Contenti perché?

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Gli insegnanti italiani sono piuttosto soddisfatti del loro lavoro, “nonostante tutto”: è quanto emerge dall’analisi dei dati della Rilevazione ISTAT sulle Forze di Lavoro del 2019. Un risultato che può sorprendere e che certamente stride con la rappresentazione più diffusa e stereotipata di questa professione, ma che trova spiegazione nella sua natura articolata e mutevole.
 Dal numero 22 de La ricerca, “Professione Prof”
Un’aula negli anni Cinquanta. Foto Wikicommons.

Nel 2019, l’anno precedente la pandemia (periodo che si decide qui di non affrontare), gli insegnanti italiani attribuivano un voto di circa 8 al loro lavoro, su una scala di soddisfazione da 0 a 10. Non solo: erano anche in media più soddisfatti di chi rivestiva posizioni intellettuali ad elevata conoscenza e specializzazione nel mercato del lavoro, come mostra la tabella.

Soddisfazione media per il lavoro e per diversi suoi aspetti tra insegnanti, occupati in posizioni intellettuali, scientifiche e a elevate conoscenze e altri lavoratori (scala 0-10)

Insegnanti Occupazioni intellettuali Altri occupati
lavoro attuale 8.0 7.6 7.4
tipo di attività svolta 8.5 8.1 7.7
clima e relazioni di lavoro 7.8 7.6 7.5
stabilità del lavoro 7.9 7.2 7.2
numero di ore lavorate 7.6 7.1 7.1
guadagno 6.5 6.6 6.5
carriera o giro d’affari 6.1 6.7 6.0

Fonte: nostre elaborazioni sui dati ISTAT – Rilevazione Nazionale sulle Forze di Lavoro, 2019

Osserviamo che la soddisfazione degli insegnanti è nettamente maggiore a quella degli altri occupati, in professioni intellettuali e non, e non solo per il lavoro attuale in generale. Gli insegnanti sono infatti più soddisfatti degli altri lavoratori anche per molti singoli aspetti specifici: tipo di attività svolta, clima e relazioni di lavoro, stabilità e ore lavorate. Sono presenti due sole eccezioni a questo quadro positivo, guadagno e opportunità di carriera, ambiti sui quali si tornerà nel seguito. Oltre a ciò, si consideri anche che, negli anni precedenti la crisi pandemica, non solo il quadro era già a favore degli insegnanti, ma che questi avevano anche vissuto una tendenziale crescita della loro soddisfazione. Inoltre l’ampia maggioranza degli insegnanti rifarebbe la stessa scelta professionale, se potesse tornare indietro. Questo insieme di risultati di ricerca1 genera di solito sorpresa, anche tra gli insegnanti stessi, quando non addirittura reazioni infastidite, che portano a mettere in discussione la validità delle modalità con cui i dati sono stati raccolti e analizzati.

Del resto, lo sappiamo tutti, l’insegnante tipo è spesso rappresentato (e tende a rappresentarsi) come un factotum alle prese con generazioni di bambini e giovani sempre più difficili e impreparati, con bisogni educativi sempre più individualizzati, con genitori esigenti e critici, con carichi burocratici pressanti in contesti normativi perennemente in cambiamento. A questa rappresentazione si aggiungono poi solitamente altri tre ingredienti: la retribuzione bassa, soprattutto se comparata con quella dei colleghi stranieri; la diffusa convinzione che vi sia scarsa considerazione sociale verso chi fa un lavoro tanto utile, delicato e importante per la collettività; casi, più o meno aneddotici e spesso ampiamente raccontati sulla stampa, di situazioni di malessere estremo di singoli insegnanti. Frequentemente, chiude il cerchio di queste rappresentazioni l’idea che, un tempo, gli insegnanti erano davvero presi sul serio dai loro studenti, rispettati dai genitori e riconosciuti socialmente per il loro ruolo nella comunità.

Alla luce di tutto ciò, come possono quindi essere veri i dati che raccontano di una popolazione di insegnanti generalmente soddisfatta del proprio lavoro? Evidentemente, i conti non tornano.

Una foto di classe degli anni Trenta. Fonte Wikicommons.

In effetti, i tratti della descrizione stereotipa degli insegnanti che abbiamo ripercorso poco sopra sono in parte veri e in parte no, come mostrano già da tempo diverse ricerche. Un esempio di quanto sia distorcente pensare a un’età dell’oro per gli insegnanti viene dalla lettura dei primi testi che nella sociologia italiana si sono occupati di questa professione, alla fine degli anni Sessanta del Novecento: già allora, mezzo secolo fa, si analizzavano in dettaglio i molti elementi sottostanti la crisi dell’insegnamento2.

