Non ho mai capito come sia possibile, nella pratica educativa come nella ricerca e nello studio, tenere separata la didattica dalla valutazione.
Eppure nell’università italiana lo studio dei metodi di valutazione (docimologia) è affidato al settore scientifico disciplinare della Pedagogia sperimentale (codice M-PED/04: il settore di Benvenuto, che attualmente è professore ordinario alla Sapienza di Roma, dove nel 2003 era ricercatore), mentre la didattica, le tecniche e le tecnologie educative afferiscono al settore denominato Didattica e pedagogia speciale (M-PED/03).
E si pensi anche alla normativa scolastica attualmente vigente, che tiene rigorosamente distinte le indicazioni relative alla didattica – che sono contenute nelle Indicazioni nazionali per il curricolo del primo ciclo e nelle diverse Linee guida e Indicazioni per la secondaria di secondo grado, in cui si tengono insieme i risultati di apprendimento con i suggerimenti metodologici da adottare nell’insegnamento – dalle regole e istruzioni sui metodi di valutazione, che sono espresse da decreti legge elaborati in altre sedi e secondo altre logiche.
Nelle istituzioni pubbliche italiane didattica e valutazione corrono assurdamente su due binari paralleli, e sta a noi studiosi e insegnanti sforzarci di farle convergere in un unico ragionamento, in una visione d’insieme che sia capace di collegare armoniosamente, senza incongruenze, il modo di insegnare e apprendere con il modo di misurare e valutare gli apprendimenti.
Guido Benvenuto, nella sua introduzione al libro, ci aiuta a chiarire quale sia il potere del «mettere i voti a scuola», quale influenza abbia questa pratica sulla percezione stessa della scuola da parte di studenti e docenti, e quale sia il ruolo degli studi docimologici nel processo di democratizzazione della scuola e di professionalizzazione dei docenti. I voti – che sono solo la punta dell’iceberg, la parte visibile di un complesso processo di verifica e di valutazione – avrebbero infatti la finalità di:
a) fornire agli studenti un feedback dei progressi;
b) misurare gli apprendimenti;
c) fornire indicatori dell’efficacia dell’insegnamento;
d) valorizzare la persona;
e) regolare e adeguare i processi didattici.
Il docente che è in grado di usare consapevolmente la valutazione, evitando per quanto possibile le distorsioni e ricorrendo a una pluralità di strumenti di rilevazione e di misurazione, può dunque avere il controllo sui processi didattici e, soprattutto, può esercitare al massimo grado il proprio ruolo educativo, valorizzando gli apprendimenti degli studenti e garantendo questi ultimi dagli eventuali abusi di potere e dalle ingiustizie.
«Un voto, un giudizio – si legge a pagina 26 – hanno senso e significato solo se contribuiscono a chiarire dal punto di vista valutativo la situazione degli apprendimenti conseguiti e a indicare le modalità per migliorarla». Il voto, dunque, è uno strumento didattico fondamentale, il cui ruolo formativo è ineludibile. Si tratta, grazie alle competenze docimologiche, di usare coscientemente e criticamente questa risorsa.
L’obiettivo generale del libro è «migliorare le competenze docimologiche del docente in modo da incrementare le valutazioni a basso tasso di soggettività» (p. 25), e a questo scopo l’autore mette in fila quelle che ritiene siano le questioni fondamentali in cinque densi capitoli: Nascita e sviluppi della docimologia, Funzioni, forme e tempi delle verifiche, Le misurazioni in campo educativo, La rilevazione attraverso test e Altre forme di rilevazione.
Il libro, uscito in prima edizione nel 2003, si colloca su un crinale che ancora oggi non è stato scavalcato e che ci aiuta a vedere con distacco alcuni dei problemi e delle incongruenze dell’attuale sistema di valutazione e del suo rapporto con la didattica. È l’anno della prima sperimentazione delle prove nazionali Invalsi di italiano e di matematica, ed è l’anno della legge 53, che introduce la «valutazione degli apprendimenti e della qualità del sistema educativo di istruzione e di formazione» e l’alternanza scuola-lavoro.
Si inizia a parlare di risultati di apprendimento espressi in termini di competenze (nel 2002 era uscito il rapporto Key Competencies – A developing concept in general compulsory education, Brussels, Eurydice, 2002) e diventa necessario allargare lo spettro delle forme di rilevazione, che devono spaziare dai test ai metodi osservativi, in modo da consentire ai docenti di orientarsi in un sistema dell’educazione e dell’istruzione in trasformazione.
