Esame di Stato

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Ci siamo. Sebbene – anno dopo anno – stiano facendo di tutto per rimuovere dal nostalgico immaginario di ciascuno di noi l’idea che l’esame di Stato (un tempo “maturità”) rappresenti un passaggio importante nella vita di ciascuno, e per far sì che i nostri studenti arrivino sempre più demotivati o stanchi alla prova, l’imminenza degli esami evidenzia che il momento della conclusione del ciclo di studi superiori evoca per molti ancora una certa solennità.

 

Quest’anno è stata davvero dura. Da mercoledì tanti studenti affronteranno l’esame con un accesso all’università già acquisito, attraverso i test d’ingresso che si sono celebrati in primavera. La condizione in cui siamo posti noi insegnanti (commissari interni, esterni o presidenti) da un’amministrazione per certi versi schizofrenica è paradossale. Da una parte garanti della legittimità di un titolo di studio che ha ancora – e si spera a lungo – valore legale; dall’altra chiamati a valutare una prestazione che solo formalmente è propedeutica all’accesso all’università; la cui necessità è stata scavalcata dall’anticipazione dei test che non solo ha reso particolarmente difficoltoso lo svolgimento dell’anno scolastico (considerata la concentrazione degli studenti sullo svolgimento dei test piuttosto che sulle discipline scolastiche); ma ha aperto una serie di punti interrogativi di cui tra pochi giorni comprenderemo la portata. Saremo capaci, eventualmente, di respingere uno studente con l’ammissione già in tasca? Saremo in grado di contrastare la potenziale ondata di ricorsi che la paradossale situazione che ci è stata imposta potrebbe portare con sé, proprio mentre la stampa ci informa che il ricorso al tribunale amministrativo è sempre più frequente per problematiche legate a questioni scolastiche?

Numerosi i punti di vista a favore del mantenimento del valore legale del titolo di studio, al contempo avversato da molti. La posizione “pro” si basa su due «pilastri»: l’ordinamento didattico nazionale (che fissa le caratteristiche generali dei corsi di studio e dei titoli rilasciati) e l’esame di Stato (che ha la funzione di accertare – nell’interesse pubblico generale – il possesso di specifiche competenze e conoscenze).

È evidente che, sopprimendo questa forte componente “pubblica”, verrebbero meno requisiti sostanziali del sistema dell’istruzione sancito dalla Costituzione. Si dovrebbe eludere il dl 206/07, che recepisce alcune direttive comunitarie secondo le quali i paesi membri dell’UE sono tenuti a riconoscere il valore legale di titoli e qualifiche di ciascun altro paese. Si registrerebbe una riduzione della partecipazione al processo formativo e una devastazione della scuola come luogo di formazione di cittadini. Verrebbero soppresse garanzie nell’accesso al lavoro. Ma soprattutto – nel vento di privatizzazione che attraversa il nostro Paese – si darebbe una spallata definitiva al concetto di scuola dello Stato penalizzando, ancora una volta, le fasce più deboli della popolazione, alle quali riservare scuole di serie B, C, D…

Adesso pensiamo a loro, a quel circa mezzo milione di ragazze e ragazzi che da mercoledì inizieranno ad affrontare la sequenza di prove: prima, seconda, terza prova (il “quizzone”) e poi l’orale relativamente alle discipline rappresentate da docenti interni ed esterni. In bocca al lupo a tutti; in particolare, a coloro che hanno saputo cogliere l’opportunità di crescere a scuola, come individui e come cittadini.

