Il percorso nei regni dell’Aldilà ha condotto Dante dalla selva oscura alla selva spessa dell’antica foresta dell’Eden. Giunto sul pianoro che sovrasta la montagna del Purgatorio, col trentesimo canto avviene l’incontro tanto atteso con la donna che ha deciso e voluto per lui quel viaggio: reclamata nel latino dei versi del Cantico dei Cantici, dell’Eneide e del Nuovo Testamento a rendere più solenne il momento, ecco che, in una nuvola di fiori, appare Beatrice. L’incontro provocherà in Dante fortissime emozioni: stupore, paura, vergogna per le colpe che Beatrice, proterva e accusatoria, gli attribuisce; poi angoscia, un’angoscia tutta fisiologica che si accompagna allo sciogliersi nel pianto del gelo del cuore. La donna è velata, quindi il suo viso non è ancora attingibile in tutta la sua rinnovata bellezza paradisiaca, tuttavia per Dante sono prima e sopra tutto le emozioni rivelatrici dell’amore che divampano nei versi, quasi si diffondessero dalla fiamma viva del colore del vestito di Beatrice.
Gli effetti dell’amore
Dante infatti sente «la gran potenza d’antico amor», affranto, tremante, in uno sconvolgimento fisico che è esattamente quello stesso già provato da giovane quando, grazie a una sensibilità particolare che è degli innamorati, sapeva, pur senza vederla, avvertiva fisicamente, e la soffriva, la presenza della donna. Così era avvenuto, ad esempio, nella prima parte della Vita Nuova: nel XIV capitolo racconta di essere a una festa di nozze quando si sente svenire, deve appoggiarsi a una parete per non cadere avendo all’improvviso la certezza della presenza di Beatrice, e senza averla vista: una certezza tutta fisica, dovuta al «mirabile tremore» che dal cuore si era esteso a tutto il suo corpo. E così avviene ora, dopo che tanti anni sono passati da quell’amore giovanile e alla sola presenza velata di un’anima del cielo, l’emozione che gli fa tremare le vene ai polsi, che provoca uno tremuoto in tutto il suo essere, dandogli segni inequivocabili della passione, gli fa riconoscere i segni dell’antica fiamma: agnosco veteris vestigia flammae. Appena prima che Virgilio scompaia improvvisamente, Dante ne ricorda, e traduce alla lettera, un verso bellissimo. Bellissimo e non casuale, non innocente.
Si tratta, infatti, della dichiarazione che la regina di Cartagine fa alla sorella, ma in verità a sé stessa, al momento della drammatica consapevolezza di essere innamorata (e fatalmente) dell’esule troiano: «… Anna / (perché non ammetterlo?), dopo la morte del povero sposo / Sichèo, e la casa spruzzata dalla strage fraterna, / solo lui ha scosso i miei sensi, lui solo mi ha fatto tremare / il cuore. Riconosco le tracce dell’antica fiamma» (Eneide, IV, 19-23, traduzione di Vittorio Sermonti). Didone, dunque. È Didone che qui, a quest’altezza del Purgatorio, torna a contrassegnare in modo netto la tipologia di amore che Dante riconosce ancora in sé e che confessa proprio a Virgilio, a lui rivolgendosi: dalla «schiera ov’è Dido» (del V dell’Inferno) all’incontro con Beatrice è l’amore che presenta le caratteristiche della passione che, all’apparenza, continua a dominare la scena. E infatti contraddistingue il sentimento che coglie Dante con i sensi travolti e con il cuore che trema (che tra l’altro sono ancora parole di Didone).
Una sorta di cortocircuito improvviso fra il pellegrino che avanza sempre più leggero sulla strada della salvezza, e che già si è liberato dal peso di tutte le “p” dei peccati che l’angelo gli aveva segnato sulla fronte, e quel giovane fiorentino protagonista della prima parte della Vita Nuova, quando nella ragazza dei suoi sogni non aveva (forse) ancora individuato la donna della salute, o comunque ancora non aveva individuato il giusto modo di amarla.
