Divario digitale o divario culturale?

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Avevo appena terminato la lettura di uno dei libri più importanti che mi sia capitato di incontrare sulla scuola, Costruire competenze a partire dalla scuola di Philippe Perrenoud, quando, subito dopo, mi sono imbattuto nel dibattito sul divario digitale avviato da Sandro Invidia sulle pagine online de La ricerca.

 

A partire dall’articolo 11 del decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179: “Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese”, Invidia ci pone, nel suo articolo e nella risposta che è seguita alle domande di Mauro Reali, alcuni legittimi dubbi sul rapporto tra le spinte innovative dei legislatori e le reali condizioni della scuola italiana, gravata dalla medesima arretratezza infrastrutturale che pesa sul nostro paese e, inoltre, tutt’altro che convinta della necessità di una trasformazione repentina nel senso indicato dalla cosiddetta “agenda digitale”.
Premetto che, da insegnante di italiano che non ha mai fatto un corso di informatica e che, tuttavia, fatte salve le pause di sonno e una breve vacanza estiva sulle spiagge del Salento, ricorre alle nuove tecnologie della comunicazione in ogni momento della sua vita, sono favorevole all’introduzione di quest’ultime nella scuola. Vorrei qui di seguito proporre una riflessione più ampia sul senso del loro utilizzo e sul tipo di cambiamento che esse richiedono e che, soprattutto, potrebbero innescare, provocando smottamenti che metterebbero in discussione il ruolo stesso della scuola, dei docenti e degli studenti, i quali sarebbero quindi costretti – e qui a mio avviso vanno cercate le ragioni profonde della paura per il cambiamento – a rinegoziare da capo la loro reciproca funzione sociale.

Comincio da Perrenoud, da questo suo libro del 2000, tradotto in italiano solo nel 2010 e tuttavia ancora attualissimo e fecondo, che va dritto al cuore del problema quando sostiene la necessità di affrontare una transizione decisa e chiara verso una scuola centrata sull’approccio per competenze. È da questo spostamento, infatti, da una scuola centrata sul trasferimento delle conoscenze a una scuola che vuole costruire competenze, che nascono tutti i dubbi, le perplessità e i conflitti che da oltre un decennio coinvolgono i docenti e tutti coloro che sono interessati alle sorti dell’istruzione. “L’approccio per competenze – scrive Perrenoud – è forse solo l’ultimo mutamento di un’antichissima utopia: fare della scuola un luogo in cui ognuno apprenda liberamente e intelligentemente cose utili per la vita…”: un mutamento auspicato da anni, forse da secoli, perseguito da pedagogisti e da legislatori e tuttavia ancora lontano da essere raggiunto.
Convinto sostenitore dell’approccio per competenze – presentato con chiarezza esemplare, – Perrenoud crede che, per quanto difficile da percorrere, questa sia la strada maestra per ridare alla scuola un ruolo centrale nella formazione delle persone. Per questo egli è consapevole delle difficoltà e delle resistenze da parte non solo dei docenti, ma anche degli studenti e dei loro genitori. L’utopia, infatti, non è per forza di cose pedagogica: essa è anche, se non innanzitutto, sociologica, e vede coinvolti tutti gli attori del sistema dell’istruzione, che devono necessariamente aderire attivamente.

Scrive Perrenoud: “È difficile lavorare per la realizzazione dell’utopia sociologica, poiché questa riguarda gli adulti e le organizzazioni, abili a frapporre mille buone ragioni al cambiamento delle pratiche. I ministri che si succedono possono accontentarsi di fingere di riformare la scuola. Pubblicano per questo documenti pieni di promesse, lasciando ad altri la preoccupazione del passaggio all’azione concreta… Resterà comunque, una buona volta, l’urgenza di affrontare il problema essenziale: nuovi documenti ufficiali non cambiano, da soli, le rappresentazioni e le pratiche degli insegnanti”. Questi ultimi, insieme ai loro studenti, sono chiamati a gestire le trasformazioni più rilevanti, che comportano un cambiamento metodologico e, soprattutto, una rinegoziazione dei ruoli, una ridefinizione del contratto che sta alla base della relazione educativa.

Per fare solo un esempio, concepire i saperi come delle risorse da mobilitare, che è alle fondamenta dell’approccio didattico centrato sulle competenze, comporta una vera e propria rivoluzione culturale, cioè il passaggio da una logica dell’insegnamento a una logica dell’allenamento, poiché le competenze si costruiscono sulla base di situazioni d’insieme complesse e non del trasferimento di conoscenze. In questo caso, il docente e l’alunno devono entrambi cambiare mestiere, entrare in relazione attivamente, lasciarsi coinvolgere, cooperare, assumersi responsabilità e accettare l’imprevisto nella didattica e perfino nella valutazione, che non sarà più basata su prove uguali per tutti e traguardi standardizzati ma dovrà essere personalizzata e basata sull’osservazione dei processi piuttosto che sull’analisi dei prodotti realizzati.

