Dare senso al silenzio

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Non esiste una “ricetta” per lavorare con gli alunni dislessici. Non bastano competenza e impegno: prima ancora viene la disponibilità a mettere in discussione tutto ciò che si sa (o si crede di sapere) sull’argomento.

 

Diciamocelo: attraversare più o meno indenni il (continuo e necessario) flusso di circolari, regolamenti e regolazioni che accompagnano la ormai solidamente impiantata legge 170 del 2010, cercando di vivere al tempo stesso una volta per tutte dall’interno di se stessi l’ispirazione al cambiamento che la stessa comporta non è cosa tra le più agevoli e veloci. Sì, va bene: i ragazzi sono sempre gli stessi, o quasi, i problemi più o meno pure, e questo rischia sempre di appiattirti un po’ (tieni conto comunque di questo, di quello…), ma il cambiamento proposto è notevole, forse persino più profondo e radicale di quello che poteva apparire in un primo tempo, all’interno di quella che era apparsa come una sorta di legge su disabilità “minori”.
A rileggerla bene, la legge appare in effetti come una di quelle “toste”, forse un po’ ultra-rigorosa rispetto alla grande variabilità dei fenomeni non sempre ben definiti di cui si occupa; comunque piuttosto esigente per il docente al quale si richiedono, in modo più o meno implicito, alcuni importanti cambiamenti di prospettive.
Il fatto è che le nuove norme per le DSA sembrano configurare mutamenti probabilmente epocali nel fare scuola in Italia. Guardiamo ad esempio all’attenzione crescente che le nuove regole suggeriscono, anzi in pratica esigono, tra l’altro, per l’aspetto cognitivo individuale dell’apprendimento. Prendiamo, tra le molte altre, la questione dell’accuratezza nell’ambito della percezione (ascoltare, vedere) come premessa indispensabile per un apprendimento valido e completo, e vediamo che cosa può fare, come può muoversi concretamente l’allievo che per qualche ragione percepisce/elabora malamente e di conseguenza male apprende.

Frustrazione e fuga
Consideriamo inoltre il suo possibile silenzio: si tratta solo di un problema dell’allievo che non sa, non riesce a comunicare? Solo di un problema di famiglie o di sanitari che non si informano e non informano, non si attivano e non attivano correttamente e per tempo?
Un sospetto: non sarà per caso che al docente venga richiesto, a questo punto, di trasformarsi seduta stante in medico, psicologo, iper-pedagogista o quant’altro? Qui si impone evidentemente, o si ripropone con forza, una riflessione fortemente centrata sull’allievo, il quale potrebbe essere, guarda caso, dislessico: nella maggioranza dei casi è proprio lui/lei chiaramente il meno informato/a, anche se il disagio peggiore è certo il suo. E allora: non è meglio piuttosto, a questo punto, considerare più da vicino la sua condizione, ascoltarlo con più attenzione, ma soprattutto in modo un po’ diverso, cercare di capirne di più, interpretandone con attenzione l’eventuale protesta (in varie forme…)? E cercando tra l’altro di sventare nel contempo, insieme al muro di determinate “automatiche” certezze del docente, il possibile, triste attentato del solito indefinibile compagno di classe pronto a girare in ridicolo una seria richiesta di aiuto (altro buon tema di educazione civile)?
Rammentiamolo spesso: il bambino che va a scuola vive una situazione di discente in età scolare, ossia di giovane che apprende, e che di conseguenza costruisce su questa base la propria immagine sociale e personale. Chiediamoci allora che cosa succede in lui/lei se lui/lei non apprende, se non ha la sensazione di apprendere in modo accettabile senza evidente demerito, senza diretta o indiretta responsabilità. Alla progressiva caduta della propria immagine da discente a non-discente anche la quotidiana presenza a scuola diviene rapidamente obbligo e costrizione. E per molti la salvezza significa fuga, eventualmente fuga nella figura negativa del “brigantaccio” della classe.

Lavorare con i dislessici
Una gentile e molto impegnata collega straniera così mi elencava qualche tempo fa alcuni tratti del suo lavoro con allievi dislessici medio-gravi e gravi:

  1. programmare il lavoro non dal punto di vista del docente programmatore, ma da quello di quell’attonito “principiante” che sarà l’allievo con DSA;
  2. accantonare al momento molte ben confermate e solidificate certezze, o scordarsele;
  3. osservare a fondo lavoro e comportamenti degli allievi, specie di quelli più in difficoltà;
  4. prendere sempre sul serio le domande e le richieste degli allievi;
  5. (mi permetterei di aggiungere un punto:) farsi impressionare il meno possibile da comportamenti di protesta come tali: si può trattare di grida, o forse di semplici vagiti di aiuto. In effetti, vivere per ore al giorno in situazioni dominate dalla sensazione di essere sempre un po’ “fuori”, con soddisfazione tendente a zero può essere veramente difficile e penoso, specialmente per giovani alla soglia della pubertà, e quindi ormai alla ricerca di una propria definizione personale, fuori da quella degli adulti.

