Il pensiero illuminista del XVIII secolo attecchisce abbastanza presto in Maremma. Forse, perché essa rappresenta un evidente residuo d’un mondo arcaico e perduto, decaduto durante il medioevo e quindi bisognoso di redenzione. E un illuminista non si sarebbe mai accontentato di una visione assoluta e astratta come quella dantesca: l’inferno sulla terra. Un illuminista ha bisogno di vedere, osservare, descrivere e, a partire dai dati dell’osservazione, approfondire le cause dei fenomeni, i motivi economici e sociali che hanno contribuito a costruire un ambiente, un territorio. Vuole modificare la realtà, migliorarla. Per questo ha bisogno di informazioni precise e di indagini accurate che possano metterlo in condizione di progettare il futuro, di entrare nel corso della storia per cambiarne la direzione.
La condizione infernale è eterna e immutabile. Non può essere condivisa da chi vuole cambiare il mondo. Per questo la Maremma, che tra il 1300 e il 1700 non ha conosciuto miglioramenti di sorta, è considerata una figlia derelitta, una donna sfortunata e debole che ha bisogno di qualcuno che sia in grado di prendersi cura di lei. Nasce così la visione paternalista di una terra da risollevare, tipica dei sovrani lorenesi. I grossetani possono osservare questa immagine ogni giorno nel monumento a Leopoldo II di Lorena, detto Canapone, nella piazza centrale della città. Leopoldo è immortalato nell’atto di sollevare una bella donna prostrata, incapace di allattare i propri figli e insidiata dal serpente: la malaria. E se la Maremma è una donna debole, quindi, il suo governante deve per forza essere un uomo potente e robusto, in grado di darle sostegno sottraendola al dominio della malattia e, quindi, della palude.
La Maremma, per essere salvata, ha bisogno di essere conquistata. D’altronde, secondo le teorie economiche fisiocratiche, l’economia avrebbe dovuto trovare il suo fondamento nella terra da coltivare, e la Maremma, in una prospettiva toscana (e fiorentinocentrica), diviene la principale fonte di terra “nuova”, da strappare a quella natura che per troppo tempo l’ha sottratta al lavoro degli uomini. Ed è una visione che durerà nel tempo, che sarà ripresa anche dalla retorica fascista della “bonifica integrale” e poi da quella democratica della riforma agraria, e che può essere sintetizzata nell’immagine dell’uomo che lotta con la natura per trasformare l’inferno in un paradiso terrestre, una specie di nuovo giardino dell’Eden.
È a questa visione che si riaggancia, all’inizio dell’era repubblicana, terminata la bonifica fascista e sterminate la zanzara anofele grazie al DDT degli americani, la proposta degli scrittori Carlo Cassola e Luciano Bianciardi. Cassola, che si trasferisce a Grosseto nel 1948, ha poco più di trent’anni e fa l’insegnante. Bianciardi, di cinque anni più giovane, a Grosseto è nato e dopo la guerra è tornato per fare il bibliotecario. Proprio nel 1948 il futuro autore di Fausto e Anna pubblica un articolo intitolato Grosseto come Kansas City, nel quale si afferma che la città verrebbe percepita dai suoi abitanti e dai viaggiatori come una “città dell’avvenire”, “terra di conquista”, “eldorado”. La stessa tesi è ripetuta e arricchita in un articolo dello stesso Cassola del 1951, dove si introduce il paragone ancora più ardito tra la Maremma e il West, tra la bonifica e la conquista del West, per poi essere recuperata da Bianciardi per la prima volta nel 1952, nell’articolo La periferia di Grosseto avanza verso la campagna e poi nel suo primo libro, Il lavoro culturale, pubblicato da Feltrinelli nel 1957.
Grosseto-Kansas City è una città moderna ed evoluta, “una città di sterrati, di spazi aperti, al vento e ai forestieri”, una città “tutta periferia” e, questo è l’importante, in grado di essere centrale proprio grazie alla sua perifericità: laddove periferia diventa sinonimo di esperimento e di progresso e dove il paesaggio diventa il correlativo oggettivo di una cultura, di una visione del mondo:
Noi ordinavamo bicchierini di grappa e si restava lì un paio d’ore, a sorseggiarla, a guardare i camionisti, a parlare di letteratura. Letteratura americana, naturalmente; e veniva sempre il momento in cui il nostro ospite osservava che quell’angolo di provincia, così, con la sua campagna a ridosso e la grande strada della capitale, e i camionisti, un posticino così, tranquillo, bene illuminato, pareva proprio uscito da una pagina di Hemingway. O di Saroyan.
La provincia doveva essere un po’ tutta così, fosse America o Russia, o la nostra città. La provincia, culturalmente, era la novità, l’avventura da tentare. Uno scrittore dovrebbe vivere in provincia, dicevamo: e non solo perché qui è più facile lavorare, perché c’è più calma e più tempo, ma anche perché la provincia è un campo d’osservazione di prim’ordine. I fenomeni sociali, umani e di costume, che altrove sono dispersi, lontani, spesso alterati, indecifrabili, qui li hai sottomano, compatti, vicini, esatti, reali.
[…] Nella nostra provincia si poteva ricominciare tutto daccapo, e in Italia, in quanto a cultura (ma anche per il resto) c’era proprio un gran bisogno di ricominciare tutto daccapo.
Non ci sono più sovrani o dittatori. Ormai la Maremma è terra di sterratori, di badilanti e – novità assoluta – di minatori: i nuovi protagonisti di una storia che sembra ancora lineare e che, dall’inferno, conduce dritta a Kansas City, la città aperta al vento e ai forestieri, dove tutto è ancora possibile per chi voglia e sappia goderne i vantaggi.
Sappiamo poi, noi lettori di Bianciardi (e noi grossetani), come finì il mito di Kansas City. All’inizio degli anni Sessanta, col boom economico, la corsa della città verso il progresso rallenta e si esaurisce, trasformandosi in qualcos’altro: un luogo terribilmente triste, privo di prospettive.
Kansas City si è fermata, e pensa ormai quasi soltanto a “valorizzare” la costa; spera negli svizzeri, negli svedesi, negli attori del cinema, nelle mogli dei presidenti.
E da allora, pare, i suoi abitanti – divenuti nel frattempo, da trentamila che erano, ottantamila – vagano smarriti per le strade a domandarsi chi sono, da dove vengono, dove mai finiranno.
N.d.r. Le bellissime immagini d’epoca sono tratte dal sito La memoria della terra, che raccoglie fotografie, racconti, storia, tecniche della bonifica (a cura del Consorzio Bonifica Grossetana).