Leggi, dopo tanta attesa, quella serie di nomi che l’apposita pagina del Miur ti mostra abbinati al tuo. Per lo più non ti dicono niente; solo date di nascita e disciplina insegnata. Qualche volta hai la fortuna (o la disavventura, dipende dai casi) di riconoscere in essi qualche collega del passato. Ma, in genere, tanti punti interrogativi costellano l’attesa di dare a quei nomi volti, caratteri, identità. Sarete – tutti insieme – la Commissione n. X dell’istituto Y.
E poi leggi quanti saranno loro: gli studenti. Ma non quali. Non ne sai nulla. Con i loro profili scolastici ti imbatti per la prima volta solo durante la prima riunione, la cosiddetta “preliminare”; e solo la maggiore o minore capacità, empatia, competenza dei docenti interni (l’altra parte della commissione) saranno in grado di farti immaginare il profilo di quel gruppo – la classe – che ti stai appressando ad esaminare. Poi li vedi per alcuni giorni di seguito (quelli delle prove scritte); il più delle volte non ti dicono nulla: ragazzi come altri. Là dove, viceversa, se fossi stato un loro docente, vedresti attitudini, caratteri, propensioni; ricorderesti aneddoti, atteggiamenti, gaffes, prestazioni brillanti, lacrime o risate. È strano come la prospettiva cambi, a seconda della parte in cui ci si trova a stare. Un sorriso, un volto simpatico, una domanda che reputi intelligente, una particolarità ti imprimono nella memoria il viso di qualcuno; e ti incuriosisce capire come se la caverà negli scritti e all’orale.
Uno dopo l’altro, 5 al giorno, stanno passando davanti agli occhi nel caldo non eccessivo di questa che ti pare – come ogni anno, durante gli esami – solo l’inizio di estate: in verità è luglio pieno. Con i colloqui orali, il rito è agli sgoccioli. L’attesa, consacrata da una rincorsa durata un quadrimestre – scandita dal monito implacabile che hai rivolto ai tuoi, che stanno affrontando contemporaneamente la prova nella vostra scuola, con un’altra commissione: “ricordati che hai gli Esami di Stato” – si consuma in un batter d’occhio. I più fortunati sono quelli che hanno finito per primi. Gli altri – novelle Ifigenie in un mondo UMTS-dipendente – hanno atteso il proprio turno con rassegnazione, grinta, scetticismo, timore, trepidazione. L’esame orale è davvero l’ultimo giorno di scuola. Un evento comunque significativo, nel percorso di una vita: conclusione di un ciclo e di un’età – quella della tutela; quella alternativa all’adultità, senso di un passaggio determinato, questo sì, da una scelta personale, inseguendo vocazione, futuro, ambizioni (più o meno sbagliate), certezze, incertezze; il tutto mediato dagli ingaggi e dai premi per il Mundial brasiliano o dalle incontestabili forme di Belen Rodriguez; da un mondo incoerente e fantasioso, dove risulta comunque difficile collocare in un rapporto di causa-effetto tradizionale e oggettivo il fatto di essere ministro e la totale mancanza di competenze; un mondo in cui non desta particolare scandalo la protervia e la superficialità con cui una giovane e immeritevole rappresentante dello Stato possa apostrofare, con dileggio, “professoroni” un gruppo di donne e uomini anziani, che allo studio e allo Stato hanno dedicato la vita; un mondo che ha alterato e dimenticato la relazione precisa che dovrebbe esiste tra le parole e i fatti, tra promesse e realizzazione di esse.
Ma queste, se ci penso, sono preoccupazioni di una generazione diversa dalla loro. Sono proiezioni mie, nostre, nei confronti di ragazzi che hanno passioni differenti; alla quale molti, troppi adulti hanno cercato in tutti i modi di dimostrare che impegno, partecipazione, vigilanza, coscienza critica sono un inutile orpello del passato. In un ambiguo rapporto tra ciò che si è, ciò che si vale e ciò che appare, complici anche i media.
