Ricostruire un codice perduto, colmando lacune e lacerazioni: la filologia perlustra lacerti, interroga testimoni, naviga occulti condotti in cerca delle radici, fino al nodo che interrompe, al taglio che recide, oltre il quale la ricerca si fa congettura, ipotesi, preghiera a volte.
“Ogni filologia è figlia di una perdita”, dice la voce narrante del romanzo di Alessandra Sarchi, La notte ha la mia voce (Einaudi, Torino 2017) che di questo parla: di una perdita che è, per avventura, un corpo di donna, e dell’accidente che lo ha diviso, assumendo la forma minacciosa e grottesca di un paraurti sull’autostrada.
Tra la giovane donna bloccata in carrozzina e quella giovanissima che sale, in foto, le scale del teatro greco, inconsapevolmente altera nella sua integrità di femmina bella e sensuale, ogni rapporto sembra interrotto. A separarle, l’abisso di orrore e abiezione di una non morte e di una quasi vita, che sono gli estremi tra i quali il suo essere oscilla, tra pratiche riabilitative che non riabilitano e gli imbarazzi di un corpo che non risponde a ordini e nemmeno a consigli, ma rivendica spazio e attenzione per le sue mute esigenze.
Da questo abisso la giovane donna riemerge e riparte, nel tentativo di riannodare i fili interrotti, di ritrovare l’identità perduta e testardamente rimpianta. L’indagine si spinge a fondo, si fa remota: i giorni in ospedale, il Dottor G., la riabilitazione… e più indietro, l’incidente e i primi barlumi di coscienza… e ancora più indietro, le lezioni di danza, le estati dai nonni, la chiesa, la terra nera tra le dita dei piedi… Il tempo di una vita non basta, sembra, a ritrovare le ragioni del dramma. Forse solo nella lontananza preistorica da cui emerge, non più pesce, non ancora anfibio, l’essere che avrebbe dato origine a un’evoluzione sbagliata, giace l’errore che spiega. Lì, piantato nella schiena della protagonista, un midollo che ancora non sa ricrescere rivaluta al rialzo il progresso delle lucertole, capaci – loro sì – di rifarsi la coda spezzata!
Certo, la scienza aiuta. In altri tempi la donna sarebbe morta. Ora no, ora è viva. È viva? Seduta perpetuamente su un sedere che non può sentire, vaga pudica in un mondo di bipedi che non sembrano avvertire il privilegio di pensare con i piedi, di cadere a ogni passo, di arrivare al bancone del bar.
In questa realtà pensata per altri si aggira la giovane donna, indagando con circospetta discrezione, quasi fosse necessario imparare nuovamente a stare al mondo, a guardarlo con altri occhi, a dirlo con voce nuova.
Sembra un viaggio iniziatico, il suo, che si alimenta di una fame ingorda di risposte esatte a domande mai davvero poste. Del resto, né la scienza, né la religione, né tantomeno la società paiono capaci di dare un senso a una necessità che sembra avere più del fortuito che del tragico.
L’accompagna per un tratto, guida carnale, prima ancora che spirituale, la Donnagatto, personaggio talvolta inquietante, spesso aggressivo, sempre affascinante. Attraverso la sua amicizia, la donna sembra imparare a ricomporre una verità sfuggente. Si può ballare con gli occhi? E fare sesso con la voce? E riempire con i sensi rimanenti le lacune del corpo? E basta questo a riannodare i legami disciolti? È sufficiente ascoltare la vita degli altri per vivere come gli altri?
Tra le pieghe del racconto si insinua la speranza di uno lieto fine sempre rimandato. Alle acute, esatte, poetiche riflessioni della donna, il mondo dei bipedi sapiens risponde sempre con gli stessi sguardi attoniti, pietosi e ipocriti, quando non con disposizioni ufficiali che negano, nella loro banale crudeltà, l’intero cammino umano che amiamo definire progresso.
Un barlume di speranza si accende solo nell’intimo abbandono di un bagno solitario. Immersa nel liquido primordiale, tornata alla sua natura primigenia di sirena, metà donna e metà acqua marina, la protagonista sente intimamente la propria condizione, e forse l’accetta, in un’ultima effusione lirica che è senza alcun dubbio una delle pagine più belle e struggenti che la prosa italiana abbia saputo offrirci.