Perché a questo punto del percorso ricompare in modo così prepotente Didone, il suo amore che conduce a morte, con quello che rappresenta? Sia quello che rappresenta per Dante, per il suo poema fin dall’inizio, a partire dalla tempesta dei lussuriosi che proprio dal nome della regina vengono individuati; ma anche quanto rappresenta per la tradizione medievale e per quel mondo così profondamente simbolico, che nello stesso nome di Didone leggeva il significato riposto della sua esistenza: Dido, id est libido, si legge nel commento sopra l’Eneide di Bernardo Silvestre (XII secolo). E perché Virgilio è qui che scompare, e proprio nel momento in cui Dante in modo così accorato gli si rivolge e gli chiede aiuto?
Credo ci si debba volgere a ritroso lungo il cammino percorso da Dante per cercare una risposta. E fino alla quarta cornice del monte del Purgatorio, all’inizio del XIX canto. Dove, dopo aver a lungo discusso nei canti precedenti con Virgilio proprio su cosa sia amore e quale ne sia il giusto tipo e la giusta intensità, Dante si lascia andare al sonno. Un sonno portatore di un inquietante sogno:
mi venne in sogno una femmina balba,
ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta,
con le man monche, e di colore scialba.
Io la mirava; e come ’l sol conforta
le fredde membra che la notte aggrava,
così lo sguardo mio le facea scorta
la lingua, e poscia tutta la drizzava
in poco d’ora, e lo smarrito volto,
com’ amor vuol, così le colorava.
Poi ch’ell’avea ’l parlar così disciolto,
cominciava a cantar sì, che con pena
da lei avrei mio intento rivolto.
«Io son», cantava, «io son dolce serena,
che’ marinari in mezzo mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena!
Io volsi Ulisse del suo cammin vago
al canto mio; e qual meco s’ausa,
rado sen parte; sì tutto l’appago!».
Ancor non era sua bocca richiusa,
quand’ una donna apparve santa e presta
lunghesso me per far colei confusa.
«O Virgilio, Virgilio, chi è questa?»,
fieramente dicea; ed el venìa
con li occhi fitti pur in quella onesta.
L’altra prendea, e dinanzi l’apria
fendendo i drappi, e mostravami ’l ventre;
quel mi svegliò col puzzo che n’uscia.
Sotto lo sguardo di Dante
Balbuziente, guercia, storpia, senza mani e dilavata nel colore: ecco come appare la cosiddetta femmina balba nel sonno di Dante. Un essere orribile e ripugnante che però, nel corso del sogno, subisce una straordinaria, incredibile metamorfosi: il suo parlare si fa soave, il suo corpo meravigliosamente si disviluppa da quel moncherino che si dimostrava essere, quel volto spento e smorto si ravviva e l’incarnato si colora. Non solo: così trasformata, la nuova immagine di donna inizia un canto di seduzione in cui si dichiara colma di piacere, tanto da saper appagare chiunque. È stata lei, che si dice una dolce sirena, ad aver tentato Ulisse nel suo viaggio, è lei che in alto mare ha il potere di disviare i naviganti dalla loro rotta…
Nel sogno di Dante improvvisamente appare poi un’altra donna, donna santa e pronta a soccorrerlo, che richiama Virgilio al suo dovere; Virgilio, traendo ispirazione da essa (con gli occhi fitti…), che evidentemente proviene dal cielo, si avvicina alla femmina balba, ora con l’aspetto di dolce sirena, e, con un gesto repentino e violento, la afferra e squarcia i drappi che la rivestono. Appare il suo ventre, che ne disvela, nuovamente, la natura autentica. E non più solo la natura esteriore, ma anche intima: un ventre putrido e maleodorante, i cui miasmi hanno la forza di svegliare Dante.