E ora qualche riflessione. Dalla legge 425/97 (ministro Berlinguer) che riformò l’esame di maturità, da allora Esame di Stato, (verifica e certificazione delle conoscenze, competenze e capacità; 3 prove scritte, di cui la terza predisposta dalla Commissione e colloquio su tutte le discipline dell’ultimo anno; introduzione del credito scolastico e del credito formativo; commissione composta da 6 o 8 commissari, di cui metà interni e metà esterni, più il Presidente esterno all’Istituto; votazione espressa in centesimi: 45 punti alle prove scritte, 35 al colloquio orale, e 20 punti al credito scolastico; valorizzazione della lingua straniera; valorizzazione del Novecento), sono intervenuti alcuni cambiamenti. Legge 28 dicembre 2001, n. 448 (Moratti): Commissioni costituite da soli membri interni e da un Presidente esterno nominato per tutte le Commissioni operanti in ciascun istituto; legge 11 gennaio 2007, n. 1 (Fioroni): Ritorno alle Commissioni miste, reintroduzione dell’ammissione all’esame, credito scolastico da 20 a 25 punti, da 35 a 30 punti per il colloquio; DPR 22 giugno 2009, n. 122 (Gelmini): l’ammissione all’esame è vincolata all’aver riportato un voto almeno pari al sei in tutte le discipline, non basta più la semplice media sufficiente. Si prevede, per privatisti, un esame di ammissione all’Esame di Stato; nell’anno scolastico 2011/2012 (Profumo) viene attuato il DPR 23 luglio 1998 n. 323 che prevede l’invio alle commissioni d’esame delle tracce delle prove scritte per via telematica, attraverso un sistema criptato a doppia chiave.

La cosa francamente più sorprendente in questa messe di modifiche e di contributi è che nessuno abbia mai pensato a riformare in maniera sostanziale (e parlo da insegnante di liceo classico) la prima prova, quella di Italiano: l’espressione più pura di un’idea di cultura elitaria e non emancipante, che proietta – e vedremo perché – limpidamente l’idea di una società in cui chi ne ha le possibilità (per diritto di nascita) può ulteriormente raffinarsi attraverso la cultura; gli altri – che non hanno avuto le medesime chance – possono/devono continuare a praticare le strade cui sono destinati. Cosa intendo dire? Per come è congegnata, la prima prova di italiano sottolinea (su una disciplina trasversale e fondamentale per la cittadinanza) il divario di approccio allo studio che si determina tra liceo e istruzione tecnico professionale: il sapere e il saper fare (e del resto i rispettivi regolamenti della “riforma” Gelmini parlavano di sapere per l’istruzione liceale; di saper fare per gli altri). Sia per ciò che riguarda la tipologia A (analisi del testo) che la tipologia B (saggio breve) che la C (tema di storia).

Io stessa, come moltissimi insegnanti di liceo – e, di conseguenza, opinionisti, commentatori, docenti universitari, che hanno frequentato quel corso di studi – incorro spesso in un errore di prospettiva: la scuola presso la quale insegno è La Scuola. In molti, insomma, dimentichiamo che il sistema dell’istruzione di II grado prevede anche possibilità alternative al liceo. Possibilità che – nel corso degli ultimi anni, anche grazie a una politica di marginalizzazione e disinvestimento – sono state di fatto ghettizzate e accreditate in un ruolo subalterno.

Complessivamente risulta iscritto all’istruzione tecnica e professionale circa un milione e mezzo di alunni, quasi la maggioranza nella scuola secondaria di II grado. Una quantità enorme, che rappresenta la scelta obbligata della parte più debole della nostra società: quella che – dotata di scarse risorse economiche e culturali e spesso in posizione di marginalità (gli istituti professionali sono la meta di una percentuale rilevantissima di diversamente abili e di migranti) – quando sceglie di continuare la scuola si affida a quella considerata (spesso erroneamente) più facile, quella professionalizzante, nella quale per vocazione il “sapere” è sostituito dal “saper fare”. Quanti figli di vostri amici conoscete – voi che vi accostate a una rivista raffinata come ”La Ricerca”– frequentano o hanno frequentato il professionale? Pochi, immagino. Ebbene, a questi studenti – esattamente come a quelli del classico e degli altri licei – in un’ambigua rivisitazione del principio di uguaglianza (che, ad onta di Lorenzo Milani, fa parti uguali tra diversi) viene impartita la stessa prova di Italiano.

