Educazione linguistica e cittadinanza

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Chi parla male, pensa male e vive male: la citatissima, lapidaria esclamazione di Nanni Moretti in Palombella Rossa sintetizza perfettamente il manifesto fondativo del Giscel, secondo cui non si può essere cittadini consapevoli e autonomi senza un’adeguata padronanza della lingua.

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Lingua e cittadinanza formano un binomio inscindibile. Il possesso di adeguate conoscenze linguistiche costituisce infatti un requisito indispensabile, senza il quale non è possibile diventare un cittadino consapevole e autonomo. La conoscenza della lingua è difatti alla base per l’esercizio… di una cittadinanza che prevede crescita culturale e partecipazione alla vita economica, sociale e democratica del Paese. Ciò vuol dire che una efficace educazione linguistica deve lavorare nella direzione di rafforzare gli usi scritti e parlati, produttivi e ricettivi della lingua, attraverso un ampliamento progressivo del lessico e l’acquisizione di capacità espressive funzionali a una sempre più estesa varietà di tipi di testo e di contesto. Ma soprattutto occorre che la scuola garantisca il raggiungimento di adeguate competenze linguistiche a tutti i cittadini, quale che sia la loro provenienza linguistica o la loro condizione socio-culturale. In questo senso esiste in Italia una tradizione di riflessione educativa, espressa nelle Dieci tesi per un’educazione linguistica democratica, manifesto fondativo del Giscel (Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica), che insistevano già nel 1975 sul valore della diversità culturale e sulla necessità di un’educazione linguistica e democratica che mettesse in atto il principio di uguaglianza sostanziale previsto dalla seconda parte dell’articolo 3 della Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

La centralità della cittadinanza

Nel testo si parla di «cittadini», ma ciò non deve essere inteso come una limitazione dell’intervento dello Stato in relazione al possesso o meno della cittadinanza italiana, bensì come l’estensione di tali interventi anche a tutti gli immigrati. In effetti, negli ultimi tempi è cambiato il concetto di cittadinanza: non è più vincolato alla nazionalità ma è direttamente collegato alla possibilità di partecipazione attiva alla vita sociale e culturale. Al nuovo concetto di cittadinanza si associano valori che comprendono la democrazia, la dignità umana, la libertà, il rispetto dei diritti umani, la tolleranza, l’uguaglianza. E ancora, il rispetto della legge, la giustizia sociale, la solidarietà, la responsabilità, la lealtà, la cooperazione, la partecipazione, passando per lo sviluppo culturale. In questi termini, i diritti di cittadinanza tendono anche a ricondursi direttamente alla nozione stessa di diritti umani, nel senso di cittadinanza attiva a tutti i livelli, proprio come veniva già proposto nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789 e poi ribadito nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948. Del resto, proprio la consapevolezza dell’articolato mosaico multiculturale e plurilingue di molte nazioni europee – dove coesistono prime, seconde e terze generazioni di immigrati – ha contribuito positivamente all’elaborazione dei “diritti di cittadinanza”, intesi ormai come diritti che riguardano tutti, senza distinzione di nazionalità. Questi temi sono parte ineludibile del dibattito attuale sulle politiche educative cosiddette di inclusione, tendenti a rendere parte attiva e consapevole tutti i componenti della società, in primo luogo quelli più a rischio di esclusione, come appunto gli immigrati e i figli di immigrati.
Questa prospettiva è evidente all’interno della scuola, che, come recita l’articolo 34 della Costituzione, «è aperta a tutti» e le finalità che persegue devono essere di carattere generale, perciò devono garantire a tutti gli alunni gli stessi “diritti di cittadinanza”. In questo senso la nozione di cittadinanza, già presente nelle Indicazioni del 2007, assume un’indiscutibile centralità educativa nelle Indicazioni nazionali per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione, in vigore dal 2013. In questo testo, oltre che nei princìpi fondativi e nelle finalità educative, il riferimento alla cittadinanza è presente in tutti gli ordini di scuola (infanzia, primaria, secondaria di primo grado) e in tutte le discipline di apprendimento.
Ma è in primo luogo attraverso l’educazione linguistica che si sviluppano le competenze necessarie «per l’esercizio pieno della cittadinanza», come del resto è affermato con chiarezza nelle Indicazioni nazionali: «Lo sviluppo di competenze linguistiche ampie e sicure è una condizione indispensabile per l’esercizio pieno della cittadinanza, per l’accesso critico a tutti gli ambiti culturali e per il raggiungimento del successo scolastico in ogni settore di studio».
E tale sviluppo deve tenere conto della diversità linguistica e culturale di cui è portatore ciascun alunno: «Nel nostro Paese, l’apprendimento della lingua avviene oggi in uno spazio antropologico caratterizzato da un varietà di elementi: la persistenza, anche se quanto mai ineguale e diversificata, della dialettofonia; la ricchezza e varietà delle lingue minoritarie; la compresenza di più lingue di tutto il mondo. Tutto questo comporta che nell’esperienza di molti studenti l’italiano rappresenta una seconda lingua. È necessario, pertanto, che l’apprendimento della lingua italiana avvenga sempre a partire dalle competenze linguistiche e comunicative che gli alunni hanno già maturato nell’idioma nativo» [corsivo dell’autore].
Già nelle Dieci tesi si evidenziava il valore del plurilinguismo e il ruolo della lingua materna per ciascun individuo. Ora, però, la situazione sociolinguistica e scolastica italiana è profondamente cambiata: in media in oltre tre classi su quattro ci sono alunni stranieri; negli ultimi dodici anni gli alunni con cittadinanza non italiana sono aumentati di oltre 710 000 unità e si è passati dai 119 679 del 1999/2000 agli 830000 del 2013/14, pari al 10% del totale della popolazione scolastica (circa metà di seconda generazione). Sono alunni provenienti da più di 200 nazionalità diverse e con una estrema varietà linguistica. Sarebbe davvero importante se finalmente si riuscisse a partire dall’idioma nativo per insegnare la lingua italiana. In effetti, varie ricerche e documenti internazionali dimostrano che la presenza nell’insegnamento della lingua materna, anche per alunni di seconda o terza generazione, costituisce un fattore importante per il successo scolastico e per un’integrazione reale senza fratture familiari, sociali, generazionali.

[N.d.R. Da oggi fino a sabato il XVIII Convegno Nazionale Giscel a Roma. Il programma completo qui.]

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Francesco De Renzo

Ricercatore di Didattica delle lingue moderne presso il Dipartimento Iso dell’Università La Sapienza di Roma. Si occupa di educazione linguistica, formazione degli insegnanti, insegnamento dell’italiano come L2, integrazione interculturale, plurilinguismo e minoranze linguistiche, semplificazione dei linguaggi specialistici, orientamento scolastico e per l’Università.

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