La citazione mi è venuta in mente qualche giorno fa, quando ho letto agli studenti una circolare, recapitatami in classe dall’operatrice scolastica di turno stampata in A4 accompagnato da un secondo foglio, su cui ho dovuto firmare per attestare l’avvenuta notificazione ai ragazzi del contenuto della comunicazione, e riprodotta in tante copie quanti sono gli allievi iscritti, in modo da poter essere distribuita ai medesimi. Le famiglie venivano in questo modo informate del fatto che i risultati degli scrutini sono visibili via Internet, sul sito del fornitore del servizio del registro elettronico, mediante inserimento delle apposite credenziali già ritirate e ancora ritirabili in segreteria su apposito modulo, a sua volta stampato. Coloro che non siano in grado di accedere per via digitale, possono inoltrare richiesta di ricevere copia analogica della pagella dei figli. Surreale obiettivo istituzionale perseguito da tutta quest’operazione, come molti dei lettori sapranno di certo: risparmiare sulle spese relative per la carta e l’inchiostro (leggi toner) necessari per la produzione delle pagelle tradizionali!
Negli stessi giorni, mentre in una scuola primaria privata del Nord Est scoppia lo scandalo delle chiavette USB inavvertitamente scambiate, fanno scalpore le dichiarazioni del Ministro Carrozza al convegno “Educare alla rete. L’alfabeto della nuova cittadinanza nella società digitale”, organizzato dal Garante per la Protezione dei Dati Personali, in occasione della Giornata europea 2014, che ha escluso la possibilità di inserire nei curricoli scolastici “una nuova materia sull’agenda digitale” perché “l’educazione digitale è un tema trasversale che va affrontato a livello nazionale, sia per chi utilizza servizi tramite la rete, sia per chi li sviluppa”. La scuola, quindi “deve cambiare la sua struttura seguendo il nuovo modo in cui il sapere si trasmette. Probabilmente nella scuola 2.0 dovrà cambiare anche l’allestimento delle aule, non più con una didattica frontale”. Secondo Carrozza gli insegnanti “devono sapere che parte del proprio tempo è andare sull’educazione digitale, non come elemento aggiuntivo ma come parte della propria professionalità”. Il ministro riconosce anche l’esigenza di un’educazione etica al digitale, che può costituire “un’estensione dell’educazione civica, perché gli strumenti dell’accesso alla rete sono tali, così evoluti e pervasivi, che richiedono anche una formazione etica, non solo tecnica”. Concetti chiari e sostanzialmente condivisibili, almeno in astratto. Perché in concreto non vanno proprio nella direzione di un’innovazione solida e diffusa. Al di là del fatto che è difficile pensare che l’attuale generazione di insegnanti – tra l’altro la più vecchia del mondo dal punto di vista dell’età anagrafica media – possa produttivamente impiegare in modo massiccio e costante strumentazioni e procedure di cui non ha esperienza dal punto di vista dei propri percorsi di apprendimento, i risultati della recente indagine Eurispes ci fanno spietatamente comprendere come siamo di fronte all’ennesima illusione. La media degli investimenti “digitali” del passato è di 5 euro per alunno; i 10 milioni recentemente stanziati per l’aggiornamento dei docenti configurano per il futuro una spesa potenziale di circa 12 euro per ciascun insegnante in servizio effettivo; i 15 milioni destinati alle reti wireless fanno prevedere un’elargizione di circa 5.000 euro per istituzione scolastica. È evidente che con queste somme – che non tengono conto di altre evidenti esigenze, quali la manutenzione e la riparazione delle apparecchiature già in possesso delle scuole – qualsiasi azione innovativa nasce asfittica ed estremamente gracile.