Sul significato di questo sogno e sulle sue molte suggestioni ci si continua a interrogare. Io desidero sottolinearne un aspetto che ritengo decisivo. Il radicale mutamento dell’immagine femminile non avviene motu proprio, come tante delle metamorfosi che incontriamo nella prima cantica del poema: sono gli occhi di chi guarda che agiscono sulla realtà e la deformano, o, in questo caso, la trasformano. È sotto lo sguardo di Dante, in virtù e a causa del suo sguardo, che ciò che era deforme e sgradevole, tanto che l’aspetto manifestava anche un’intima lordura, corrispondente inoltre alla bruttura morale, si altera al punto da apparire esattamente il contrario di quello che nella realtà è. Ciò che dà un’apparenza falsa, ingannevole e seducente a una realtà ben diversa sono gli occhi di chi guarda. In questo caso, gli occhi ottenebrati o abbagliati dall’amore. Dante lo dice e lo ripete: «io la guardavo e il m
Un abbaglio d’amore, dunque, uno sbaglio dovuto all’amore, amore che è desiderio e lussuria: concetti e vizi che la sirena, animale/donna, essere per eccellenza dalla doppia natura, bene incarna e usualmente rappresenta nell’universo simbolico del Medioevo. Oltre a rendere proverbialmente ciechi, l’amore ha il potere di trasformare in bello e seducente, degno di venerazione, ciò che bello non è affatto e che, anzi, nasconde un potenziale pericolo di degrado e di degenerazione morale. La donna, il corpo della donna, tradizionalmente, soprattutto nella tradizione cristiana, è veicolo di un traviamento che viene esercitato attraverso l’attrazione della bellezza: ab Eva principium, si potrebbe dire. Il simbolo della sirena anche qui sta a rappresentarlo icasticamente.
Ma in questa tradizione si innestano potentemente anche presupposti dal valore scientifico: e cioè la concezione patologica dell’amore che la medicina aveva contribuito a diffondere. Come dicono i medici da Avicenna in poi, l’errore di giudizio che sta all’origine della fissazione maniacale dell’immagine dell’essere amato nella mente dell’amante modifica la realtà e falsa la percezione, tanto che l’amante ritiene l’amata l’essere più bello e affascinante al mondo. O, per essere più pedestri e prosaici, come scrive in un fortunatissimo trattato medico un luminare a Montpellier contemporaneo di Dante, quisquis amat ranam, ranam putat esse Dianam: «se sei innamorato, ti sembrerà Diana anche una rana»…
Prosaici e pedestri, ma non per questo meno scientifici e accademici. Bernardo di Gordon, fra le altre cose, spiega come distogliere l’amante patologico dalle sue fantasie con rimedi che ci portano davvero molto, molto vicini a questo passo dantesco… ma non posso qui insistere oltre1.
Quello che è necessario invece ribadire è cosa ovvia, ma è bene non rischiare fraintendimenti e confusione: non certo tutti i tipi d’amore determinano tale devianza della mente e dell’intelligenza, tale rischio potenziale per la mente e per il corpo. È solo l’amore eccessivo, smisurato, oltre misura di natura, come lo definisce Cavalcanti, che ha rilevanza clinica, perché mette a repentaglio la salute fisica dell’amante e ne annulla la lucidità mentale: in quanto ne subordina la ragione all’impulso del desiderio. E ricordiamo dunque il binomio che caratterizza i lussuriosi che la ragione «sommettono al talento»: la condanna etica è corroborata dalla scienza medica più all’avanguardia a quel tempo. Scienza che descrive come la facoltà estimativa dell’individuo preda della passione trasformi ciò che vede in qualcosa che con la verità non ha alcun rapporto.
È come se in questo sogno assistessimo a una sorta di piccola rappresentazione allegorica di ciò che significa lasciarsi adescare dall’amore, una drammatizzazione che si svolge in sogno di quel che produce l’amore quando agisce sulla facoltà più nobile dell’individuo annullandola, quando l’amore sia totalmente dissociato dalla ragione.