Il fatto è che quella dell’insegnante è, per sua posizione strutturale, un’occupazione in perenne stato di crisi. Gli insegnanti si collocano infatti a cavallo tra generazioni nei processi di selezione e trasmissione, dagli adulti di oggi agli adulti di domani, di valori e saperi che, collettivamente, reputiamo degni di nota. Al contempo, gli insegnanti sono professionisti con ampi margini di autonomia e discrezionalità nello svolgimento dei loro complessi compiti lavorativi, pur operando all’interno di organizzazioni burocratiche piuttosto codificate nella gestione di spazi e tempi e nella rendicontazione formale di quanto accade. Infine, gli insegnanti sono quotidianamente alle prese con dilemmi nell’esercizio della loro professione3; ne citiamo alcuni a titolo di esempio: quanto dedicare spazio alla trasmissione di conoscenze e allo sviluppo di competenze e quanto all’educazione e socializzazione a valori comuni? Preservare la tradizione di saperi e valori sedimentati collettivamente o lasciare spazio all’innovazione? Nella stessa didattica, quanto preservare forme consuetudinarie di riflessione lenta basata su lettura e scrittura e quanto invece assecondare apprendimenti esperienziali veloci? Essere inclusivi e integranti promuovendo eguaglianza o invece selezionare in base a standard e promuovere la valorizzazione delle differenze?

Insomma, al ruolo di insegnante ben si attagliano metafore come quella del ponte o della cerniera, che rimandano a questo essere costantemente “tramite” tra diverse parti e istanze contrapposte, quindi in una posizione di frequente gestione di elementi di crisi. Se questi esempi possono aver fugato l’idea dei bei tempi d’oro dell’insegnamento (a meno che non si voglia tornare al Giulio Perboni di Cuore…) e averci resi cauti rispetto alle rappresentazioni stereotipe dei docenti, non ci hanno però spiegato la soddisfazione che riscontriamo tra questi.

In tal senso, ci aiuta soprattutto osservare che, nella rappresentazione che viene fatta degli insegnanti, si dimenticano diversi aspetti cruciali di questo impiego. Ne discutiamo qui quattro, tra gli altri, illustrando perché, a nostro avviso, possono gettare luce sull’inattesa soddisfazione degli insegnanti.

Un primo aspetto è la dimensione vocazionale alla base di questo impiego. Non si intende affermare che tutti gli insegnanti abbiano scelto questo impiego: i dati disponibili mostrano che sono piuttosto frequenti anche le situazioni in cui si finisce a insegnare per caso4. Restano comunque maggioritari quelli che hanno davvero scelto di insegnare, sin da principio, e questo ovviamente si accompagna a progetti di vita che trovano soddisfazione nell’aver fatto il lavoro che si voleva. Al di là di questi insegnanti per scelta, la dimensione vocazionale va però intesa anche in altro modo, cioè constatando che in questa occupazione sono molte le leve motivazionali che si possono attivare: il piacere per la costruzione di una didattica efficace e per la sua espressione in classe; il gusto per la trasmissione articolata della disciplina studiata; l’orientamento alla cura dei giovani e della loro educazione; l’impegno nello svolgere, ogni giorno, in prima linea, un compito che è salvifico per quei ragazzi e quelle ragazze che trovano nella scuola una via di emancipazione da contesti svantaggiati ecc. In altri termini, non serve essere insegnanti per scelta per trovare la propria vocazione nell’insegnamento e coltivarla, imparando e affinando quotidianamente qualcosa, traendo così soddisfazione dal proprio lavoro.

Si connette a ciò un secondo aspetto, che spiega perché gli insegnanti italiani sono contenti del loro lavoro: è un impiego estremamente adattabile, non solo perché ciascuno può trovare il proprio modo identitario di essere insegnante, ma anche perché le organizzazioni scolastiche sono fatte di spazi laschi e discrezionali e ogni insegnante può trovare la nicchia scolastica relazionale che più gli/le si attaglia, come mostra in tabella l’elevata soddisfazione per il clima di lavoro. Del resto, nelle scuole, si può scegliere di essere presenti con ruoli di responsabilità oppure di limitare il proprio lavoro, letteralmente, al minimo sindacale, e, qualora una scuola sia troppo pressante o presenti un’utenza che chiede di essere insegnanti in forme nelle quali non ci si ritrova, si può sempre trasferirsi altrove. Non occorre arrivare ai casi di opportunismo, che pur ci sono5, di insegnanti che hanno carriere professionali avviate coniugabili con impieghi in regime part-time o che finiscono per essere presenti in classe per brevissimi periodi nell’anno scolastico. Più banalmente, flessibilità oraria negli impegni fuori dall’aula ed elevata discrezionalità nel tempo e nell’impegno dedicato a compiti extra rendono l’insegnamento un’occupazione altamente adattabile alle esigenze dei singoli, come al mutare delle condizioni di contorno nei loro corsi di vita, accrescendo la soddisfazione per questo impiego (si veda, ad esempio, in tabella, la soddisfazione per le ore lavorate).

