Due virtù a fondamento della ricerca

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Cos’è indispensabile, sul piano etico, per poter davvero imparare nell’ambito di una pratica di studio? Non vorrei suonare pretenzioso utilizzando un gergo heideggeriano, ma il mio intento è di raccogliere qui qualche appunto per un’analitica esistenziale dell’apprendere, ricercando i modi di essere fondamentali per la ricerca autentica.

Certo, le virtù intellettuali rilevanti per lo studio e la ricerca sono molte: si possono citare, ad esempio, il rigore, l’accuratezza, la precisione, la sincerità, la disponibilità alla fatica. Del resto, c’è chi ha già scritto cose molto interessanti sul tema (per esempio, alcune belle pagine si trovano in B. Williams, Genealogia della verità. Sulla virtù del dire il vero). Ci sono poi virtù rilevanti per il processo di apprendimento: il saper interiorizzare, il saper memorizzare, il saper rielaborare. A ben vedere, però, nessuna delle virtù appena citate, per quanto importante, è davvero fondamentale per svolgere un’attività di studio e di ricerca. Tali virtù, infatti, riguardano già la modalità e le qualità dell’apprendimento, oltre che della comunicazione di quanto appreso. Nessuna di esse è invece condizione di possibilità dello studio stesso (in altre parole, nessuna di esse è fondamentale nel senso di fondante). Per fare un solo esempio, si può imparare anche se pigri, certo mettendoci più tempo. Spesso, tuttavia, si confonde la pigrizia con la mancanza di motivazione. Questa seconda può effettivamente diventare un ostacolo insormontabile, ma di per sé essa non è una mancanza morale. Del resto, perché fare fatica, se non se ne sa il perché? Tutto sommato, l’indisponibilità a lavorare, perché non se ne vedono le ragioni, è segno di intelligenza, piuttosto che il contrario. Capita perciò che anche persone di normale intelligenza finiscano per andar male negli studi. Qui il problema è a monte, e la sua causa va ricercata, a livello individuale, nella scarsa chiarezza sui propri fini. Per quanto attiene alla società, essa va ricercata nei docenti e nei genitori che non sanno motivare adeguatamente, o nel sistema sociale che non stimola, quando non premia il merito.

Le virtù fondamentali dell’imparare mi sembrano almeno due: onestà intellettuale e umiltà. L’onestà intellettuale è essenziale: se si nega l’evidenza, ci si perde nei propri castelli, costruiti per giustificarsi, per tenere in piedi le menzogne in cui ci si nasconde. Un buon ricercatore è un po’ come un chirurgo: deve essere pronto a tagliare, anche se ciò talvolta è come incidere la propria carne. L’onestà intellettuale consiste nel riconoscere ciò che è vero, ammettere il limite, essere pronti all’ascesi, cioè a una rinuncia al proprio particolare, per qualcosa di più grande. La mancanza di onestà intellettuale, per contro, impedisce di progredire, blocca l’apprendimento e favorisce la menzogna. Essa è la miserabile auto-assoluzione di chi ributta sull’altro o sugli eventi le proprie mancanze, piuttosto che lavorare su di sé per superarle. Solitamente la mancanza dell’onestà intellettuale viene sanzionata, perché comporta una certa inaffidabilità. Il suo limite maggiore però consiste proprio nel compromettere il punto nodale di ogni esperienza di ricerca autentica: in essa lavorando su altro da sé, si opera su se stessi (per esempio acquisendo conoscenza, maestria, esperienza). Per contro, agendo in maniera intellettualmente disonesta, si inverte il sano ordine del lavoro: si antepone sé all’altro da sé, così che la dinamica dell’apprendimento si inceppa.

Quanto all’umiltà, potrebbe sembrare virtù da educande e francescani e si potrebbe sostenere che chi ha acquisito il sapere con fatica e dedizione possa esserne a buon diritto orgoglioso. Sembra poi difficile sostenere che l’umiltà costituisca una condizione fondamentale per l’apprendimento, constatando che vi sono uomini di scienza che ne sono privi. Il punto è che si acquisisce sapere mettendosi in ricerca: l’umiltà consiste nel riconoscimento che non si sa quanto si desidera conoscere. Se manca l’umiltà, viene meno l’apertura alle cose e si deve riconoscere che difficilmente si apprende ciò che si credeva già di sapere. Non si chiede, se si teme che il proprio orgoglio venga ferito; non si rischia l’errore, se si teme di perdere la faccia; non ci si mette in discussione, se si sospetta che ciò comprometterà la considerazione degli altri. Il contrario dell’umiltà non è l’orgoglio, ma la presunzione. Si può essere giustamente orgogliosi dei propri progressi, mantenendosi umilmente consapevoli del molto che resta da fare e, tutto considerato, della pochezza di quanto conseguito. L’orgoglio, insomma, può affiancare l’umiltà nella misura in cui i due nascono da un sano realismo, consapevole dei limiti, ma anche dei progressi. Se poi degli uomini di scienza sono privi di umiltà, ciò spesso avviene perché, arrivati a un certo punto, sono appagati dai risultati raggiunti. Abbagliati da quel poco, dimenticano il molto che ancora non sappiamo e, con ciò, la necessità di rimanere umili e aperti.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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