Un legame significativo, quello con Parigi: due, e fondamentali, i soggiorni nella capitale francese (nel 1906 e nel 1909) in cui studiò il Courbet paesaggista, la modernità di Degas, le coreografie galanti e l’uso del colore di Watteau, e ancora Goya, Cézanne, Sisley. Le ventisei incisioni che arricchiscono la retrospettiva (e che, insieme ai 55 quadri esposti, la rendono la più completa mai realizzata) non svelano un Hopper inedito; semmai integrano, documentano e confermano quelle doti di designer, quella tecnica rigorosa che sono così evidenti nelle opere pittoriche e ne costituiscono substrato e sostegno architettonico: la precisione del tratto; l’attenzione formale per linee e volumi; la qualità della luce, maneggiata come materiale fotografico, o cinematografico.
Una luce notturna e violenta (eppure così complice, quasi compassionevole), come quella elettrica dei drugstore, dei diner, degli appartamenti semivuoti di un demi-monde un po’ noir, un po’ fitzgeraldiano, immobile, meditativo, stanco; ma anche zenitale e abbagliante, quella che scalda le facciate in legno delle case, dei fari, e addolcisce i volti appena abbozzati di personaggi solitari, affacciati alle finestre. Per Hopper è sempre consistente, netta, materica; asservita alle regole della logica compositiva, diventa un potente strumento drammatico del paesaggio americano rappresentato, evocazione di una struggente solitudine, spaziale e umana.
Qui il link al sito del Grand Palais; impossibile non rimandare anche alla bellissima galleria del New Yorker, che mostra alcune delle case dipinte da Hopper così come appaiono al giorno d’oggi.
I due quadri sono, dall’alto, Nighthawks (1942, The Art Institute of Chicago) e Cape Cod Morning (1950, National Portrait Gallery, Washington DC).