A spiegazione di questi ultimi versi dedicati allo svelamento di ciò che è nascosto sotto le apparenze, in genere si ritiene che si tratti della misteriosa santa donna precipitosamente giunta per salvare Dante a strappare i drappi che coprono l’orrido ventre. Ma io credo, alla luce della mia proposta di interpretazione del sogno, che sia invece Virgilio a intervenire. È lui che, richiamato a vigilare dalla donna scesa dal cielo, richiamato cioè al preciso compito che gli è stato assegnato fin dall’inizio del viaggio, squarcia le vesti della donna, in modo da scoprire ciò che nasconde la falsa immagine creata dai sensi, dal senso della vista, per effetto del desiderio (come amor vuole).
Virgilio viene a inverare un’ennesima volta la sua precipua funzione, a rappresentare efficacemente quello che è il valore principale di cui è investito il suo personaggio: la ragione umana, la sua potente capacità di capire e scoprire dove si trovino il bene e il male, di consentire all’uomo, nella sua personale libertà, di sceglierli liberamente, a patto, appunto, che non si lasci ottenebrare dalla seduzione dei sensi.
Un sentire umano e terreno
Sarà proprio di questo che Beatrice accusa Dante nel corso della sua lunga intemerata: di aver seguito false immagini di bene, di aver accondisceso alla tentazione di piaceri mondani, e di aver così trascurato di seguire il sommo piacere che lei sola in terra poteva rappresentare e che gli avrebbe aperto la via al sommo bene. Dante, al momento in cui si trova davanti a Beatrice nel paradiso terrestre, è ancora gravato da quella colpa, tant’è che è solo passando attraverso il processo che gli viene riservato, all’ammissione di colpevolezza, alla piena confessione, alla vergogna e al pentimento, che potrà immergersi nelle acque del Lete e dimenticarla.
Dante non si è ancora totalmente liberato dalla dimensione dell’amore passionale, da quel dominio del desiderio che lo porta a non avere dramma di sangue che non tremi quando sente la presenza di Beatrice, e a riconoscere in sé i «segni fatali dell’antica fiamma». Quei segni d’amore che permangono immutati nel personaggio Dante, personaggio della Vita Nuova e poi personaggio del poema, nonostante il faticoso percorso ultraterreno che ha fin lì affrontato, e che richiamano alla bufera infernale tramite l’evocazione della regina virgiliana e del suo significato simbolico.
In tutto questo, anche l’incontro con Matelda, avvenuto nei canti precedenti, con la bella donna che canta un canto d’amore come donna innamorata, può essere letto attraverso la sfumatura di un risveglio dei sensi del protagonista, e mostrare quanto il personaggio Dante, che pure ha già salito i gradoni purgatoriali, sia ancora legato a un sentire ben umano e terreno. D’altra parte, per lui è subito ben chiaro che le accuse rivoltegli da Beatrice riguardano precisamente l’ambito erotico, e le sue risposte si adeguano, indagando nel suo proprio passato e riconoscendone le devianze. Appena riesce a trovare la forza e la voce di parlare, ammette:
Piangendo dissi: «Le presenti cose
col falso lor piacer volser miei passi,
tosto che ’l vostro viso si nascose».
La Vita Nuova però ci aveva raccontato una storia diversa delle scelte amorose del suo protagonista: storia di sublimazione dell’amore e di idealizzazione di Beatrice. La scoperta di un sentimento che non chiede nulla in cambio nei confronti di una donna cantata come un altro Cristo sulla Terra, quindi la mitizzazione di lei e la celebrazione dell’amore-caritas. Un amore che, per la sua stessa natura, non sarebbe dovuto venir meno alla morte di lei, offrendosi anche quale garanzia di devozione eterna.
