Era la scuola dell’obbligo, in un’epoca in cui si poteva decidere di abbandonare gli studi a 14 anni, per mettersi a lavorare.
Chi, come il sottoscritto, riteneva invece di dover continuare a studiare, per vocazione propria o familiare, si avviava lungo un percorso di studi il cui senso si è cristallizzato, per me, nel discorso di benvenuto del preside del liceo classico che ho frequentato.
“Saluto in voi la futura classe dirigente!” disse a noi primini, allocchiti (ma probabilmente sto prestando ai miei compagni di allora un sentimento solo mio) di fronte a quella prima investitura ufficiale. Si cominciava a fare carriera.
La scuola che ho conosciuto io era fatta così. Regole apprese e insegnate senza troppi dubbi sulla loro utilità; destini segnati dalla scelta che si faceva a 13 anni; separazione netta tra il tempo dello studio e il tempo del lavoro.
Intorno, una società perfettamente omogenea e coerente con quel tipo di scuola, con quell’idea di formazione e istruzione.
Eravamo tutti, più o meno, cittadini italiani, destinati a carriere italiane, collocati, per merito o per fortuna, su un gradino o sull’altro di una scala sociale tutta italiana.
Sì, è vero, c’era stata e c’era la contestazione studentesca e operaia, con i suoi grandi meriti e i suoi drammatici limiti. Ma a guardarla oggi, col senno del poi di cui son piene le fosse, anche quella fase protestataria della nostra storia politica e sociale appare sempre più un fenomeno totalmente italiano: condizionato da temi e problemi di natura interna, giostrato su equilibrismi strapaesani, conclusosi con esiti politici catastrofici… italiani, italianissimi!
Dice Umberto Eco: non si può capire la struttura di un labirinto dall’interno.
Vero. E forse l’assioma si può applicare al nostro paese e alla sua scuola. Abbiamo dovuto esserne sbalzati fuori per poter vedere con chiarezza che cos’era quel tipo di società e, con meno lucidità, qual è invece quella in cui ci siamo quasi improvvisamente risvegliati.
Saltate le frontiere, saltate le barriere culturali, saltati i confini fisici, saltati gli equilibri politici; annullate le distanze, abbassate le difese esterofobe, cancellate le differenze di genere e di appartenenza, abbattuti i limiti tecnologici, incrinata l’autorità delle tradizionali fonti del sapere, ci siamo ritrovati in un mondo privo di segnaletica: in cui il vicino di casa parla hurdu e il nostro amico di chat scherza in inglese; in cui tra lavoro svolto e studi fatti non c’è quasi più alcun nesso, i concetti appresi a scuola invecchiano più rapidamente di noi, il posto fisso è una leggenda raccontata dai nonni, la crisi economica spazza via i posti di lavoro qui per ricrearli in Cina…
È saltato quel labirinto, insomma, ma la situazione non è migliorata: per noi, ma soprattutto per le nuove generazioni, il rischio è di finire come il re di Babilonia nel racconto di Borges I due re e i due labirinti: il malcapitato, tronfio dell’ingegno “labirintico” dei suoi architetti, viene punito dal re d’Arabia, che lo abbandona a morire di fame e di sete nel deserto: il più grande labirinto del mondo.
E la scuola, in tutto questo?
La scuola continua a fare il suo lavoro con onestà, convinzione, dedizione e competenza. E molti dubbi… Dubbi sul senso di questo sforzo immane, e sull’opportunità di questo continuo produrre fili d’Arianna per un labirinto senza muri.
E scrupoli, anche, nei confronti di tutti quegli studenti e quelle famiglie che a lei si affidano, implorando una chiave d’accesso al mondo che la scuola non può più garantire da sola.
E coraggio, infine. Il coraggio necessario ad affrontare le nuove emergenze e le più recenti sfide: integrare nel tessuto sociale e produttivo del nostro paese chi viene da altri mondi; recuperare chi è stato (o si è) escluso dal circuito scolastico “normale”; offrire possibilità di riqualificazione a chi ne ha bisogno, quale che sia la sua età; sfondare le barriere architettoniche, reali o metaforiche, che impediscono lo studio, la formazione, la libertà.
Come scrive Laura Cavaleri nel pezzo di apertura del prossimo numero cartaceo de “La ricerca”, quando in redazione abbiamo cominciato a sondare questo terreno, non avevamo le idee chiare su quello che avremmo trovato. Per questo avevamo intitolato “L’altra scuola” la nostra ricerca, come a marcare un confine tra l’esperienza a noi più nota (come ex-studenti, ex -docenti, attualmente editoriali impegnati sul fronte dei libri scolastici) e una realtà che conoscevamo, sì, ma di cui ci sfuggivano i contorni, e i numeri.
Arrivati in fondo, letti gli interventi di tutti gli autori, ascoltate le interviste dei protagonisti, toccate con mano le più disparate realtà, abbiamo capito almeno una cosa: non esiste un’altra scuola, perché non esiste la scuola, se a questa parola continuiamo a dare il senso che aveva nel passato: esistono strutture, esistono persone, esistono bisogni educativi, esistono percorsi formativi… Esiste, soprattutto, una società allargata, estesa, multiculturale, in rapidissima evoluzione, che chiede cittadini consapevoli, flessibili, autonomi, critici. A questa società la scuola, l’unica possibile, deve dare risposte.