culturale. D’altro canto la dimensione di estraneità nella scrittura femminile può anche prescindere da uno sradicamento effettivo e si lega alla fragilità identitaria della donna: l’esilio può essere vissuto come il sentimento generale di non sentirsi a casa che può colpire anche oltre il problema dell’estraneità territoriale e riguardare le difficili situazioni consuete dell’esistenza femminile.[4]

Per completezza, va detto che il capitolo dedicato alle scritture femminili non è limitato al Novecento, ma prende in considerazione anche alcuni importanti precedenti, il più interessante dei quali è forse quello di Cristina Trivulzio di Belgiojoso, che, a metà dell’Ottocento, scrivendo dalla Turchia, osserva con acume critico la vita delle donne e mostra una consapevolezza politica e civile che anticipa per certi versi la decostruzione degli stereotipi che si trova in alcune delle più vigili scrittrici migranti dei nostri giorni.

4. Scenari attuali e prospettive future

Il libro si chiude con il paragrafo Le scritture dell’esilio oggi, che, fotografando la situazione magmatica e in evoluzione nella quale ci troviamo, dà a questo studio il carattere di opera aperta, che fornisce gli strumenti storici e critici per leggere le contraddizioni del presente.

In ragione di questa impostazione scientifica problematica, che vede combinarsi felicemente una ricchissima e puntuale raccolta di informazioni con una scrittura lontana da ogni virtuosismo accademico, questo libro si presenta anche come un utilissimo strumento didattico per gli insegnanti: il contributo che fornisce consiste nella mediazione tra una riattivazione critica della tradizione e gli interrogativi del mondo che ci circonda. Se è vero (ed è vero!) che «nulla di sé e del mondo sa la generalità degli uomini, se la letteratura non glielo apprende»[5], questo libro dimostra quanto la letteratura sia indispensabile per addentrarsi nella comprensione dell’esperienza umana. Ma non solo: come insegna Tacito, il passato si affida alla pagina scritta perché si possa costruire un futuro[6]; la scrittura dell’esilio, collocandosi nei luoghi di confine, “tra” mondi, è una scrittura feconda, capace di alimentare la creatività e strumento di riconoscimento dell’alterità come valore.


Note

[1] S. Tatti, Esuli: scrittori e scrittrici dall’antichità a oggi, Carocci, Roma 2021, p. 96.

[2] Ivi, p. 39

[3] Ivi, p. 63.

[4] Ivi, p. 118.

[5] L. Sciascia, La strega e il capitano, Adelphi, Milano 2019, p. 16.

[6] Nel proemio delle Historiae alla scrittura dello storico è affidata la cura posteritatis: sterile è la indagine del passato se non guarda al futuro; parimenti nessuna convivenza civile e inclusiva si può costruire senza un radicamento storico.

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Lucia Olini

Insegna Lettere al liceo scientifico “A. Messedaglia” di Verona, Scuola Amica de La ricerca. Si occupa di didattica dell’italiano e del latino e da anni è impegnata nella formazione dei docenti. Suoi interventi e percorsi didattici sono reperibili sia in rete che su pubblicazioni cartacee. Dal 2014 è vicepresidente del’ADI-sd (Associazione degli Italianisti – sezione didattica).

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