Loro sono quasi immuni dalla perplessità esistenziale di questo cattivo tempo che stiamo vivendo: anche i più acuti, curiosi, sensibili, critici sono il frutto di quel mondo, in cui la politica ha tradito la sua funzione suprema, perdendosi nei rivoli ora dell’affarismo ora del politically correct di maniera, rinunciando ad esercitare qualunque forma di attrattiva nei confronti della maggior parte dei più giovani.
Vivono in un universo che inflessibilmente sconsiglia loro riflessione sul desiderio, attenzione e capacità di porsi interrogativi. Un mondo di pulsioni da consumarsi frettolosamente nell’immediato. Si abbracciano e fanno salti di gioia per un voto mediocre; a volte non sono presenti all’esame del compagno, del migliore amico, né l’amico fa caso a quell’assenza; rispondono spesso con evidente scarsa concentrazione; accade che non si disperino se nella II prova – latino, matematica, pittura, lingua straniera che sia – hanno rabberciato un terribile 6/15, che significa insufficienza gravissima; che significa non solo che non hai saputo fare la versione di latino, il compito di matematica o la prova di progettazione, impianti elettrici, alimenti e alimentazione, economia aziendale, ma anche che hai fallito nella disciplina di indirizzo del corso di studi che hai frequentato per i precedenti 5 anni.
Ma non si tratta l’identikit di una generazione di mostri, tutt’altro. La loro è, piuttosto, la ragionevole, automatica reazione – l’unica possibile, forse – a una programmazione alla quale la società li sottopone sin da quando sono piccoli: voi diventerete non magistrati, saldatori, insegnanti, architetti, operai (perché il lavoro nobilita l’uomo); voi diventerete non individui consapevoli, colti, solidali, impegnati (perché la dimensione etica, culturale e politica fa dell’uomo un uomo). No. Voi diventerete, e dovete diventare, consumatori acritici. Siete già sulla buona strada, abbiamo lavorato bene. Sì, anche noi della scuola. Perché mentre fuori venivate bersagliati di merci, venivate sollecitati da lusinghe che vi costringevano a far quadrare il cerchio nella schiacciante superiorità dell’avere sull’essere, venivate abbagliati dalla sorte gloriosa riscaldata dai mendaci riflettori che incoronavano i molteplici “re per una notte” che avete invidiato/ammirato/disprezzato nel corso della vostra breve vita, ma che mai – mai – vi sono stati indifferenti; mentre tutto ciò accadeva, noi – gli adulti, i “maestri”, gli insegnanti – nel migliore dei casi continuavamo a proporre (invariata tanto quanto vorticoso era il cambiamento fuori) la “Cultura”. Sempre più lontana, sempre più astratta, sempre più incapace di intercettare il mondo. Compresa quella maledetta versione di quella maledetta lingua di cui continuerete a rimanere indifferenti ignoranti, perché raramente siamo riusciti a spiegarvene il senso. Guardandoci, peraltro, quasi sempre dall’approfondire il nostro passato più immediato: quel Novecento che per troppi è fermo a Montale e Freud, nel quale Foucault, Manganelli, Berlinguer e Pertini, Amalia Rosselli o Guido Morselli, Popper, Bacon, Rauschenberg o Oteiza non sembrano mai essere vissuti.
