Vengo dalla profondità del mare
dove il buio misterioso nasconde la luce
Roeld1
Invisibile
Quando ho varcato per la prima volta la soglia della 2A manutentori elettrici era il 28 ottobre 2016.
I ragazzi erano pochi. Questa la scena che mi si è parata innanzi: in fondo all’aula un alunno con cuffie enormi, testa sul banco e cappuccio sulla testa, ascoltava la musica. Di lato, verso sinistra, quattro o cinque altri alunni giocavano a carte, con altri due guardavano. In centro all’aula, sdraiati sulle sedie, due o tre alunni, seduti con le cuffie del cellulare nelle orecchie, erano immersi nel loro video gioco. Da una cassa proveniva musica rap ad alto volume. Su tutti i banchi erano allineate bottigliette di coca cola, merendine, accendini, cartine.
Un alunno era uscito per andare in bagno un’ora prima e non era tornato.
Nessuno ha notato che io fossi entrata, nessuno mi ha considerato, nessuno mi ha salutato o ha alzato la testa. Nessuno. Niente. Ero invisibile.
Confesso di aver avuto qualche minuto di totale scoramento. Sono abituata a classi problematiche, ma aventi una minima parvenza di aggregazione umana in una aula scolastica.
Mai avevo avuto di fronte una totale indifferenza e una totale apatia che si è rivelata ben presto la cifra di quei ragazzi. Non uso volutamente la parola “studenti”, che io amo molto, vuoi per la sua origine, vuoi per il suo significato. Quelle persone, davanti a me, non si potevano definire “studenti”, almeno dal mio punto di vista. E non lo sono state per mesi a venire.
In cinque minuti mi è stata subito chiara una cosa; avrei dovuto riprogrammare: resettare tutto, cambiare strategia. La lezione che avevo preparato non avrebbe funzionato. Mi dovevo innanzitutto far “vedere”, assumere una posizione, anche spaziale, esserci. Dovevo trovare un modo di (con)vivere con quei ragazzi, senza rinunciare al mio ruolo di docente, e, possibilmente, insegnando loro qualcosa.
Dovevo smetterla di essere invisibile ai loro occhi, assumere una veste, essere un interlocutore; poi avrei potuto iniziare a lavorare. Dovevo dunque crearmi una reputazione e diventare un adulto affidabile, almeno ai loro occhi. Dovevo ritagliarmi uno spazio dove incontrare i loro sguardi.
Non ero disposta tuttavia a rinunciare a nessuna delle caratteristiche che contraddistinguono il mio lavoro. Insomma: avrei lottato.
Mi sono seduta sulla cattedra e ho atteso in silenzio che qualcosa succedesse.
Programmi o programma?
Ho scelto provocatoriamente il titolo di questo paragrafo.
Ho affermato di dover “programmare me stessa” nuovamente: ma come? E soprattutto quali punti di riferimento avrei dovuto scegliere nel mio percorso di riprogrammazione?
La parola “programma”, esibita a scuola ogni momento e in riferimento alle più diverse occasioni, non mi piace e non la voglio usare. Esistono da ormai alcuni anni le “Linee Guida per gli istituti superiori professionali” di Stato. Si tratta appunto di “linee”, e dunque indicano percorsi possibili, vie, strade da seguire. Pongono l’accento sui traguardi da perseguire e non su contenuti da trasmettere. Mettono al centro lo studente e le competenze che deve conseguire, non il “programma” che il docente deve terminare.
Per la mia disciplina, nella prima parte, introduttiva, recitano così:
[…] nel primo biennio il docente persegue, nella propria azione didattica ed educativa, l’obiettivo prioritario di far acquisire allo studente le competenze di base attese a conclusione dell’obbligo di istruzione, di seguito richiamate:
– padroneggiare gli strumenti espressivi ed argomentativi indispensabili per gestire l’interazione comunicativa verbale in vari contesti
– leggere, comprendere ed interpretare testi scritti di vario tipo
– produrre testi di vario tipo in relazione ai differenti scopi comunicativi
– utilizzare gli strumenti fondamentali per una fruizione consapevole del patrimonio artistico e letterario.
LINEE GUIDA PER IL PASSAGGIO AL NUOVO ORDINAMENTO d.P.R. 15 marzo 2010, n. 87, articolo 8, comma 6 e successive integrazioni, allegato A.
È dunque tutto molto chiaro. Ho optato, pertanto, per il tenere ferma la barra su ciò che il Ministero mi indica, ho scelto questa strada; dovevo certamente rivedere i miei “programmi” di lavoro e rimboccarmi le maniche. Ma avevo una mappa da seguire. Avevo chiaro l’obiettivo, si trattava di arrivarci.
Mi servivano i mezzi, la didattica, la metodologia; ma qui avevo e ho un potente alleato il Writing e Reading Workshop (WRW).
