Dieci libri italiani di didattica #9

Tempo di lettura stimato: 8 minuti
Il nono libro della rassegna è uno dei classici della storia della didattica italiana, “Le nuove tecniche didattiche” di Bruno Ciari, uscito in prima edizione nel 1961 e poi aggiornato e rivisto nel 1966. Il testo che si riproduce di seguito è la postfazione all’edizione curata da Vanessa Roghi e Simone Giusti, e resa disponibile in formato open access sul sito dell’editore Pensa Multimedia.
Le due edizioni, quella Editori Riuniti del 1966 e quella Pensa Multimedia del 2024.

In occasione del centenario della nascita, grazie soprattutto all’iniziativa di Marcella Bufalini Ciari e del Movimento di Cooperazione Educativa, nel 2023 si è tornati a parlare di Bruno Ciari, del suo impegno politico e della sua opera, sottoposta ancora oggi a commenti e interpretazioni ma di difficile reperibilità sul mercato editoriale. Autore di quasi duecento articoli censiti da Enzo Catarsi e solo in parte raccolti in volume da Alberto Alberti, Ciari ha pubblicato in vita questa sola monografia, la cui lettura è la chiave d’accesso alla piena comprensione del suo pensiero e dell’intera cultura pedagogica e didattica dell’Italia democratica, e può rappresentare una risorsa per la riflessione sulla didattica del nostro tempo, ancora troppo schiacciata sulla ricerca di ricette pronte all’uso e meno propensa, come ha avuto modo di sottolineare Luciana Bellatalla, a «interrogarsi sul significato ed il senso della propria professione».

In un contesto in cui la formazione dell’insegnante è percepita come un’inutile perdita di tempo o come un impedimento al libero compiersi di una missione, laddove dominano approcci antiscientifici e disimpegnati all’insegnamento, possiamo riprendere il filo di un percorso iniziato con l’approvazione della Costituzione, che per essere portato a compimento necessita il superamento di ogni visione ingenua o neutra delle prassi d’insegnamento, sempre e comunque assiologicamente orientate, anche e soprattutto quando si sostiene a parole il contrario.

Secondo la lezione di Massimo Baldacci, che ha attinto all’opera di Ciari per dare solidità teorica a una fondamentale fenomenologia dei modelli didattici, i valori educativi devono essere considerati immanenti alle tecniche didattiche, le quali sono sempre connesse a una cultura didattica nel cui contesto acquistano senso e significato. Quando nella sua premessa Ciari afferma che le tecniche didattiche «non costituiscono un armamentario di piccole ricette empiriche, di espedienti più o meno ingegnosi, cui il maestro potrebbe far ricorso caso per caso», ci sta mettendo in guardia da una visione efficientista e strumentale della pratica educativa, ma ci sta anche dicendo che non esiste insegnamento senza tecniche didattiche e che solo acquisendo coscienza dei valori che esse incarnano è possibile esercitare la libertà di insegnamento e scegliere consapevolmente come e perché insegnare. Le tecniche, si legge ancora nell’Introduzione, «non stanno al servizio di certi valori, ma sono i valori stessi. In quanto tali (ripetiamo), non sono adoperabili da chicchessia per finalità diverse; sono mezzo e fine al tempo stesso»: la scelta di alcune tecniche a discapito di altre è dunque l’atto fondativo dell’azione didattica e ne definisce fin dal principio il fine ultimo, che è incorporato nella prassi quotidiana della comunità scolastica.

