COP27: la finestra è ancora aperta?

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L’anno scorso, alla conferenza ONU sui cambiamenti climatici di Glasgow, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden chiedeva: «Faremo quello che è necessario o faremo soffrire le future generazioni? Questo è il decennio decisivo sul clima e la finestra si sta chiudendo rapidamente». In questi giorni si tiene in Egitto la nuova edizione del vertice, ma poco sembra essere cambiato, e anzi, la sfida globale sembra ancora più ardua.

 

Sulle rive del mar Rosso stanno arrivando migliaia di personalità più o meno note del mondo politico, scientifico ed economico per prendere parte alla conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, o COP27. Gli incontri ufficiali sono appena iniziati nella città egiziana di Sharm el-Sheikh e già si accendono le prime polemiche, come spesso accade in occasione di questi vertici internazionali, ma se in ballo c’è il futuro del pianeta ecco che la situazione si fa davvero scottante.

Dal 6 al 18 novembre, infatti, capi di Stato, ministri e negoziatori, insieme ad attivisti per il clima, sindaci, rappresentanti della società civile e amministratori delegati si incontrano per affrontare l’emergenza climatica in corso. I temi vanno dalla riduzione sempre più urgente delle emissioni di gas serra allo sviluppo di strategie di adattamento agli inevitabili impatti dei cambiamenti climatici, per mantenere gli impegni assunti per finanziare l’azione per il clima nei Paesi in via di sviluppo. Di fronte alla crisi energetica, concentrazioni record di gas serra ed eventi meteorologici estremi sempre più frequenti, la COP27 dovrà cercare una non facile solidarietà internazionale, per realizzare l’accordo di Parigi del 2015.

Per capire meglio la posta in gioco alla conferenza di quest’anno abbiamo fatto qualche domanda a Elisa Palazzi, ricercatrice presso l’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima del Consiglio Nazionale delle Ricerche e professoressa associata presso l’Università degli Studi di Torino. In particolare, le abbiamo chiesto quali sono i principali temi in discussione e perché sono importanti.

Alla COP27 si dovrà per forza ripartire da quanto lasciato in sospeso alla precedente conferenza di Glasgow: rafforzare i piani di riduzione delle emissioni da parte dei governi per limitare la crescita della temperatura media globale a 1,5 °C a fine secolo rispetto ai livelli pre-industriali. Allo stato attuale, infatti, gli impegni volontari degli stati sono troppo poco ambiziosi e porterebbero a un aumento della temperatura media globale di circa il doppio rispetto agli obiettivi di Parigi. La revisione dei piani è stata resa obbligatoria dal Patto siglato a conclusione della COP26, tra l’altro in quel caso si è stilato un patto e non un accordo. L’altro punto critico lasciato in sospeso è quello relativo ai finanziamenti (promessi 100 miliardi di dollari, stanziati solo in parte) da parte dei paesi ricchi (maggiori responsabili della crisi climatica) verso il Sud del mondo per l’adattamento al cambiamento climatico e per coprire i danni e perdite subiti.

Elisa Palazzi è ricercatrice del CNR, docente universitaria e autrice di libri divulgativi sul clima.

Questi nodi sono innegabilmente cruciali, ma ci sono anche altri problemi urgenti che dovrebbero essere affrontati e che invece sembrano mancare nell’agenda della conferenza? Su questo Palazzi aggiunge un’altra riflessione quanto mai attuale, vista l’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo, che ha riportato in primo piano nel dibattito mondiale la questione degli armamenti.

Un tema importante che non ha mai trovato davvero spazio nelle COP è il conteggio delle emissioni del settore bellico. Il settore militare è una fonte enorme di emissioni di gas serra (oltre che di inquinanti di vario tipo) sia in tempo di guerra che di pace, ma il conteggio di queste fonti emissive è finora stato assente o poco trasparente (e ove presente comunque lasciato alla discrezione delle singole nazioni) – andrebbe invece regolamentato.