La richiesta sociale e scolastica di verifiche e certificazioni delle competenze ha quindi spostato il piano della valutazione dall’accertamento di conoscenze disciplinari a forme che permettano di verificare sul campo, nella pratica, il possesso e la padronanza di quelle conoscenze. Lo sviluppare le indicazioni teoriche apprese, il saper fare alla luce del sapere dichiarato, sono diventati obiettivi prioritari delle verifiche scolastiche.
Sono trascorsi diciassette anni dalla pubblicazione di queste parole, e purtroppo non sono state superate dai fatti. Come hanno chiarito tre anni fa le Linee guida per la certificazione delle competenze nella scuola del primo ciclo (MIUR 2017),
La valutazione diventa formativa quando si concentra sul processo e raccoglie un ventaglio di informazioni che, offerte all’alunno, contribuiscono a sviluppare in lui un’azione di autoorientamento e di autovalutazione. Orientare significa guidare l’alunno a esplorare sé stesso, a conoscersi nella sua interezza, a riconoscere le proprie capacità ed i propri limiti, a conquistare la propria identità, a migliorarsi continuamente.
Ma è evidente che la formazione docimologica dei docenti italiani è ancora instabile, precaria, spesso affidata agli usi e costumi delle istituzioni scolastiche e in balìa di un legislatore ondivago, ormai da tempo privo di un obiettivo, sempre più attratto dalla nostalgia per la funzione selettiva della valutazione e comunque incapace di vedere lo squilibrio e disarmonia di un sistema dell’istruzione che è fondato sui risultati di apprendimento espressi in termini di competenze e che ricorre sistematicamente a metodi di verifica e di valutazione centrati sulla rilevazione delle conoscenze e delle capacità.
Ed è proprio in questa situazione ibrida e confusa – la cui discrasia è resa ancora più drammatica dalla chiusura delle scuole di specializzazione per l’insegnamento e dei tirocini formativi – che risalta il valore e il significato di questo libro di Benvenuto, il quale fornisce a chi legge tutti gli elementi utili a comprendere i fondamenti teorici utili a costruire prove di verifica valide e affidabili, senza rinunciare mai alla complessità e alla varietà degli strumenti, che non sono codificati una volta per tutte ma devono essere sempre individuati, interpretati e valutati dai docenti.
A questo pluralismo metodologico, tuttavia, corrisponde una grande solidità teorica e pedagogica, che trova il suo centro nella relazione educativa e nel ruolo formativo di un buon sistema di valutazione, che è «fondamentale per la didattica e la valorizzazione degli studenti» (p. 14). D’altronde il libro si apre proprio con le parole – messe in esergo – degli studenti della Scuola di Barbiana, che in Lettera a una professoressa avevano messo alla berlina il ruolo selettivo e punitivo della valutazione:
Studente: «lei di me non si ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti».
[…]
Insegnante: «Se un compito è da quattro io gli do quattro». E non capiva, poveretta, che era proprio di questo che era accusata. Perché non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti eguali tra diseguali.
A quell’istanza democratica, a quella richiesta illuministica di uguaglianza sostanziale, Benvenuto ha risposto da scienziato, con grande onestà e generosità, mettendo a disposizione della scuola (e dell’università) gli strumenti concettuali necessari a scegliere da che parte stare.
P.S. Nell’aprile del 2010 mi sono trovato a frequentare il corso introduttivo all’insegnamento universitario al Centro di sostegno all’insegnamento dell’Università di Losanna. A un certo punto del corso, una volta arrivati al problema della valutazione, i due formatori, un canadese e un belga, hanno mostrato a noi partecipanti un breve video in italiano. Era una scena dal primo atto del film La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana. Siamo in un’aula della Sapienza di Roma nel 1966, il professore di patologia (Mario Schiano), circondato dai due assistenti, scrive il voto sul libretto e dice allo studente (Luigi Lo Cascio): «Lei avrebbe meritato un ventotto o un ventinove. Le ho messo trenta perché ho applicato quello che chiamo il “quoziente di simpatia”. Poca cosa, ma quanto basta per arrivare al trenta…». È un efficace esempio dell’effetto «alone», una delle principali forme di distorsione della valutazione. Si presenta, scrive Benvenuto, «tutte le volte che alcuni elementi della prestazione o determinate caratteristiche dello studente, pur essendo poco pertinenti rispetto alla prova, sono considerati determinanti nell’attribuzione del giudizio». All’epoca provai un’improvvisa vergogna – ero l’unico italiano presente –, a cui subentrò il desiderio di imparare a dare voti. Confesso di essere ancora molto in difficoltà di fronte a questo tipo di esercizio del potere. È un buon motivo per continuare a studiare.