Ho dunque ripreso in mano le “Linee guida per gli istituti superiori professionali” e le ho rilette. La mia didattica si calava perfettamente in quella cornice. Anzi, rileggendole mi sono davvero convinta che potevo forse trovare una strada e tentare di arrivare diritta al centro del problema e del loro (dei ragazzi) cuore. Occorreva solo organizzarmi e iniziare.
La loro vera voce
Il metodo del Writing e Reading Workshop è una didattica di origine statunitense. Non mi dilungo qui su storia e bibliografia [trovate entrambe nell’articolo Due docenti e un metodo: la sfida del WRW, N.d.R.]. Mi preme solo sottolineare questo: si insegna a scrivere e a leggere puntando a un processo, e non a un prodotto. L’obiettivo è quello di fare dei nostri studenti scrittori e lettori competenti a vita. Di farli avvicinare alla lettura e alla scrittura come competenze imprescindibili per abitare il reale, quel reale della società liquida in cui tutti ci dibattiamo.
So bene che, se c’è una tipologia di istituzione scolastica in cui sembra a volte assurdo e improponibile affermare un progetto didattico di tal genere, questo è l’istituto professionale, l’ultima frontiera della scuola, come io la chiamo. Ma, a mio avviso, così non è. Se c’è un luogo dove una didattica basata su un “laboratorio” di parole ha un senso è proprio quel tipo di istituto e quella tipologia di studenti.
Il laboratorio cerca infatti di fornire loro quelle life skills imprescindibili che li aiuteranno a continuare nel loro percorso di cittadinanza, crescendo come lettori e scrittori consapevoli. È forse pensabile che quegli studenti non ne abbiamo bisogno o ne abbiano meno di altri?
Se ci riferiamo sia ai dettati della legge 107 che ai suoi decreti applicativi, si fa presto a notare come una delle parole ricorrenti sia “inclusività”. Se poi alziamo lo sguardo verso l’Unione Europea, le otto competenze chiave di cittadinanza parlano ben chiaro.
Ecco dunque come non solo un percorso simile si pone come centrale per la nostra scuola in Italia, ma anche come non prenderne atto sarebbe in qualche modo eludere quanto il legislatore ci chiede a livello nazionale ed europeo. Possedere competenze di letto/scrittura appare oggi una delle competenze chiave di cittadinanza per tutti.
E poi, come potevo tirarmi indietro?
Gli sguardi che, in quei primi giorni, i ragazzi mi rivolgevano dai loro banchi ingombri, mi dicevano esattamente la stessa cosa. Mi parlavano di mondi nascosti, di sofferenze, di noia, di astio, di vendetta. Mi chiedevano di esistere prima, di essere riconosciuti, e poi se mai di essere considerati anche studenti.
Erano come una domanda muta a cui ho cercato in qualche modo di rispondere. Ne sentivo l’obbligo e l’urgenza. Sentivo l’esigenza di trovare e rappresentare la loro vera voce, quella che io intuivo ma che ben difficilmente si sarebbe palesata in altro modo.
La pratica del narrare come cura
Da un punto di vista biologico, fisiologico, noi non differiamo molto l’uno dall’altro; storicamente come racconti ognuno di noi è unico. Per essere noi stessi dobbiamo essere noi stessi-possedere, se necessario ri-possedere, la storia del nostro vissuto. Dobbiamo “ripetere noi stessi” nel senso etimologico del termine, rievocare il dramma interiore, il racconto di noi stessi. L’uomo ha bisogno di questo racconto, un racconto interiore continuo, per conservare la sua identità, il suo sé.
O. Sacks, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Adelphi, Milano 1986
Questa citazione di Oliver Sacks che trovo nel recente saggio di Michele Cometa Perché le storie ci aiutano a vivere, la letteratura necessaria (Cortina, Milano 2017) mi pare proprio incarnare ciò che mi ha guidato nel mio percorso. Narrare di sé costituisce spesso una cura, una possibilità di riconoscersi e di darsi anzi rendersi una dignità. Se non mi vedo non posso nemmeno mettermi in gioco, non posso accettare che altri mi vedano e mi guidino, e il gioco dei ruoli scolastici fallisce ancora prima di cominciare.
Ecco dunque cosa ho fatto: mi sono presa cura di loro affidando alle loro mani e menti uno strumento (in questo caso la scrittura) che non sapevano nemmeno di possedere e che li ha aiutati a ricostruire un’immagine di sé degna di essere approfondita e riproposta.
Il writing workshop è stato lo strumento imprescindibile del nostro lavoro.
«A scrivere si impara scrivendo»: questa ovvietà ha come sempre un grande fondo di verità. Se non pratico mai la scrittura o la pratico solo per compiti lontani dal mio vissuto e assolutamente scollegati dal mondo in cui vivo, essa mi parrà un peso, una montagna insormontabile o, nel migliore dei casi, una noia mortale.
