A partire dal dicembre 2020, con la pubblicazione dell’O.M. 172, la valutazione formativa è diventata sempre più presente nei dibattiti sull’educazione in Italia. Il superamento dei voti numerici a favore dei giudizi descrittivi ha aperto una nuova stagione di riflessione su questo tema, le cui potenzialità devono ancora essere pienamente esplorate. In particolare, c’è un aspetto cruciale spesso evocato, ma al quale finora sembra essere stata data scarsa importanza: la relazione tra valutazione formativa e sviluppo dell’identità personale.
La connessione tra questi due concetti viene evocata nelle Linee Guida che hanno accompagnato la pubblicazione dell’ordinanza, le quali rimandano a loro volta a quanto previsto dalle Indicazioni Nazionali e dal decreto legislativo 62 del 2017. In quest’ultimo leggiamo che la valutazione «documenta lo sviluppo dell’identità personale» dell’alunno, mentre le Indicazioni Nazionali sottolineano il nesso tra questi due concetti asserendo, da un lato, che «la valutazione precede, accompagna e segue i processi di apprendimento» e, dall’altro, che le
finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende, con l’originalità del suo percorso individuale […]. La definizione e la realizzazione delle strategie educative e didattiche devono sempre tener conto della singolarità e complessità di ogni persona, della sua articolata identità, delle sue aspirazioni, capacità e delle sue fragilità, nelle varie fasi di sviluppo e di formazione.
Questa prospettiva viene ribadita anche da Milena Piscozzo, che ha fatto parte del gruppo di lavoro promotore delle Linee Guida dell’O.M.172, la quale sostiene che la «valutazione deve documentare lo sviluppo dell’identità personale» e aggiunge:
solo in questo modo gli alunni possono essere coinvolti e responsabilizzati nel processo valutativo, affinché la valutazione sostenga, orienti e promuova l’impegno verso il conseguimento degli obiettivi di apprendimento e la piena realizzazione della personalità.
A ben vedere, l’esigenza di legare il processo valutativo allo sviluppo dell’identità personale era già presente nelle pubblicazioni ministeriali diversi anni prima dell’emanazione di questi documenti. Nell’articolo 2 la legge 517 del 1977, che aprì le porte a un grande cambiamento riguardo alla valutazione nelle scuole italiane, si proponeva come fine «la promozione della piena formazione della personalità degli alunni». Anche i programmi del 1985 riportano che la scuola primaria «costituisce una delle formazioni sociali basilari per lo sviluppo della personalità del fanciullo» e che per quanto riguarda la valutazione «gli insegnanti devono raccogliere in maniera sistematica e continuativa informazioni relative […] alla maturazione del senso di sé di ogni alunno».
Tuttavia, se da un lato la letteratura e i documenti ministeriali sembrano riconoscere una certa importanza a questo nesso concettuale, dall’altra lo sviluppo dell’identità personale sembra rimanere soltanto tra i desiderata del percorso scolastico, senza che ci si chieda concretamente di quali strumenti la scuola disponga per fare in modo che il momento valutativo diventi anche un’occasione per comprendere e riflettere in merito allo sviluppo di passioni e aspirazioni individuali. In fin dei conti non dovrebbe essere proprio questo il significato del termine formativo? Se la valutazione formativa – appunto – non dialoga con il percorso di crescita degli alunni partendo dal loro punto di vista su ciò che la scuola permette loro di acquisire, possiamo veramente parlare di una valutazione che educa?
Uno strumento per provare a dare risposta a queste domande potrebbe nascere da un ambito non strettamente legato a quello scolastico. Negli anni Settanta l’economista e futuro premio Nobel Amartya Sen iniziò a pubblicare una serie di articoli nei quali propose di riconsiderare due elementi essenziali per la valutazione delle politiche economiche e sociali inerenti al benessere: ciò che le persone sono in grado di fare e ciò che desiderano essere nella loro vita. Questa proposta, solo in apparenza banale, è un tentativo di superare da un lato l’approccio utilitarista, dall’altro l’idea che basti fornire delle risorse per risolvere i problemi di ogni essere umano.
Per fare ciò Sen e la filosofa Martha Nussbaum propongono un cambio di prospettiva radicale, ovvero quello di considerare tutti i soggetti implicati in una proposta politica, coinvolti in un percorso di ricerca o in un processo di cambiamento, come fini e non come mezzi. Ciò significa fare emergere, tramite il confronto e la deliberazione democratica, l’opinione delle persone riguardo al proprio futuro e considerarla come il punto di partenza di ogni processo decisionale. Nasce così l’idea delle capability, le libertà od opportunità concrete che le persone hanno a disposizione per realizzare ciò che desiderano.
Ma per comprendere ciò che le persone sono in grado di fare e di essere è necessario guardare anche ai risultati che queste libertà permettono di realizzare, ai traguardi che le persone raggiungono e che Sen chiama con il termine “funzionamenti” (functionings). Un esempio: andare a votare è un risultato, un functioning; vivere in un paese in cui mi è consentito, in quanto cittadino, di poter votare liberamente secondo la mia volontà è una capability. In questo quadro le intenzioni di ogni individuo, i progetti di vita, sono un elemento imprescindibile per comprendere come ognuno realizza le proprie opportunità. L’esempio classico proposto da Sen a questo riguardo è quello di un uomo che muore di fame e di uno che digiuna per motivi religiosi. Di fatto entrambi non stanno mangiando, ma le ragioni per le quali lo fanno sono estremamente differenti.