Proprio riguardo alle emissioni dell’industria bellica, è stato pubblicato di recente un libro molto interessante: The Pentagon, Climate Change, and War – Charting the Rise and Fall of U.S. Military Emissions della politologa statunitense Neta C. Crawford. In questo saggio l’autrice spiega come il Dipartimento della difesa USA sia diventato il più grande emettitore di gas serra al mondo, e perché non è troppo tardi per spezzare il legame tra sicurezza nazionale e consumo di combustibili fossili. A fine giugno 2022 il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha annunciato che l’alleanza atlantica avrebbe ridotto le sue emissioni di gas serra fino ad arrivare allo “zero netto” entro il 2050, ma osservatori internazionali come il sito Energy Monitor sono scettici e obiettano che l’impegno è molto vago e non sono stati forniti sufficienti dettagli per valutarne l’attendibilità.

Le emissioni di gas serra del settore militare sono enormi ma poco controllate.

Ma tornando alla COP 27 che si sta svolgendo in Egitto, rispetto alle prime conferenze degli anni Novanta, oggi abbiamo accumulato una quantità enorme di conoscenze sui cambiamenti climatici e nonostante ciò gli accordi internazionali fanno ancora fatica a venire applicati. Abbiamo chiesto a Elisa Palazzi come sia possibile e se c’è qualcosa che dovremmo fare di più o meglio.

Per contrastare la crisi climatica serve uno spirito di collaborazione e di fiducia reciproca tra le nazioni, oltre che di pace, e queste condizioni non sempre sussistono. Le COP sono momenti preziosi di scambio e confronto tra i diversi Paesi dell’ONU, oltre che di negoziazione e definizione di accordi. Dal 1995 diversi passi avanti sono stati fatti anche se molto lenti rispetto alla velocità con cui il clima che cambia ha corso e corre tuttora. Gli anni più recenti ci hanno dato una chiara dimostrazione di come la nostra esperienza empirica (eventi estremi sempre più spesso sotto i nostri occhi, per esempio) sia ben sovrapposta ai dati della scienza. Solo che la scienza diceva da anni che le cose con buona probabilità sarebbero andate così. Il 2022 per l’Italia è stato un anno esemplare: una siccità che si è protratta per diversi mesi dell’anno e temperature elevate che potrebbero farne l’anno più caldo della serie storica (o il più fresco dei prossimi anni, come dice qualcuno). Eppure quando i partiti politici hanno presentato i loro programmi in vista delle elezioni di settembre, il clima non compariva certo al primo posto tra le azioni urgenti da intraprendere, elemento senza risolvere il quale ogni altro punto – come lavoro e salute – risulterebbe fallimentare. Perché? Mancano forse le conoscenze di base, manca un dialogo costruttivo e biunivoco tra scienza e politica, manca un lavoro di struttura che superi le politiche di emergenza. Serve una visione integrata che vada un po’ oltre i vecchi schemi, e che metta al centro, per esempio della transizione energetica, gli interessi della collettività.

A proposito dei programmi elettorali presentati alle ultime elezioni politiche, Nature Italy aveva fatto una serie di domande a tutti i partiti italiani per capire il loro posizionamento su temi scientifici come ricerca, salute e clima: non tutti avevano risposto e le proposte erano state piuttosto timide.
Ma dalle urne è uscita una maggioranza che ha espresso il nuovo governo, a cui ora spetta il compito non facile di gestire una gravissima crisi energetica, la pandemia di COVID-19 che non fa più notizia ma non è ancora finita, e appunto la sfida più grande di tutte: affrontare i cambiamenti climatici, come ha scritto in un tweet anche la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen.

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Sara Urbani

Laureata in scienze naturali con un master in comunicazione della scienza, lavora per la casa editrice Zanichelli. Scrive anche per Odòs – libreria editrice e per i magazine online La Falla e Meridiano 13.

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