Prima della svolta bioculturale

Le tecniche didattiche, da intendersi come dei procedimenti pratici che consentono o aiutano l’apprendimento, non si equivalgono e non sono mai neutre, e devono quindi essere giudicate in base alla loro congruità rispetto ai fini e ai valori che si intende promuovere attraverso l’azione educativa. Se per esempio perseguiamo lo scopo di formare «attitudini al ragionamento critico», allora non possiamo che ricorrere ad alcune tecniche – a cui se ne possono sicuramente aggiungere altre – che possono consistere, scrive Ciari, «nel testo libero, nel calcolo vivente nella ricerca scientifica rettamente impostata». Poco importa se altre tecniche come la tipografia o il giornalino di classe sono superate dallo sviluppo tecnologico, purché si tenga ferma la necessità da parte della scuola di «“incorporare” organicamente, nella sua prassi, i mezzi e gli strumenti di informazione e di trasmissione che sono tipici della civiltà in cui viviamo». Ogni artefatto, ogni medium, rappresentano altrettanti strumenti di conoscenza – e per questo la scuola dovrebbe accogliere criticamente e con curiosità ogni innovazione tecnologica, dalla fotografia al registratore, dal libro alla cinepresa, – che modificando l’ambiente e lo stesso sistema percettivo, consentono di compiere esperienze autentiche e significative con la guida dell’insegnante.

Alle fondamenta del lavoro educativo, tuttavia, Ciari colloca esplicitamente il linguaggio in quanto meta-artefatto, lo strumento che sostiene tutti gli altri strumenti, che a sua volta scaturisce dall’attività reale, «sensorio-motrice», e dall’interazione sociale. Ben prima che prenda forma quella che oggi definiamo svolta bioculturale, in questo libro possiamo leggere pagine esemplari sul carattere sociale del linguaggio, inquadrato come fenomeno di lunghissima durata, «profondamente radicato nel nostro essere biologico», attraverso cui «tutta la realtà viene “incorporata” nella mente umana» e trasmessa agli altri membri del gruppo. Da questa convinzione, oltre che dal contatto con le classi di scuola elementare, discende la centralità dell’espressione orale come «uno dei primi e fondamentali “modi di vivere” del fanciullo nella comunità, un suo modo di affermarsi e di mettersi in rapporto con gli altri», e del testo libero come tecnica didattica fondamentale, che insieme al disegno e agli altri linguaggi già noti al bambino e alla bambina consentirà a chi insegna di «accogliere tutta la ricchezza non misurabile che il fanciullo porta entro la comunità scolastica».

Il processo di vita reale nella comunità scolastica

Precoce fautore della convergenza e dell’alleanza tra studi umanistici e pensiero scientifico, Ciari sfida la pedagogia popolare del suo e del nostro tempo attraverso proposte didattiche che danno spazio all’espressione personale, di modo che la classe diventi da subito una comunità di persone che, senza rinunciare alla propria cultura d’origine, costruiscono una nuova cultura ricorrendo ai linguaggi più avanzati tra quelli messi a disposizione dalla civiltà umana in quel preciso momento storico.

Convinto sostenitore di una conoscenza scientifica che «non può non prendere le mosse dal processo di vita reale nella comunità scolastica», Ciari studia ogni modo utile a garantire l’autenticità degli atteggiamenti e a farsi sé che ogni nuova esperienza trovi una sua motivazione intrinseca nei soggetti che la compiono. Non conta tanto «la scienza, intesa come somma di cognizioni e di abilità, quanto “lo spirito scientifico” che deve applicarsi a ogni aspetto della vita, nessuno escluso», e dunque anche alla stessa cultura umanistica, che dovrebbe anch’essa essere esperita con il corpo e i sensi, nella comunità, attraverso un processo di progressiva integrazione della persona nell’ambiente fisico e sociale che la circonda.

«Abbiamo studiato Giovanni Boccaccio e abbiamo saputo che è vissuto a Certaldo. È vero?… Ci mandate qualche fotografia della casa e del suo monumento? Mandateci qualche notizia…». È una lettera inviata da una bambina romana nell’ambito della corrispondenza interscolastica con la classe del maestro Ciari. Fino a quel momento, si legge in due articoli dedicati a questa esperienza, in classe sta stato affrontato il Decameron attraverso la traduzione in certaldese moderno di alcune novelle, o erano state condivise oralmente alcune leggende che ancora circolavano su Boccaccio. Grazie alle domande dei coetanei e alla necessità di dover dare risposte plausibili e fondate, era all’improvviso diventato fondamentale raccogliere informazioni di prima mano, registrare, documentare e poi discutere quanto appreso, realizzando quello che si legge in una delle pagine più alte di questo libro, dedicata al processo logico della ricerca. E lo sviluppo delle capacità di esprimersi (e di pensare, quindi) mediante i simboli linguistici è legata anch’essa dialetticamente alle concrete condizioni di vita degli uomini, da cui sorgeva la necessità di comunicare agli altri certe esperienze e di trasmetterle ai posteri come un prezioso, inestimabile capitale. La scienza è nata dunque dal lavoro svolto in condizioni di socialità.

