In Italia, come è noto, abbiamo avuto una lingua molto prima di avere un esercito. La carriera del toscano, che l’ha portato a diventare la lingua dell’Italia unita, è tutta letteraria: decisa a tavolino da un manipolo di letterati del ‘500, che incoronavano come modello due-tre grandi letterati del ‘300, e infine messa in pratica da un altro grande letterato dell’’800.
Che vuol dire oggi fare carriera, per un dialetto? Lo chiedo a una studentessa veneta. Mi risponde: “il mio dialetto ha fatto carriera perché esiste Wikipedia in veneto”. Non lo sapevo. Scettica, apro una nuova finestra, oltre a quella dei verbali elettronici (i libretti non esistono più, da qualche anno, sostituiti da tessere: come un bancomat, o le chiavi che aprono le camere d’albergo). Scopro che la versione in lengua veneta (abbreviato vec) della più famosa enciclopedia libera online è nata nel 2005 e conta più di 9000 pagine; è in preparazione anche un Wikisionario, di cui è disponibile un’anteprima. Stessa ampiezza ha la versione in dialette tarandíne (roa-tara): l’unico ad autodefinirsi “dialetto”. Minore “ampiezza” hanno raggiunto le versioni in líguru (lij), con più di 3000 voci redatte in “lengoa zeneize”; in lenghe furlànen (fur), con lo stesso numero di voci; in limba sarda (sc), con più di 2500 articoli in campidanesu, logudoresu e nugoresu. Poco meno di 2000 le pagine in langua emiglièna-rumagnôla (eml), scritte in frareṡ, in arsan, in bulgnes, in mudnes, in piasentin, in parmisan e in rumagnòl. Più ampie (sopra le 10.000 voci), le versioni in lengua lumbarda (lmo), in lingua siciliana (scn), in lenga piemontèisa (lms) e in lengua napulitana (nap). Al di sopra di queste c’è l’italiano, con quasi 1 milione di voci.
Le pagine di Wikipedia parlano in dialetto (con un’attenzione maggiore o minore per il problema delle diverse varietà e dei problemi legati alla trascrizione) non solo di cose di tutti i giorni, ma anche di argomenti scientifici e culturali in senso lato: un’operazione politica di non poco conto, tanto più in quanto gratuita.
ll fenomeno della “neodialettalità” o nuova dialettalità – come è stata definita questa risorgenza dei vari dialetti con funzione espressiva (non più marca d’inferiorità socioculturale, ma segnale di familiarità e affettività nell’uso di persone che dominano bene l’italiano) – non è limitato ai siti Internet e alle nuove forme di scrittura confidenziale trasmesse per via telematica (blog, forum, sms), ma si estende alla politica, alla pubblicità, al giornalismo, alla canzone d’autore e alla letteratura. Né riguarda solo le generazioni dei nonni e dei genitori, ma sempre più quelle dei nostri figli, che recuperano con gusto parole e frasi del repertorio dialettale e, con esse, parte della memoria collettiva di una comunità.
“Il dialetto non è più un delitto, né un difetto, ma un diletto” – come ha efficacemente sintetizzato Giuseppe Antonelli.
Se De André aveva scritto Creuza de mä andando a prendere il dialetto genovese di fine ‘800, nei vocabolari, oggi i piemontesi Mau Mau, i pugliesi Sud sound system, i napoletani Almamegretta, i sardi Tazenda, la siciliana Carmen Consoli, i veneti Rumatera e tanti altri cantano in un dialetto che è quello parlato nella propria città o regione.
Nella narrativa, oltre al noto esempio della lingua mescidata di Andrea Camilleri, si potrebbero citare la marchigiana Silvia Ballestra, il romano Marco Lanzòl, il veneziano Marco Franzoso, il toscano Marco Malvaldi, il pugliese Gianrico Carofiglio, l’emiliano Francesco Guccini, la lombarda Laura Pariani: autori di generazioni diverse che innestano – in misura maggiore o minore – il dialetto nel loro personale impasto linguistico. Per la poesia, si sa, abbiamo grandissimi autori dialettali, a ragione entrati nelle antologie scolastiche: dal Pasolini friulano (autotradottosi in italiano) al milanese Franco Loi, passando per il metapontino di Albino Pierro e il siciliano di Ignazio Buttitta, o il romagnolo di Giovanni Nadiani.
E il dialetto a scuola? A questa domanda risponde esaurientemente Ugo Vignuzzi: “Io sono contrarissimo all’insegnamento dei dialetti, in quanto il dialetto è qualcosa di fluido. Se noi lo insegniamo corriamo due rischi: il primo è di ucciderlo. Tutto quello che fa la scuola dà fastidio ai ragazzi: se c’ è un testo che è bellissimo da leggere sono i Promessi Sposi, che il 99 per cento degli italiani odia proprio per averlo dovuto studiare a scuola. Secondo: se noi dobbiamo insegnare un dialetto, dobbiamo per forza insegnare un dialetto “colto”, dove per esempio certe oscillazioni non possono essere accettate, a meno che non si mettano tutte ma questo diventerebbe un modello impossibile. Gli stessi dialettofoni si accorgerebbero che neanche la loro dialettalità è valida, perché quella che la scuola insegna è un’altra. Perché il dialetto non è soltanto una varietà linguistica ma un’interpretazione della realtà: un’interpretazione molto amichevole, calda, ma anche “rozza”, il vero dialetto parlato può lasciare perplessi. Si pensi che il vero saluto di un romano in romanesco è: “Che te possa’ pijà un colpo, quanto stai bene!”. Questo sulla bocca di Fabrizi o di Verdone può star bene ma io non posso certo insegnarlo. Andrebbe insegnato quindi il vero dialetto e non una forma ibrida che è un italiano dialettizzato. Meglio insegnare cultura dialettale: insegnare ai giovani di un territorio, dai racconti degli anziani in dialetto; come si viveva, i proverbi, le tradizioni che hanno un plusvalore come quelle gastronomiche, artigiane”.
Per un panorama completo dei dialetti italiani e della questione dialettale si rimanda ai materiali prodotti da Carla Marcato per il progetto PON.