In fondo potrebbero avere ragione coloro che continuano a immobilizzare la procedura e il percorso per arrivare ad affrontarla in schemi più o meno stantii, sebbene spesso supportati da grande impegno, nei quali e dei quali i ragazzi rischiano di smarrire il senso. Forgiare le menti ad approcci critico-analitici ai tempi dell’invalsizzazione è dura, anche perché è impopolare e controcorrente. Mentre sempre più insistente si fa la notizia che dal prossimo anno verrà inaugurata la quarta prova all’Esame di Stato; mentre per inerzia molti docenti della scuola media e del biennio hanno improntato la propria didattica non a ciò che la Costituzione prevede – preparare alla vita cittadini consapevoli – ma a ciò che i governi da anni ci stanno imponendo a poco a poco, complice la capacità camaleontica di tanti docenti: a risolvere test in nome dell’Europa. Dietro tutto ciò c’è una grande mistificazione politica. Ideologicamente, oltre a una visione economicista della scuola, che meccanizza, ottimizza, razionalizza, una tendenza alla “normalizzazione”, alla “semplificazione”, come usano dire. La reductio ad unum di questi anni bui è la massificazione delle coscienze e delle intelligenze da testare nel quiz, nel test appunto. Semplificazione è esattamente il contrario di ciò che serve alla scuola. La scuola, casomai, andrebbe complessificata. E tutti gli sforzi economici e culturali dovrebbero convergere – tutti – nel rispettare l’individuo – singolare, unico, irripetibile – che dietro ciascuno studente; a reperire strategie didattiche e relazionali per mettere in moto quanto di valido, di buono, di significativo esiste – inevitabilmente, più o meno nascosto, in minore o maggiore quantità – in ciascuno di loro. Soprattutto per i più deboli. E invece ci siamo inventati qualsiasi cosa per schiacciarli, accorparli, omologarli; pensate ai BES: acronimo tuttologico che accorpa gli alunni “con difficoltà” nel processo di apprendimento dovute a svantaggio personale, familiare e socio-ambientale, ai quali si assegnerebbe il diritto alla personalizzazione dell’apprendimento attraverso la redazione di un Piano Didattico Personalizzato da parte dei docenti. I BES possono presentarsi con continuità oppure per periodi circoscritti della vita dell’alunno, in quanto le cause che li generano possono anche avere origine fisica, biologica, fisiologica, psicologica o sociale. Quindi tutto, tutti. Compresi i DSA, i migranti, i ragazzi che hanno subito traumi, ecc. ecc., assecondando la costante tendenza alla “medicalizzazione” della divergenza rispetto a profili di “normalità” che le azioni del Miur stanno configurando da molto tempo. Perché è più rassicurante mettere una bella etichetta sulla fronte di qualcuno (dispensandolo, compensandolo e così via) che porsi davanti a lui – come da molto prima che si parlasse di Bes nella scuola italiana i docenti più sensibili hanno fatto – cercando di instaurare una relazione significativa e positiva.
A questo e altro sto pensando in questi giorni, mentre ascolto gli orali degli studenti dell’Istituto d’Arte di cui presiedo una commissione. Di questo abbiamo parlato spesso con gli altri docenti della commissione, con i quali si è creato un bel clima di collaborazione e serenità. Mentre i miei studenti del classico facevano incetta di meritati e sudati successi, consegnando a noi docenti la soddisfazione di aver contribuito a quel successo, in quest’altra scuola – vicina topograficamente, ma lontanissima culturalmente – ho capito ancora una volta che i destini individuali sono oggi più che mai inchiodati alle origini sociali dei singoli individui. E che questi ragazzi che stiamo licenziando a fatica, tra un balbettio e una scena muta, chiudendo gli occhi su affermazioni letteralmente impensabili per coetanei più avvantaggiati e fortunati; questi ragazzi che più degli altri si sognano tronisti (perché manca loro il senso critico che la cultura conferisce) e ignorano l’oggi; per i quali la partecipazione non è nemmeno un’opzione da escludere, perché non ne conoscono la possibilità; queste ragazze e ragazzi – pieni di BES, DSA, 104, riconducibili e non – già dal momento dell’iscrizione in quella scuola (come in tante altre che accolgono lo svantaggio e il ritardo) stavano perdendo la chance, che a tutti dovrebbe essere garantita, di riscattarsi ed emanciparsi dalla propria nascita. Questo non è giusto. E i costituenti, quando hanno scritto gli articoli della Carta dedicati alla scuola, non avevano di sicuro in mente questo modello.
Invece di affermare, contraddire, ritrattare sull’orario dei docenti e sul nuovo contratto; invece di pontificare sulla scuola “come ammortizzatore sociale”, sulla valutazione, sul merito e sulla meritocrazia; invece di pensare a scuole aperte tutto il giorno, senza ipotizzare risorse, ma puntando sull’effetto sicuro che una simile proposta produce; invece di imporre l’ulteriore impoverimento del pensiero critico analitico attraverso l’invalsizzazione, sarebbe forse più serio e importante concentrare risorse economiche, intelligenze, capacità e impegno sui “figli di un dio minore” che non hanno trovato nel loro percorso scolastico l’opportunità di salire anche solo di un piano attraverso quello che un tempo si definiva l’”ascensore sociale”.
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