Ma se invece mi avvicino alla scrittura come a un processo, a uno strumento di cui scopro pian piano la potenza, me ne approprio e poi lo posso riutilizzare anche per funzioni diverse. I compiti autentici sono infatti una delle strutture cardine del laboratorio.
Cosa rende un compito di scrittura autentico? In questo mio caso la possibilità di scegliere di cosa scrivere, ad esempio, e di quando scrivere. La pratica verbosa del tema che, come diceva De Mauro, «favorisce l’adozione di formule stereotipate e cristallizzate» (cfr. Storia linguistica dell’Italia Unita, Laterza, Bari 1963) non fa parte evidentemente di questo modo di lavorare.
Le parole SCELTA, AUTONOMIA, RESPONSABILITÀ sono cardini del writing workshop.
Io non ho mai proposto nessun tipo di tema nella mia classe.
Ecco invece i focus su cui ho concentrato il lavoro:
– Ho iniziato da ciò che noi chiamiamo “attivatori di scrittura”. Elementi che servono a raccogliere idee o semi di idee su cui lavorare. A titolo esemplificativo, le liste: le dieci persone più importanti della mia vita, le cinque cose che mi fanno arrabbiare, i cinque luoghi del mio cuore, i cinque momenti che non dimentico. E così via. Ho usato poi molto gli attivatori sotto forma di disegno: la mappa del cuore, la mano, il sole dei ricordi.
È evidente l’approccio al cercare materia di scrittura dentro di sé. Scrivo solo di ciò che conosco bene e di ciò che ha per me un qualche interesse. Scrivo se ne sento in qualche modo la necessità. Occorre però fare una precisazione: accostarsi al vissuto delle persone presuppone gentilezza, precauzione e cura. Occorre mettersi in gioco per primi. Per questo grande parte del metodo si basa sulla sperimentazione del lavoro prima di tutto sul docente stesso. Solo prendendo possesso degli strumenti e nel condividerli con gli altri posso cercare di non essere invadente e mostrare ai miei studenti un volto affidabile.
– Ho poi proposto come sempre dei momenti di condivisione guidata: “ognuno fa quello che può, come può senza giudicare sé stesso e gli altri” questa è la regola del mio laboratorio. Si condivide il proprio lavoro solo se se ne è sicuri, se si ha voglia e si sente di voler dire qualcosa. Il feedback del docente parte sempre dal positivo e da domande che aprono e non chiudono. Non «Perchè hai scritto così?» ma, semmai, «Cosa intendevi dire? Mi piace questa considerazione la vuoi spiegare meglio?». Piano piano il taccuino si riempie di piccole tracce, di idee da sviluppare e di TERRITORI di scrittura.
– Lampi di scrittura o quick write. Abbiamo poi osservato le nostre annotazioni, le liste e gli attivatori. Ognuno ne ha scelto una e ha provato a scrivere su di essa qualche riga, una riflessione anche breve. I quick write migliorano notevolmente la resistenza alla scrittura. Allenano al pensiero scritto e al lavoro di riflessione mentre scrivo. Sfoglio il taccuino. Sottolineo una frase, un’idea, un seme. Scrivo senza interruzione per circa 5 minuti. Poi rileggo. A volte in classe comincio a proporre anche una prima revisione del testo. In questo caso ho atteso più tempo perché gli studenti non erano pronti. È sempre un passo molto difficile accettare di riscrivere ciò che è già stato fatto. Il writing workshop, considerando la scrittura come un processo, deve per forza seguirne le tappe: prescrittura, stesura delle bozze, revisione, editing, pubblicazione. Con piccoli passi e con metodo si può anche arrivare a una seria revisione, specie se ti accosti a lampi di scrittura brevi e veloci.
– Ho deciso di scegliere per il nostro lavoro la scrittura in poesia. Parrà strano ma così non è. Italo Calvino diceva che «Scrivere è la ricerca di una espressione unica, necessaria, densa, concisa, memorabile» (cfr. I. Calvino, Lezioni Americane. Sei proposte per il prossimo millennio). La poesia ai giovani in realtà piace, e proprio il fatto di fare grande uso della metafora li cattura. La densità dei simboli fa parte del inoltre del loro vissuto musicale. La poesia, infine, li libera dai lacci della sintassi, che tutti odiano e vivono spesso in modo costrittivo. È difficile scrivere rispettando la consecutio temporum e la punteggiatura, specie per chi non padroneggia a pieno la lingua italiana.