Soprattutto negli ultimi due decenni il capability approach ha iniziato a guardare anche al mondo della scuola, offrendo elementi di riflessione essenziali per valorizzare ciò che Martha Nussbaum chiama con l’espressione “fioritura umana” (human flourishing). Il tentativo di chi si è cimentato nell’esplorare le potenzialità di questo framework in ambito educativo è quello di offrire una risposta decisa alla prospettiva di un altro premio Nobel, ovvero alle teorie del capitale umano proposte da Gary Becker. Si tratta di due visioni contrapposte dei fini ultimi dell’educazione. Contro l’idea che l’acquisizione di conoscenze, abilità e competenze sia funzionale prima di tutto al mercato del lavoro e che i processi di apprendimento debbano essere valutati in termini di efficienza e produttività, il capability approach rivendica come prioritaria la crescita personale di ogni individuo a partire da ciò che desidera per la propria vita e per il proprio futuro, tenendo in considerazione le differenti opportunità individuali, il punto di partenza di un percorso di crescita differente per ognuno.
In quest’ottica si colloca anche il progetto di ricerca collaborativa “Hitting the Mark”, che sto conducendo assieme ad alcuni docenti del Movimento di Cooperazione Educativa che insegnano in scuole primarie del Nord e Centro Italia. Il nome ha un duplice significato: da un lato la traduzione letterale, “colpire il voto” e quindi ripensare i processi valutativi; dall’altra l’accezione più idiomatica di centrare il bersaglio, andare al cuore della scoperta di sé. La fase di raccolta dati, della quale renderemo conto in maniera più dettagliata prossimamente su questa rivista, è prevista per il prossimo autunno. L’obiettivo della ricerca è quello di comprendere come la valutazione formativa possa diventare uno strumento per lo sviluppo di capabilities nella scuola primaria, cercando di cogliere le potenzialità che essa offre alla comprensione di passioni e aspirazioni personali a partire dal punto di vista dei bambini e delle bambine che prenderanno parte alla ricerca.
Quanto detto fin qui non deve far pensare, però, che il fine ultimo di questo percorso sia quello di rendere i progetti di vita delle persone un oggetto da misurare tramite processi valutativi. La valutazione non può in nessun caso essere ridotta a una mera misurazione, cosa che da un lato inibirebbe il confronto e la partecipazione democratica nel rapporto tra docenti e alunni, dall’altro sarebbe in contraddizione con i principi stessi del capability approach. Allo stesso tempo, la complessità del processo valutativo non può essere ridotta nemmeno a una semplice descrizione o a un giudizio espresso da un giudice che non partecipa ai cambiamenti in corso negli esseri umani con i quali interagisce. La radice latina assidere, dalla quale deriva il termine inglese assessment, ci ricorda invece che la valutazione è un atto di costruzione collettiva, che prevede che alunno e docente si siedano vicini per discutere degli obiettivi futuri e di come raggiungerli. Valutare non è un atto che possa essere isolato da un rapporto di relazione con l’altro, ma si inscrive all’interno di un percorso di riconoscimento continuo.
A qualcuno potrà sembrare azzardata o infruttuosa l’idea di dare voce ad alunni in età di scuola primaria, in una fase della vita nella quale le opinioni in merito a passioni e aspirazioni variano costantemente. Lo stesso Sen, intervistato su questo aspetto nel 2003, rispondeva che sarebbe meglio guardare soltanto ai risultati degli apprendimenti, ai funzionamenti di bambini e ragazzi, proprio in virtù della loro giovane età e della mutevolezza del loro sguardo sul mondo. Ma Sen, che è un economista e non un pedagogista, non poteva ancora prevedere i contenuti delle riflessioni che sarebbero sorti negli anni successivi nel filone del capability approach legato all’educazione e che, concordi con quanto affermato anche dalla Student voice, sottolineano l’importanza di coinvolgere anche (soprattutto?) i più piccoli nei processi di deliberazione democratica.
La prima cosa che questo percorso di ricerca intende riconoscere sono quindi gli alunni stessi, con i loro progetti di vita e le loro aspirazioni. Una scuola che guarda soltanto alle risorse o ai risultati dell’apprendimento, che valuta lo sviluppo di competenze senza coinvolgere gli studenti in merito a ciò che possono e vogliono fare nella vita, perde un tassello essenziale in direzione di quel «pieno sviluppo della persona umana» al quale ci richiama l’articolo tre della nostra Costituzione.
Inoltre, ripensare alle aspirazioni di bambine e bambini in età di scuola primaria ci porta a guardare all’orientamento non più come ad un momento isolato che si colloca alla fine di un percorso scolastico, bensì come a qualcosa che lo accompagna e lo segue. Non sarebbe forse il caso di passare, anche in quest’ambito, da una prospettiva sommativa ad una formativa?