Un terzo elemento che manca nella descrizione stereotipa dell’insegnamento, ma che viene da pensare sia parte rilevante nei meccanismi sottostanti la soddisfazione degli insegnanti, è la natura del tempo in classe. Con l’eccezione delle scuole/classi/giornate/ore faticose perché l’insegnante si trova a gestire emergenze di varia natura, per gran parte degli insegnanti il tempo in aula è fatto di qualcosa di raro da esperire nella quotidianità della società contemporanea. Nelle aule si respira per buona parte delle lezioni un tempo sospeso e dedicato interamente dall’insegnante al qui e ora, con un sottofondo fatto di routine, silenzio e concentrazione. Si tratta di qualcosa che si ritrova in pochi altri luoghi oggigiorno, un “regno di quiete”, per usare parole di Battiato. Attenzione, è noto che le classi scolastiche sono spesso tutt’altro, dei campi di battaglia relazionale, soprattutto nei contesti più difficili; resta però il fatto che pochi altri luoghi al di fuori della scuola vedono spazi – seppur limitati – fatti di ascolto, di cellulari spenti, di lettura assorta e di scansioni temporali così chiare e così poco interrompibili quali sono le ore scolastiche.

Un quarto e ultimo aspetto, poco quantificabile e forse per questo poco presente nelle descrizioni del lavoro di insegnante, ha a che fare con la sua natura, con il suo senso più profondo, ed è in parte intercettato in tabella dalla riga sul tipo di attività svolta. Come si è scritto sopra, un insegnante che trova la sua vocazione nell’insegnamento ha il privilegio di trovare un senso intrinseco nel proprio lavoro, in una società nella quale domina tra i lavoratori qualificati il fare gli interessi dell’azienda per cui si è impiegati oppure l’adempiere in modo formalmente non eccepibile al proprio mansionario. L’insegnamento, per le sue dimensioni di cura e di trasmissione del sapere, unitamente alla sua natura gratuita verso le generazioni future, è uno spazio nel quale chi lavora, a fine giornata, può molto più spesso rispondere con soddisfazione alla domanda “a cosa è servito quel che ho fatto oggi?”. Il senso di quel che si fa, motore importante per essere soddisfatti del proprio impiego, trova eco per molti insegnanti nell’aver lasciato qualcosa nei percorsi futuri dei giovani, vuoi che sia un po’ di apprendimento di matematica, l’interesse per le lingue, il ricordo di un bel romanzo, una riflessione su come si convive pacificamente con gli altri oppure l’aver contrastato un po’ della diseguaglianza sociale che ci circonda, “salvando” il Pierino di turno. Per un impiego come l’insegnamento, che mette quotidianamente in moto molti meccanismi riflessivi, la soddisfazione passa quindi anche dal riconoscere il senso profondo di quel che si fa. Sembra una visione poetica dell’insegnamento, questa, ma basta parlare con gli insegnanti felici di aver finalmente visto uno studente “raggiungere il sei” oppure affranti perché non capiscono proprio come porsi con una classe difficile, per capire che la dimensione di presa in carico dell’altro permea l’insegnamento, diventandone croce e delizia per chi fa questo lavoro.

Una foto di classe degli anni Sessanta. Fonte Wikicommons.

Dopo queste brevi considerazioni su alcuni dei meccanismi che generano soddisfazione tra gli insegnanti, “nonostante tutto”, è forse utile ricordare che la soddisfazione elevata dei docenti non significa che vada tutto bene nella scuola, e che ci sono diverse questioni aperte.