Alla fine del volume l’autore, dopo aver analizzato “alcune resistenze molto razionali” alle trasformazioni dovute all’introduzione dell’approccio per competenze, rivolge un appello alla solidarietà e alla cooperazione. Egli sostiene che se accettiamo che l’approccio per competenze sia una riforma che va oltre le strutture e i programmi, riguardando le pratiche dell’insegnamento e la cooperazione tra i docenti, allora “bisognerà accettare l’idea che una riforma non si decide al vertice, non promana spontaneamente dalla base, ma si costruisce mediante un percorso di partecipazione paziente, complessa, che richiede dispositivi e competenze specifiche di concertazione e di innovazione, su piccola e grande scala”.
Per quel che riguarda il nostro ragionamento stimolato dalla cosiddetta agenda digitale, mi preme sottolineare che il cambiamento auspicato dal ministro ha senso solo se calato dentro una scuola basata sull’approccio per competenze e, quindi, inquadrato tra gli investimenti da fare per sostenere le scuole e gli insegnanti nel lungo e faticoso cammino verso una scuola capace di costruire competenze e non tra le voci – una delle tante – di risparmio (delle scuole o delle famiglie non importa). Un cammino che – lo nota lo stesso Perrenoud – ha bisogno del supporto degli editori, che dovrebbero mettere a diposizione materiali adeguati e altri strumenti che “sarebbero differenti da quelli che si trovano presso i librai specializzati in libri scolastici, perché concepiti e realizzati da persone orientate verso l’approccio per competenze che richiede altre modalità didattiche”. Strumenti “più difficili e costosi da concepire”, destinati non necessariamente a tutti gli alunni ma alla classe, ecc.

“Rimane indispensabile che i grandi produttori di sussidi per l’insegnamento – conclude l’autore – ri-orientino la loro gamma di prodotti; se un ministero vuole promuovere l’approccio per competenze, deve sollecitare l’editoria e l’informatica scolastica in tale direzione e dare garanzie circa la stabilità della sua politica”.
La digitalizzazione dei contenuti non rappresenterebbe dunque che una piccola parte del cambiamento reso necessario dall’approccio per competenze. Ma anch’essa ha una parte fondamentale, perché è difficile immaginare, tra dieci anni, un mondo in cui le persone non sono capaci di gestire contenuti in formato digitale: scegliere e acquistare un e-book, una app, un videogioco, ascoltare canzoni da un lettore, fare calcoli con la tastiera di uno smartphone ecc. Non siamo in grado di prevedere quali saranno i supporti, e per questo non avrebbe senso insistere sul tipo di tecnologia da utilizzare, ma possiamo immaginare delle situazioni concrete che prevedono, per esempio, un trattamento delle informazioni in formato digitale. E a noi che crediamo in una scuola che costruisce competenze, interessa lavorare con gli alunni in situazioni complesse che siano riconoscibili dagli alunni e dai loro genitori come realistiche e rilevanti.

Ecco perché sono convinto che, soprattutto per l’insegnamento della lingua e letteratura italiana, ma anche per le altre classi di concorso, sia fondamentale creare le condizioni per utilizzare contenuti in formato digitale a scuola. Anche a costo di dover investire di più – editori, cittadini, insegnanti e alunni, e senza dover mascherare questo cambiamento da “risparmio”, perché è evidente che risparmio non c’è e che il risparmio non può essere il motore di una rivoluzione culturale di questa portata. E senza dimenticare – uso ancora le parole di Perrenoud – che per intraprendere una riforma di questo tipo non ci si può permettere di “aprire un fossato tra ciò che pensano i docenti e ciò che il sistema si aspetta”.

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Simone Giusti

ricercatore, insegna didattica della letteratura italiana all’Università di Siena, è autore di ricerche, studi e saggi sulla letteratura italiana, sulla traduzione, sulla lettura e sulla didattica della letteratura, tra cui Insegnare con la letteratura (Zanichelli, 2011), Per una didattica della letteratura (Pensa, 2014), Tradurre le opere, leggere le traduzioni (Loescher, 2018), Didattica della letteratura 2.0 (Carocci, 2015 e 2020), Didattica della letteratura italiana. La storia, la ricerca, le pratiche (Carocci, 2023). Ha fondato la rivista «Per leggere», semestrale di commenti, letture, edizioni e traduzioni. Con Federico Batini organizza il convegno biennale “Le storie siamo noi”, la prima iniziativa italiana dedicata all’orientamento narrativo. Insieme a Natascia Tonelli condirige la collana scientifica QdR / Didattica e letteratura e ha scritto Comunità di pratiche letterarie. Il valore d’uso della letteratura e il suo insegnamento (Loescher, 2021) e il manuale L’onesta brigata. Per una letteratura delle competenze, per il triennio delle secondarie di secondo grado.

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