Si comincia con la tipologia A: l’analisi di un testo – generalmente letterario – difficilmente affrontabile da chi non abbia frequentato il liceo. I miei studenti ora ai blocchi di partenza hanno studiato per 4 ore settimanali e per 3 anni la storia della letteratura, divagando – attraverso richiami critici, rapporti intertestuali, analisi tecniche diacroniche e sincroniche, contestualizzazioni operate con l’apporto della storia dell’arte e della filosofia  e molto altro – la letteratura dalla scuola siciliana al Gruppo ’63. L’ultima lirica che abbiamo letto è Questo è il gatto con gli stivali di Edoardo Sanguineti e alcune poesie di Amelia Rosselli. Abbiamo riflettuto sui nuclei concettuali fondativi e sul loro rapporto con il tempo e con lo spazio; abbiamo attinto a piene mani dalle letterature straniere; abbiamo indagato la sociologia della letteratura, individuato l’orizzonte di attesa del lettore, riflettuto sui mezzi di comunicazione e sul rapporto tra mercato e produzione letteraria. È questo ciò che i colleghi degli istituti tecnici possono/devono fare con i propri studenti? Esistono prerequisiti e condizioni perché ciò accada? La domanda è evidentemente retorica.

Il corredo di quesiti “tecnici” inseriti nella prova (dalla metrica, alla retorica, alla contestualizzazione del brano nell’ambito della poetica dello stesso autore o nel raffronto con altri autori, italiani e stranieri) non è approcciabile con armi pari. Il fatto di aver incontrato o meno nel proprio percorso di studi la Filosofia e, in molti casi, le lingue antiche e la storia dell’arte, è un elemento di differenziazione troppo importante. Che senso ha proporre identicamente Dante Alighieri (selezionato ben due volte), Saba, Montale, Ungaretti, Pavese agli studenti di tutti i corsi di studio? E persino un brano intelligente e capace di stimolare riflessioni in varie direzioni – quale il testo di Magris sul viaggio e sulla frontiera, uscito lo scorso anno – non può essere affrontato con la stessa consapevolezza da uno studente di liceo rispetto a uno del professionale (le competenze e conoscenze a disposizione sono troppo differenti).

Un altro problema è poi rappresentato dalla “retorica” del ‘900. Pochi sono i docenti, anche e soprattutto liceali, che abbiano avuto l’energia e il desiderio di risvegliarsi dal torpore tranquillizzante della logica del “programma”, affrontando tagli sensati e inserimenti provvidenziali nell’ambito della scansione dei tradizionali contenuti di storia della letteratura italiana nel triennio. La maggior parte dei “programmi” di Italiano si ferma a Montale e Ungaretti che, ricordo, hanno scritto le loro prime raccolte ormai quasi 100 anni fa. Ha senso indugiare per mesi e mesi sui secoli passati e non insistere profondamente e criticamente su quello appena trascorso, che indubbiamente offre chiavi di lettura e sollecitazioni molto più spendibili nell’interpretazione dell’oggi e nella determinazione del domani? Intendiamoci: non sto liquidando (me ne guardo bene!) la tradizione letteraria del nostro Paese; sto semmai suggerendo di assumere a piena dignità e diritto di esistenza e approfondimento autori come Pavese, Gadda, Pasolini e Calvino; poeti come Luzi, Sanguineti, Caproni, Fortini; di esaltarne la significatività rispetto al primo mandato che la scuola ha: licenziare cittadini consapevoli.

La seconda tipologia della prova di Italiano continua a presentare un livello di difficoltà notevolissimo: si propone la trattazione di un argomento in forma di saggio breve o di articolo di giornale, in diversi ambiti (artistico letterario; socio-economico; storico-politico; scientifico tecnologico). Attraverso l’ausilio di documenti allegati alla traccia, lo studente deve produrre un proprio testo autonomo, originale, coerente con la tipologia scelta, rispettandone le regole. Un genere testuale così complesso di per sé richiede competenze di scrittura che – se non vengono praticate, curate, nutrite – rischiano di trasformare la prova in un esercizio di sinossi dei testi proposti. Quando poi i testi sono difficilmente comprensibili o scarsamente praticati nella didattica quotidiana dell’istruzione non liceale, si rischia di trasformare la prova in una frustrante constatazione di inadeguatezza. Per non parlare del fatto che sarebbe interessante, a parti invertite, provare noi insegnanti a cimentarci con quelle prove «per vedere» – come cantava Enzo Jannacci – «di nascosto l’effetto che fa».