Si apre qui una doverosa parentesi. Ma chi erano e sono questi studenti di cui ci stiamo occupando? Sono studenti in maggior parte ripetenti e con tanti fallimenti, di tutti i generi alle spalle. Sono spesso immigrati di seconda generazione o di prima. Sono studenti di origini diverse: albanesi, ecuadoregni, cinesi, senegalesi, mauriziani, marocchini, egiziani, brasiliani, bengalesi; qualcuno italiano. Sono studenti che spesso sono maggiorenni. Tutti maschi, tutti pieni di rimpianti e di scoraggiamento. Tutti consapevoli di essere per molti un rifiuto o un impiccio. Tutti con un grande senso di fallimento sulle spalle.
– Ho deciso quindi di partire dai versi e dalle strofe. Dal proporre prima un approccio semplice, ma potente alla scrittura usando il ricalco. Con “ricalco” cosa si intende? Si intende scegliere un testo base, individuarne la struttura sottintesa e le caratteristiche e poi proporre e agli studenti una personalizzazione della stessa struttura. Ho scelto la nota composizione Possibilità della poetessa Wislawa Szymborska. La figura retorica dell’anafora è immediatamente percepita dai ragazzi e una struttura simile è facilmente ripetibile. In questo modo ognuno ha potuto addentrarsi lentamente nella scrittura poetica e prenderne possesso con una certa facilità. Nello stesso tempo gli studenti hanno iniziato un percorso di riflessione personale su sé stessi. Ecco un esempio di Michael:
Preferisco il colore rosso
Preferisco la moto che sia veloce
Preferisco il freddo al caldo
Preferisco la musica rap a quella classica
Preferisco il mare alla piscina
Preferisco ascoltare che parlare
Preferisco andare scuola che stare a casa
Preferisco messaggiare perché consumo di meno
Preferisco la vasca alla doccia
Preferisco le ragazze serie a quelle pazze
Preferisco vedere i colori dell’arcobaleno dopo la pioggia.
Si può notare già una buona ricerca di semi di idee personali, una certa cura dei dettagli anche sensoriali, il tentativo di contrapporre un elemento a un altro. Sull’apprendimento di tecniche per introdurre notazioni sensoriali ho lavorato con le Mini Lesson (ML). Cosa sono? Brevi lezioni di massimo 10 minuti in cui il docente suggerisce tecniche, strategie di scrittura, propone riflessioni e introduce tipologie testuali. Le ML devono essere brevi per preservare il tempo laboratoriale della scrittura autonoma e dare al docente la possibilità di poter condurre con gli studenti le consulenze sul loro processo di scrittura.
– Ho poi proposto un mentor text. Con questo termine definiamo nel laboratorio un testo “maestro” al quale i ragazzi si possono ispirare. Lo si studia e analizza per scoprirne le caratteristiche e le tecniche. In questo caso ho scelto I fiumi di Giuseppe Ungaretti. Nel testo è facile evidenziare le tecniche del poeta e anche notare come a ogni fiume egli associ un momento della sua vita. I ragazzi si sono immedesimati in una storia di un grande poeta e hanno capito come farla propria.
– Ho infine proposto il format «Vengo da…»: Ungaretti veniva dai suoi fiumi e noi da dove? Cosa c’è dietro alla nostra storia che ci spinge ad andare avanti? Solo un albero con buone radici può crescere e cacciare foglie. Il format era molto semplice:
– un verso con anafora
– un verso con dettagli sensoriali provenienti da tutti i 5 sensi.
– Ho richiesto ovviamente una accurata bozza iniziale, un lavoro sul lessico, un’analisi dei momenti da ricordare (“semi non cocomeri”) partendo dal cuore e dalle liste. Ecco il lavoro di Andrea:
Vengo da dove l’ascensore è rotto,
sempre, per 12 mesi all’anno.
Vengo dalle case popolari
dove il cielo è sempre buio.
Vengo dalle bocciature
gli anni persi a scuola.
Vengo dai treni con i senegalesi
senza biglietto
Vengo dai vicoli di Genova
dalle vie strette e buie.
Vengo da mia madre
dalla sua forza.
Vengo dai portafogli
senza denaro.
Vengo dall’acqua benedetta
della chiesa dove sono cresciuto.
Vengo dalle fughe stancanti
dalle guardie.
Vengo da una infanzia difficile
di traslochi e di fatica.
Conclusione, che è un inizio
Quattro alunni della classe 2A manutentori elettrici hanno vinto un concorso con le loro poesie sulla Shoah e un viaggio premio.
Un proposito:
Il lettore non specialista non legge le opere per studiarle… ma per trovare in esse un nuovo significato che gli consenta di comprendere meglio l’uomo e il mondo, per scoprire una bellezza che arricchisca la sua esistenza: così facendo riesce a capire meglio sé stesso.
Tzvetan Todorov, La letteratura in pericolo, trad. E. Lena, Garzanti, Milano, 2008.
Note
1. Un mio studente di tre anni fa.