Ad avviso di chi scrive, la più importante è legata alla necessità di preservare modi diversi di essere insegnanti, valorizzandone la ricchezza e smettendo di fingere che tutti gli insegnanti siano uguali. Come argomentato più diffusamente altrove, la scuola è un incredibile serbatoio di professionalità, che oggi sono lasciate al volontarismo e che non sono adeguatamente supportate con formazione dedicata e valorizzazione di carriera. È un errore continuare a trattare allo stesso modo insegnanti opportunisti che fanno solo quanto espressamente previsto dal loro contratto e insegnanti che, di fatto donando proprio tempo di vita, investono nella scuola in cui sono, creando opportunità di crescita e apprendimento per i propri studenti, di scambio e collaborazione con i colleghi e di sviluppo per l’intera comunità educativa. È un errore anche ricompensare come gli altri gli insegnanti che scelgono di fare scuola nei contesti più difficili e deprivati, dove finiscono per essere spesso circondati da supplenti di passaggio. Riconoscere spazi di carriera e di retribuzione differenziata è una necessità che avvertono gli insegnanti stessi, insoddisfatti nel loro lavoro proprio per questi due aspetti (rispettivamente, esprimendo voti medi di soddisfazione pari a sei e mezzo e a poco più di sei), ed è indispensabile se si vuole ragionare di crescita significativa delle retribuzioni. Aumenti indiscriminati e consistenti degli stipendi degli insegnanti, anche qualora fossero davvero auspicabili per migliorare il funzionamento della scuola, sono destinati a restare nel libro dei sogni, vista la dimensione complessiva della platea dei beneficiari.

Un secondo aspetto da tenere presente è che, come in ogni impiego e soprattutto come spesso accade nelle professioni di cura, esistono i casi di burn-out. La popolazione degli insegnanti è molto vasta numericamente: è necessario pensare anche a misure che prevengano tali esiti e che, quando si verificano, siano di supporto per gestioni non improntate, come spesso accade oggi, ad aggiustamenti informali dagli esiti penosi per i diretti interessati, per i colleghi, per gli studenti e per i genitori.

Un terzo e ultimo aspetto che si vuol sottolineare è che la soddisfazione diffusa non è una risorsa accessoria e nemmeno garantita qualunque cosa accada. Una scuola che funziona bene è necessariamente una scuola attenta al benessere dei suoi insegnanti e, di conseguenza, dei suoi studenti. Mettere al centro del dibattito interventi che promuovano il benessere di chi fa scuola è cruciale per fare funzionare meglio l’istruzione italiana, ed è indispensabile per dare gambe a qualsiasi processo di cambiamento istituzionale.


NOTE

  1. Consultabili tra gli altri in G. Argentin, Nostra scuola quotidiana. Il cambiamento necessario, il Mulino, Bologna 2021; G. Argentin, Under pressure? L’elevata e crescente soddisfazione lavorativa degli insegnanti italiani, 2014-2019, in «Sociologia del Lavoro» n. 160, 2021, pp. 43-66; G. Argentin, Gli insegnanti nella scuola italiana. Ricerche e prospettive di intervento, il Mulino, Bologna 2018; F. Farinelli, G. Barbieri, La soddisfazione per il lavoro di insegnante, in A. Cavalli e G. Argentin (a cura di) Gli insegnanti italiani: come cambia il modo di fare scuola. Terza indagine dell’Istituto IARD sulle condizioni di vita e di lavoro nella scuola italiana, il Mulino, Bologna 2010, pp. 365-385.
  2. Si vedano V. Cesareo, Insegnanti, scuola e società, Vita e Pensiero, Milano 1969; G. Abbiati, Bilancio di 50 anni di ricerca sugli insegnanti nella scuola italiana. Principali risultati e nuove tendenze, in «Scuola democratica» n. 3, 2014, pp. 503-524.
  3. Cfr. E. Besozzi, Società, cultura, educazione, Carocci, Roma 2006.
  4. Cfr. G. Argentin, “Scegliere” di insegnare: vocazione, vantaggi e caso, in A. Cavalli e G. Argentin (a cura di), Gli insegnanti italiani: come cambia il modo di fare scuola. Terza indagine dell’Istituto IARD sulle condizioni di vita e di lavoro nella scuola italiana, il Mulino, Bologna 2010, pp. 51-74.
  5. Cfr. A. Cavalli, G. Argentin (a cura di), Gli insegnanti italiani: come cambia il modo di fare scuola. Terza indagine dell’Istituto IARD sulle condizioni di vita e di lavoro nella scuola italiana, il Mulino, Bologna 2010.
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Gianluca Argentin

è professore associato presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Milano Bicocca; si occupa prevalentemente di ricerca sulle diseguaglianze educative e sul mondo scolastico e di valutazione sperimentale di interventi innovativi in questo campo. Ha pubblicato, con il Mulino, i saggi “Nostra scuola quotidiana. Il cambiamento necessario” (2021) e “Gli insegnanti nella scuola italiana. Ricerche e prospettive di intervento” (2018).

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