“La genetica? Ma l’abbiamo fatta due anni fa!” esclama serenamente E. di fronte alla pomposa richiesta del libro di testo di argomentare per iscritto sulla correttezza o meno delle relative manipolazioni.
Nel caso di E. “due anni fa” corrisponde alla scuola “media” come tutti noi insegnanti affettuosamente continuiamo a chiamarla, anche per poter impiegare, con ostinato romanticismo, l’espressione “maturità” per quell’esame di Stato del quale ciclicamente si discute su vecchi e nuovi media in termini contabili, dimenticando che la sua presenza al termine del percorso scolastico è dovuta al fatto che – per colpa niente meno che della Costituzione! – la scuola rilascia titoli di studio con valore legale. Per E., insomma, è incredibile che la scuola superiore (altra espressione scolpita nell’inerzia lessicale della comunità educativa) le chieda di utilizzare concetti acquisiti al di fuori di essa.
Soprattutto, “due anni fa” restituisce un’idea chiara di cosa sia per E. – che tutti giudichiamo “brava” – la conoscenza acquisita a scuola: ricordo soggetto a labilità, ripetizione meccanica ed esecutiva di sequenze di parole, destinata a funzionare e a essere verificata solo nell’immediato.
L’esatto contrario dell’imparare per assimilazione, con lo scopo consapevole di modificare in modo profondo le proprie strutture cognitive; l’opposto di ciò che viene considerato apprendimento significativo, che nella scuola la moda del momento declina secondo competenze, ovvero capacità di utilizzare abilità e, appunto, conoscenze in contesti variabili.
Competenze – ulteriormente distinte in “cittadinanza” e “assi disciplinari” – su cui per altro E. riceverà a fine anno (lo impongono al termine del primo biennio le norme vigenti) una specifica certificazione.
È facile pronosticare che essa conterrà notazioni positive: un apposito foglio di calcolo, utilizzato all’unanimità da tutti i consigli di classe, compilerà infatti in automatico uno specifico modello esclusivamente sulla base dei voti da lei ottenuti. Il “certificato” è infatti costituito da un numero di voci tale che nessuno sarebbe in grado di tenerle seriamente sotto controllo se davvero volesse osservarle e valutarle durante le diverse attività didattiche e non in modo sommario e sulla base di meccaniche formule matematiche al termine del percorso.
Del resto, la semplificazione procedurale e lessicale è una delle pratiche più condivise dal personale scolastico. È questa la prospettiva culturale che serenamente configura e propone a studenti e famiglie nozioni e procedure non congruenti con la realtà effettiva, ma pienamente comprese e diffusamente utilizzate a scuola.
Appartiene a questa categoria il mostro giuridico del “debito” del primo trimestre (o quadrimestre). Parlare di situazione di insufficienza da colmare appare ai più troppo lezioso; meglio perciò costruire e restituire agli allievi e alle famiglie l’idea di una “rimandatura” di metà anno scolastico, alla quale è necessario porre rimedio in quanto tale: così lo capiscono tutti.
Perché, poi, porsi e porre il capzioso problema della differenza tra “recupero”, strategia formativa attuabile in diversi modi, e “recupero extracurriculare”, che prevede invece presenza a scuola di allievi e insegnanti oltre l’orario di lezione, e quindi richiede da una parte volontà e fatica e dall’altra fondi per la retribuzione? Anche qui è più facile e meno impegnativo restare nel generico.
Del resto, la vita della scuola della Repubblica è ricca di fastidiosi incidenti burocratici. Gli studenti, per esempio, hanno la pessima abitudine di diventare (qualcuno addirittura al quarto anno di corso!) maggiorenni, ovvero di acquisire una serie di diritti e responsabilità tipiche del cittadino adulto.
È dagli anni Settanta dello scorso secolo, quando fu abbassata a 18 la soglia dei 21 anni (che rinviava – salvo rari casi – il problema all’Università), che gli insegnanti si vedono costretti, loro malgrado, a tollerare che coloro che hanno compiuto 18 anni giustifichino in proprio assenze e ritardi, prassi giudicata altamente diseducativa. Ma di una vera e propria eresia professionale sono immediatamente accusati coloro che sostengono che, in presenza di maggiore età, tutte le comunicazioni (compresi i “voti” e le “note”) debbano essere indirizzate in forma esclusiva agli studenti, e che stia alla dialettica figli-genitori risolvere le questioni familiari: “Ci manca solo questo!”. La mentalità paternalistica prevale quasi incontrastata e ha riflessi grotteschi anche sulla recente gestione digitale delle relazioni: dai più viene infatti considerato legittimo, normale, anzi scontato, che lo studente 18enne, per ottenere le credenziali che gli permettano di concretizzare il suo diritto all’accesso in prima persona al “registro elettronico”, debba produrre alla segreteria dell’istituto che frequenta una tanto specifica quanto surreale autorizzazione genitoriale.