Eppure, se vi domandassi di dimostrarmi che Leopardi è italiano, sono certo che vi metterei in difficoltà o che almeno vi costringerei a lunghe e articolate argomentazioni. Per prima cosa potreste provare a verificare su una fonte attendibile come il Dizionario biografico degli italiani, dove leggiamo, alla voce “Leopardi, Giacomo” : “Primogenito del conte Monaldo e di Adelaide dei marchesi Antici, nacque il 29 giugno 1798 a Recanati, alla periferia dello Stato pontificio”. E vi trovereste di fronte a un piccolo paradosso: un personaggio degno di figurare tra gli “italiani” che sarebbe nato, appunto, “alla periferia dello Stato pontificio”. Come può essere italiano un suddito del pontefice Pio VI? Che poi, a voler approfondire la ricerca storica si scoprirebbe che Giacomo Leopardi è nato in realtà sotto il regime napoleonico, nella Repubblica Romana (febbraio 1798-settembre 1799).
Ma quanto può valere questa “dimostrazione” al cospetto delle certezze di chi ha imparato (soprattutto a scuola) che Leopardi è “italiano”? E che cosa direste, se affermassi che Leopardi potrebbe aver avuto difficoltà a pronunciare ad alta voce le sue poesie rispettando le norme della fonetica del fiorentino delle classi colte che ancora oggi si utilizza per i corsi di dizione italiana?
Il fatto è che siamo talmente abituati a pensare a Leopardi come “italiano” che non ci poniamo dubbi circa il significato di questo aggettivo e l’appropriatezza del suo utilizzo. Che senso ha, infatti, dire che una persona nata prima dell’esistenza di uno Stato Italiano sia italiana? Siamo così convinti che il fiorentino Dante, l’aretino-provenzale Petrarca e il lombardo-austriaco Manzoni siano “italiani”? In che senso lo sono? E poi, se così fosse, perché oggi abbiamo tanta difficoltà a ritenere italiane le molte persone che, nate sul territorio della Repubblica italiana da genitori di cittadinanza non italiana, parlano la lingua italiana e frequentano scuole italiane?
È con queste domande in testa che mi capita di affrontare, sempre più spesso, l’insegnamento della letteratura italiana. Una disciplina utilizzata da 150 anni – con lo spirito dei moderni storytellers – per la costruzione del senso di appartenenza degli alunni, novelli cittadini, alla nazione e alla lingua italiana. Attraverso la letteratura, o, meglio, grazie all’invenzione della tradizione letteraria italiana, siamo riusciti, più o meno, a “costruire gli italiani”. Abbiamo imparato che la lingua italiana esiste da molti secoli, che la civiltà italiana precede la nascita della nazione italiana e che può contare su un curriculum solido, talmente solido da superare i confini angusti della politica. E ora che abbiamo imparato tutto questo e che abbiamo costruito (o dovremmo dire “manipolato”?) gli italiani, siamo certi di aver fatto un buon affare? Me lo domando ogni volta che ricevo un invito, da parte del Ministero dell’Istruzione o dall’Unione Europea, dall’Unesco, dall’ONU, a fare “educazione interculturale”.
Non avete anche voi l’impressione che il fatto di non poter ammettere che Leopardi potrebbe non essere italiano rappresenti un limite per chi desideri convivere pacificamente in una società che voglia dirsi interculturale?