La dislessia è certamente la più diffusa, o comunque la più conosciuta delle DSA (nel mondo circa l’80% dei disturbi specifici di apprendimento riguardano da lontano o da vicino la dislessia). Quello che di questa sindrome possiamo osservare sono in pratica alcuni pochi sintomi principali, “duri” che ne caratterizzano le definizione stessa: lettura anche molto lenta e con molte incertezze (poca fluidità), errori numerosi, più o meno caratterizzati; in più, è stato fatto notare ancora recentemente da noi, in Italia, il disturbo tende a ridursi o a cessare in alcuni casi con l’età, in altri casi molto poco o per nulla.
E tuttavia, formulata la diagnosi-base di dislessia, la strada da fare è ancora lunga: il fatto è che quei pochi validissimi sintomi non hanno tutti e sempre le stesse cause e con-cause. Da anni si allunga costantemente l’elenco delle difficoltà osservate che colpiscono il bambino dislessico all’interno di una sorta di mix individuale: tra queste l’esperienza e la ricerca hanno individuato, ad esempio, difficoltà di ordine fonologico nel riconoscere le lettere e nel segmentare (e specialmente nel ricomporre poi) le parole, difficoltà nella scansione visiva delle singole lettere all’interno della sequenza (stringa)-parola, oppure ancora imprecisione della percezione e ricodifica di suoni o di segni verbali o del “trasferimento” corretto degli stessi dalla sfera passivo-percettiva, di ascolto e lettura, a quella attivo-prassico-produttiva di espressione orale e scritta e molti altri.

 

Tanti tipi di dislessia

Ci sono dislessici non disortografici, che scrivono in modo del tutto corretto, ma leggono con grande difficoltà, e viceversa bambini che leggono correttamente, ma che esibiscono notevoli difficoltà nella scrittura.
Tra i sintomi più evidenti di dislessia nel lavoro scolastico sono stati rilevati, oltre a quelli strettamente connessi alla lettura, difficoltà di memorizzazione delle rappresentazioni sia orali che scritte di parole nuove, particolarmente in lingua straniera; sovente tendenza a confondere tra parole simili, ancorché di significato diverso; rigidità nel rapporto tra oggetto fisico e nome dello stesso, con scarsa propensione all’impiego di sinonimi e così via.
Sul piano delle determinanti sociali è riconosciuta l’importanza della verbalità in famiglia, ossia della qualità particolare e del ruolo della verbalità quotidiana, con speciale riguardo al contributo materno in fase di verbalizzazione precoce rispetto a quello paterno. Un elenco esauriente dei possibili deficit “minori” e particolarmente delle possibili co-morbidità (tra cui tendenzialmente “fatale” la disattenzione grave, con o senza iperattività) potrebbe occupare più pagine: la pubblicistica mondiale in materia è una delle più ampie di sempre, con la presenza in Internet di ben oltre un milione di articoli in materia negli ultimi dieci anni.
Ci si chiederà: tutto questo rumore per una lettura lenta e impacciata, anche se essa è evidentemente “sospetta” in un bambino “normalmente” alfabetizzato? E poi: questa sintomatologia di “mala lettura” non è un po’ troppo ridotta o, alla fine, non è obiettivamente marginale per fare della dislessia il disturbo importante che ci viene raffigurato? Qualche decennio fa, nel 1968, qualcuno ha persino ipotizzato che la dislessia non esistesse affatto. Il fatto è che proprio una lettura assai lenta e impacciata in un bambino in possesso di una verbalità già incerta rischia continuamente di mettere “fuori uso”, con effetto immediato, tutta una serie di indispensabili meccanismi di memorizzazione rapida di suoni e segni verbali.
Parliamo di vari tipi di MBT, ossia di memoria a breve termine, uditiva o visiva, o in entrambe le modalità. Si tratta di meccanismi che consentono normalmente, ad esempio a chi ascolta una parola nel linguaggio parlato, di ricordarne la sequenza dall’inizio alla fine senza scordarne i suoni o le sillabe pronunciate in precedenza al momento conclusivo, ovvero in sede di pronuncia dei fonemi finali della stessa.
Un eccessivo, laborioso rallentamento del lavoro fonologico nella lettura costringe il lettore a mettere in funzione meccanismi di memorizzazione volontaria supplementare che, se non debitamente automatizzati, vanno a indebolire o ritardare fatalmente tutto il processo di interpretazione della frase e, alla fine, rendere ardua anche la comprensione finale di quanto letto. Una prova contenuta in un noto test americano di una quarantina di anni fa chiede di riconoscere parole i cui fonemi vengono pronunciati a uno a uno in “staccato” con pausa di un secondo tra uno e l’altro… una prova facile? Per alcuni sì, ma… provate a rispondere rapidamente a una domanda solo un poco complessa, formulata fonema per fonema in questo modo.
In sostanza, molte delle difficoltà del bambino dislessico nascono da lentezza per mancata automatizzazione (e dunque, in termine tecnico, in procedura “manuale”, anziché automatica) dei processi più elementari, o più “bassi”, della lettura, quelli legati al riconoscimento delle lettere scritte (grafemi), alla trasduzione corretta delle stesse in fonemi, alla ricomposizione o ricodifica della parola e alla identificazione di quest’ultima; con la conseguente, dannosa occupazione di energie cerebrali, mentre il normale “buon lettore” può profittare invece ogni volta di tali energie per dedicarle “in parallelo” al processo veloce di analisi sintattica e grammaticale e più in là, sempre in parallelo, ai meccanismi decisivi legati alla comprensione precisa e rapida del testo.