La cultura delle maestre e dei maestri

Per molti anni questo libro è stato letto senza tener conto della sua ricca bibliografia, espunta dalle edizioni più recenti. Ripercorrerla oggi, tenendo ben presente anche quelle opere che non vi sono citate ma che rappresentano un punto di riferimento stabile della cultura di Ciari, come è sicuramente il caso dei Quaderni dal carcere di Gramsci, aiuta a mettere a fuoco l’esistenza, in Italia, di una specifica cultura dei maestri e delle maestre, la quale si distingue dalla cultura egemone, tipicamente liceale e accademica, e può contare su una vasta biblioteca in cui dominano le riflessioni teoriche della psicologia sovietica e francofona, la filosofia di Dewey e la manualistica didattica francese. Si tratta di una biblioteca eclettica, che rende conto solo in parte dello straordinario lavoro culturale compiuto da Ernesto Codignola a Firenze con La Nuova Italia e da altre case editrici e riviste che ancora non hanno trovato uno spazio adeguato in un canone novecentesco che appare sempre più limitato e asfittico, soprattutto alla luce delle acquisizioni degli studi culturali e del progressivo e tutt’altro che pacifico convergere di cultura scientifica e umanistica. La rilettura di questo libro di Ciari può contribuire a comprendere i punti di tangenza del percorso compiuto da due autori diversi come Gianni Rodari e Andrea Zanzotto, entrambi impegnati nella lettura dei classici della semiotica, dell’antropologia e della psicoanalisi dalla particolare prospettiva della cultura magistrale e dell’interesse per lo sviluppo infantile, ma può anche auspicabilmente aiutare, come ha affermato di recente Michele Cometa, a «rileggere la cultura italiana in controluce, cogliendo nelle tracce del passato ciò che può essere riattivato nel presente». Non si tratterebbe solo di rivendicare una via italiana agli studi culturali o una tradizione nostrana che potrebbe trovare le sue fondamenta nell’opera di Gramsci e poi di De Martino, di Pasolini, dello stesso Ciari e di Danilo Dolci, ma di interrogarsi sull’opportunità di aprirsi alla lettura di opere e alla frequentazione di problemi e di concetti che non possono più essere liquidati in nome di un pregiudizio misogino e antipedagogico che ancora oggi ha un peso determinante nel discorso pubblico sulla scuola.


Il volume è scaricabile in open acces dal sito dell’editore, Pensa Multimedia: qui.

Condividi:

Simone Giusti

ricercatore, insegna didattica della letteratura italiana all’Università di Siena, è autore di ricerche, studi e saggi sulla letteratura italiana, sulla traduzione, sulla lettura e sulla didattica della letteratura, tra cui Insegnare con la letteratura (Zanichelli, 2011), Per una didattica della letteratura (Pensa, 2014), Tradurre le opere, leggere le traduzioni (Loescher, 2018), Didattica della letteratura 2.0 (Carocci, 2015 e 2020), Didattica della letteratura italiana. La storia, la ricerca, le pratiche (Carocci, 2023). Ha fondato la rivista «Per leggere», semestrale di commenti, letture, edizioni e traduzioni. Con Federico Batini organizza il convegno biennale “Le storie siamo noi”, la prima iniziativa italiana dedicata all’orientamento narrativo. Insieme a Natascia Tonelli condirige la collana scientifica QdR / Didattica e letteratura e ha scritto Comunità di pratiche letterarie. Il valore d’uso della letteratura e il suo insegnamento (Loescher, 2021) e il manuale L’onesta brigata. Per una letteratura delle competenze, per il triennio delle secondarie di secondo grado.

Contatti

Loescher Editore
Via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino

laricerca@loescher.it
info.laricerca@loescher.it