Più in generale: fa riflettere quanto evidenze statistiche, numeri, convinzioni, pregiudizi nulla possano rispetto all’immobilità di un protocollo (la celebrazione rituale dell’uscita dal sistema scolastico), che si reitera negli anni e che ogni volta ripete se stesso, senza mai voler raccogliere davvero le osservazioni, le critiche, i suggerimenti che provengono da dentro e fuori la scuola. Voglio dire: ci interessa che la scuola licenzi cittadini con un bagaglio affidabile e considerevole di competenze da spendere nella vita e nel lavoro, e dunque improntare didattica e consequenziali prove su quest’obiettivo? O piuttosto desideriamo che si perpetui l’omeostasi della scuola, nonostante i risultati poco incoraggianti e le evidenti criticità?

È fondamentale che studenti che abbiano compiuto un certo tipo di studi siano in grado di svolgere dignitosamente un’analisi del testo. Che sappiano padroneggiare strumenti, conoscenze e competenze che sono stati loro impartiti, suggeriti, alimentati per almeno 5 anni. Non altrettanto che la debbano sapere fare studenti che hanno praticato altri percorsi. È molto importante che alunni liceali sappiano affrontare – al di là della complessissima, come si diceva, tipologia testuale – un saggio breve in ambito artistico letterario. Ma perché dovrebbero saperlo fare ragazzi che con l’arte, la letteratura e la filosofia hanno avuto rapporti limitati o nulli? La complessificazione della storia, la critica storica, la storiografia (così come sono suggerite dalle tracce spesso molto articolate dei temi storici) è qualcosa che possono approcciare allo stesso modo, con armi pari e pari consapevolezza tutti gli studenti, a prescindere dal corso di studi che abbiano seguito? Tradotto in altri termini, vuol dire che la prova di Italiano – identica per tutti – pone una parte della popolazione scolastica a poter scegliere opportunità molto inferiori rispetto a quelle cui possono rivolgersi gli altri. Non è giusto.

Ci troviamo insomma e ancora una volta davanti a una situazione in cui l’inamovibilità di certi assunti viene proposta come soluzione al problema: sono gli studenti a doversi adeguare al livello delle prove; non i decisori a dover, viceversa, concepire e realizzare strategie e modalità che consentano di saggiare livelli di competenza senza imporre la frustrazione di prove al di là di ciò che la scuola fa e oltre ciò che essa può fare. Prima ancora: è del tutto negata (ferma restando la necessità che gli studenti maturino strategie culturali, attitudine alla ricerca, senso critico, conoscenze e competenze di livello altro) la necessità prioritaria di una revisione della scuola e della didattica – una vera “riforma”, finalmente, dopo tanti interventi chiamati così, ma svincolati da qualsiasi impianto pedagogico e impatto formativo! – che consenta di rivedere anche strategie di insegnamento e modalità di valutazione, troppo spesso a loro volta velleitarie, inadeguate, anacronistiche.

E intanto, ancora una volta, il tema cui maggiormente attingeranno gli studenti del professionale è il tema generale, refugium peccatorum. Rifugio per coloro ai quali, di fatto, vengono precluse – grazie a un egualitarismo solo di maniera – aprioristicamente alcune scelte di trattazione. Leggere, scrivere e far di conto non sono diritti garantiti allo stesso modo, né competenze da assicurare ugualmente a tutti i cittadini italiani.

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Marina Boscaino

Docente di italiano e latino in un liceo classico di Roma, blogger del Fatto Quotidiano e di MicroMegaOnline, e coordinatrice delll’Associazione Nazionale Per la Scuola della Repubblica. Scuola e Costituzione il binomio cui ispira la sua attività di insegnante e giornalista e il suo impegno di cittadina.

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