La dislessia a scuola
Forse conviene anzitutto ascoltare meglio: il bambino dislessico ci chiede in vari modi di aiutarlo a leggere e scrivere meglio, e più in là a operare meglio lungo quello che definiamo “registro sensoriale verbale-uditivo”.
Il docente informato ascolta e opera, ma è cosciente, anche per esperienza, del fatto che le difficoltà maggiori sono legate nella dislessia più a fattori cognitivi “pesanti”, certamente non senza correlati sul piano cerebrale (e come tali di evidente rigidità), che non alla semplice mancanza di motivazione ed esercizio, e che quindi, tra l’altro, l’invito a incrementare più o meno all’infinito letture anche semplificate può essere benefico solo entro livelli accettabili di sforzo e d’umana sopportazione (alcuni genitori andrebbero anch’essi meglio informati e orientati in questo senso). Più adeguato al tipo speciale di difficoltà del bambino appare certamente uno sforzo che non trascuri le componenti più “meccaniche” dell’apprendimento verbale, ad esempio con adeguati esercizi di pronuncia e memorizzazione ripetute, con il prevalere dell’esercitazione diretta rispetto alla formulazione di norme e regole astratte, e operando secondo più modalità sensoriali (presentazione di immagini visive o gestuali… anche i movimenti della bocca e della lingua durante la fonazione vengono memorizzati). Importanza notevole dovrebbe essere attribuita all’osservazione, con grande attenzione nell’individuare i punti critici della prestazione scolastica verbale, così come i limiti individualissimi di frustrazione in fase operativa. In ogni caso, una volta scelto di concentrarsi maggiormente su questi aspetti, il cammino può essere anche molto diverso da quello del passato.
Per concludere, un episodio. Una ventina d’anni fa un docente universitario europeo, germanofono, noto esperto nel campo della dislessia, ottenne dal proprio ministero di poter finanziare l’istituzione sperimentale di un gran numero di corsi scolastici extra-curricolari per dislessici in piccolo gruppo, un corso per scuola, provvedendo anche alla formazione onerosa dei docenti. Ebbene, neppure due anni dopo, e a valle di rigorose verifiche metodiche pre-programmate in corso d’opera (così opera anche l’accademia, quando è seria) si dovette constatare che i risultati stessi erano ben poco soddisfacenti, praticamente irrilevanti rispetto agli sforzi. Il noto professore decise allora di reagire: sospese e modificò il progetto e alla fine segnalò molto coraggiosamente in pubblico la non riuscita del progetto originario.
Una sconfitta per il brillante accademico! Il fatto è che la momentanea sconfitta era tale solo in parte, poiché si era dimostrato in maniera definitiva, seppure a caro prezzo, un principio oggi da tutti accettato, ossia che un trattamento anche minimamente efficace della dislessia è realizzabile solo sul piano dell’intervento strettamente individuale. Ossia: le cause della dislessia sono molteplici, e ogni bambino con dislessia è quindi un caso unico, un’unica combinazione di fattori, da affrontarsi anzitutto sulla base di una attenta e paziente osservazione.

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Giancarlo Tucci

È psicologo clinico (Università di Friburgo-Germania) e Linguista (Università di Pisa), ed è stato insegnante di ruolo di Lingua straniera (Tedesco, Inglese, Francese, Italiano) all’estero e in Italia. Opera attualmente come libero professionista e pubblicista in tema di DSA, tra Dislessia e apprendimento di Lingua 2. 
È autore Loescher con due contributi pionieristici alla pratica dell’insegnamento curricolare della Lingua tedesca per allievi con Dislessia evolutiva (2012, 2014). g.tucci.psy@siscom.it

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