Due possibili cure per la tristezza del pensiero

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La demolizione delle certezze in Occidente è una vicenda protrattasi per secoli. Ma la tristezza del pensiero è solo un esito attuale del pensare? Parrebbe di no.
Liv Ullmann in “Persona”, film di Ingmar Bergman del 1966.

La rivoluzione scientifica tra Cinque e Seicento ha messo in dubbio la centralità dell’uomo nel cosmo, e di qui il significato stesso della vita e il suo scopo.
Nell’Ottocento il darwinismo, con le sue conclusioni circa l’origine dell’uomo, ha messo in crisi l’idea che vi sia una condizione speciale dell’uomo nel cosmo. Il materialismo, nelle sue forme positivistico-scientiste e sociologico-economiche, ha negato Dio e ogni trascendenza.
L’annuncio nietzschiano della morte di Dio, a fine Ottocento, ricapitolava secoli di crisi e sembrava preannunciare un’epoca di disagio. Cosa che puntualmente si è verificata.
Angoscia e nausea sono infatti i termini chiave dell’esistenzialismo, fenomeno centrale del Novecento. Lo scetticismo circa l’immortalità dell’anima, in buona parte legato alla crisi del dualismo cartesiano, ha segnato l’antropologia del Novecento.
Il nichilismo ha pervaso di sé un secolo incerto, segnato dal dubbio e da un pensiero orgogliosamente debole e, in buona parte, assertivamente relativista e scettico. Il pensiero della crisi ha portato dunque al disincanto e alla secolarizzazione, così che anche coloro che rifiutano in parte o in toto le conclusioni dette devono fare comunque i conti con esse.
Se tutto questo si è svolto in secoli segnati da crescente progresso scientifico e tecnico, nondimeno il pensiero, nel complesso, ha assunto una tonalità che non è triste solo quando rinuncia a uno sguardo d’insieme per stare su cose di dettaglio.

Ancora un fotogramma di “Persona”.

Ma la tristezza del pensiero è solo un esito attuale del pensare? Parrebbe di no, tanto che George Steiner, nel suo Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero (Garzanti, Milano 2014 – Traduzione di Stefano Velotti) individua una serie di ragioni che mostrano come essa abbia sue profonde radici strutturali – anzi, il testo si dedica principalmente a questo. Vediamone alcune.
Quanto alla possibilità di giungere al vero, si tratta di una questione viva e vitale nelle origini della filosofia e potente in seguito, ancorché talvolta con risultati aporetici, come ad esempio in Parmenide. Steiner a riguardo osserva: «I valori, logicamente formali o esistenziali, vaghi o rigorosi, associati al termine “verità”, sono inviluppati in Quanti Spinoza, quanti Frege o Wittgenstein ci sono, e in che misura questi asceti della verità hanno trionfato? Al crepuscolo, Socrate ha cantato.coordinate storiche, ideologiche, psicologiche spesso arbitrarie (“la verità al di qua dei Pirenei”, come diceva Pascal). Persino le verità delle scienze, dimostrabili sperimentalmente e applicabili empiricamente, sottendono presupposizioni, “paradigmi” fluttuanti sempre suscettibili di revisione o di scarto» (p. 37).
Vaghezze, ambiguità, enunciati controfattuali, enti finzionali sono fondamentale esperienza quotidiana, ma con la verità hanno poco a che fare, se non nulla. Steiner scrive, in una nota penetrante: «Filosofi eminenti hanno tentato, a loro volta, di rendere le proprie articolazioni linguistiche il più possibile “matematiche”, il più possibile immuni alla gioia ribelle del linguaggio naturale. Ma quanti Spinoza, quanti Frege o Wittgenstein ci sono, e in che misura questi asceti della verità hanno trionfato? Al crepuscolo, Socrate ha cantato» (p. 41).

Ancora un fotogramma di “Persona”.

Un altro motivo intrinseco, generatore di tristezza, è il limite strutturale circa l’accesso al mondo. Siamo come osservatori davanti a un paesaggio, così che esiste un mondo davanti a noi? Proiettiamo noi stessi le nostre categorie sulle cose, così che esse sono solo l’esito di nostre costruzioni? O magari il solipsismo ha ragione e non c’è alcunché oltre a noi, nemmeno un qualcosa su cui proiettare delle categorie? Sia come sia, Steiner conclude amaro che «Il pensiero vela tanto quanto rivela, o probabilmente di più» (p. 62).
Il pensiero vela tanto quanto rivela, o probabilmente di più.Gli esiti storici e, ancor prima, i limiti intrinseci del pensiero danno una lezione di umiltà, mostrano il valore dell’apertura mentale, forgiano una sana coscienza fallibilista. Tutto vero, ma è poi solo questo? Proprio il Socrate sopra citato, colui che ci ha insegnato il so di non sapere, a ben vedere era tutt’altro che scettico ed era refrattario alla tristezza del pensiero. Questo intanto perché egli sapeva di non sapere e poi perché, in fondo, sapeva anche molte altre cose, come per esempio che è meglio subire ingiustizia piuttosto che commetterla, tanto che per fedeltà a questo sapere fu pronto a morire. Socrate poi mise in guardia i suoi discepoli dalla misologia, dall’odio per la ragione delusa dalle proprie aporie (su questo ho già scritto qui).

Ancora un fotogramma di “Persona”.

Proprio l’insegnamento socratico, la sua profonda saggezza, possono fornire una prima via di uscita dalla tristezza del pensiero: bisogna avere fiducia nelle possibilità della ragione. Una fiducia certo avvertita, consapevole dei limiti e dei rischi noti e attenta a quelli ancora ignoti, aperta alla critica e alla crisi, eppure attiva, instancabilmente propositiva, sempre inquieta e curiosa. La prima cura per la tristezza del pensiero è una cura del pensiero, un prendersi cura del pensare, educandolo al rigore e alla fatica del fallimento come tappa e non come arrivo.
L’insegnamento socratico può fornire una prima via di uscita dalla tristezza del pensiero: bisogna avere fiducia nelle possibilità della ragione. La seconda è prendersi carico del contenuto del pensiero, scegliendolo con cura.La seconda via di uscita dalla tristezza del pensiero consiste in un prendersi carico del contenuto del pensiero, scegliendolo con cura. Se le grandi narrazioni ci hanno deluso e sono tramontate e il postmoderno è stata una reazione di matrice adolescenziale a una delusione e alla tristezza conseguente, ora è tempo di ricominciare, di rialzare lo sguardo, per quanto possibile. Il lavoro di molti pensatori oggi sembra segnato da questo nuovo atteggiamento. Si affrontano “nuovi” temi, come la socialità, la finzionalità, l’autoinganno, la normatività, la vaghezza, la paraconsistenza. Per molti si tratta forse di un modo per non intristirsi, dedicandosi a piccole cose, i più saggi però vedono come sono proprio le piccole cose ad aprire grandi prospettive. Si vede così che un pensiero condotto fino in fondo sul frammento può gettare nuova luce sulla totalità, come ci hanno insegnato i fisici, andando all’infinitamente piccolo, o i cosmologi, osservando dei puntini luminosi nel cielo.

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Gian Paolo Terravecchia

Cultore della materia in filosofia morale all’Università di Padova, si occupa principalmente di filosofia sociale, filosofia morale, teoria della normatività, fenomenologia e filosofia analitica. È coautore di manuali di filosofia per Loescher editore. Di recente ha pubblicato: “Tesine e percorsi. Metodi e scorciatoie per la scrittura saggistica”, scritto con Enrico Furlan.

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