Ma se al primo incontro fra Dante e Beatrice in Purgatorio si svolge un vero e proprio processo al comportamento di Dante, questo si rende necessario perché, fra le promesse (e le premesse) della Vita Nuova e l’inizio della Commedia qualcosa è andato storto: il percorso di Dante non è stato lineare, da Beatrice a Beatrice, non si è svolto nella fedeltà a una specifica tipologia d’amore guidato dalla ragione e dalla virtù soprannaturale della donna che lo aveva suscitato.
Fin da dentro, e poi oltre la Vita Nuova, là dove, nel nome di Beatrice, veniva lanciato un ponte verso un poema che l’avrebbe glorificata, Dante ha tradito il seme di virtù in lui infuso, ha mal coltivato il terreno fertile della sua anima, e ha così deragliato da quella dritta via sulla quale lo aveva indirizzato il volto giovinetto di lei. È questo che gli rimprovera la ritrovata Beatrice, e circostanzia momenti e tradimenti: pargolette amate e cantate insieme ad altre novità di breve uso.
Ma il vero tradimento, al di là delle singole circostanze e occasioni, è quello che lo ha indotto a tali occasioni: una linea morale relativa al sentimento amoroso affatto divergente rispetto a quella individuata e scelta nel libello giovanile. E conclude:
Tanto giù cadde, che tutti argomenti
a la salute sua eran già corti,
fuor che mostrarli le perdute genti.
Per questo visitai l’uscio d’i morti
e a colui che l’ha qua sù condotto,
li prieghi miei, piangendo, furon porti.
Dante è così sprofondato nella selva infernale per aver abbandonato uno stile amoroso cui è indispensabile l’accompagnamento della ragione, e per averne invece adottato uno che conduce a morte, spirituale e fisica: quello di un amore armato della stessa spada ond’elli ancise Dido, come dichiarerà in una delle sue canzoni più passionali scritte, appunto, dopo la Vita Nuova.
Per questo Beatrice è scesa dal cielo e ha visitato l’uscio dei morti, per questo ha offerto a Dante la possibilità di recuperare ciò che aveva smarrito dopo la sua morte: la Ragione, la guida della ragione che nel poema è straordinariamente personificata da quel Virgilio che Beatrice sceglie di mettere al fianco dell’amico suo.
Dante ha peccato, ha tralignato perché nelle cose dell’amore, una volta scomparsa Beatrice dalla sua vita, il fedele consiglio della ragione lo aveva abbandonato. E lungo la discesa nel baratro infernale e su per l’ascesa del monte del Purgatorio, pur nella sua progressiva purificazione, quanto alle cose d’amore ancora non l’ha riconquistata a pieno.
Dante che sviene per la pietà dei due cognati, mostrando la sua intima partecipazione alla vicenda di Francesca, Dante che trasforma la femmina balba in una dolce sirena dimostra di avere ancora bisogno di Virgilio, che, in quanto Ragione, lo aiuti a discernere la realtà nascosta sotto gli inganni del desiderio.
È Beatrice, con la straordinaria, inattesa personalità di cui è dotata nel poema, che lo ha posto così sotto una lunga tutela. Non più necessaria dopo che Dante abbia ricapitolato minutamente e con nuova lucidità gli errori della propria vita amorosa e morale, ne abbia preso coscienza, abbia recuperato il senno e, con esso, anche uno sguardo verso di lei purificato (anche se ancora Troppo fiso!), e con li altri sensi… spenti, come si dichiarerà all’inizio del canto XXXII.
Ecco che allora Virgilio, dolcissimo padre, ragione «esterna», di appoggio, di Dante personaggio, può lasciarlo “scemo di sé” e non essere poi più rimpianto.
NOTE
- Vedi il mio Fisiologia della passione. Poesia d’amore e medicina da Cavalcanti a Boccaccio, Sismel-il Galluzzo, Firenze 2015.